Al momento stai visualizzando Naufraghi
Cala Greca

Come medico della locale Struttura Sanitaria, ho lavorato a Lampedusa agli inizi del ’92, quando si parlava già di sbarchi e sulla banchina del porto venivano radunati i clandestini sorpresi sulla terra ferma, sprovvisti di documenti identificativi, per sottoporli ad una prima valutazione sanitaria. Ho continuato a frequentare per servizio l’isola fino all’anno 2000.

 

NAUFRAGHI

Ferdinando Cirillo, Cala Greca, acquerello

Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed erta, appresso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto… Cominciavo così la prima giornata del Decamerone e la mia montagna, oltre la quale dovevo sperare un orizzonte, era proprio quell’ultima copertina fax nera come la pece, della quale tuttavia ne decifravo il mittente: Sezione Operativa Navale. Avvertiva pure su come comportarsi in caso di cattiva ricezione. Ma la depositai, senza ulteriori indugi, sulle ultimissime circolari e direttive ministeriali riguardanti le febbri emorragiche virali. Mi preoccupai di riesumare infine, facendomelo balenare come il sopravvissuto da un naufragio, un telefono rassegnato nel maremagnum di tutte quelle carte. Non persi tempo nei collegamenti.

– Pronto, pronto? …Passatemi il Comandante dell’Unità.

– Dottore, avete ricevuto l’ultima?

– Proprio poco fa, posso anche assicurarla che l’ho lasciata in cima alle mie più recenti preoccupazioni. Ma il contenuto posso solo immaginarmelo…

Proseguimmo ancora e con cortese urgenza mi sollecitò alla fine una visita medica di controllo su cinquantaquattro extracomunitari, sorpresi dal loro Comando nel tentativo di introdursi illecitamente nel Territorio Italiano.

 

Intanto Elio si divertiva negli abissi marini e scendeva nel regno di Nettuno come un Dio minore; né lo spaventava la calma molle e invitante delle prede che, come sirene procaci e misteriose, lo invitavano nei loro regni. Ma le inseguiva nei loro mimetismi più insoliti, puntando l’arpione su un improvviso bagliore dell’occhio, irretito da quella nuova occasione. Conquistato definitivamente, se gli si spalancavano regni o tombe di corallo: elettriche presenze che gli si segnalavano sulla pelle con correnti e scosse improvvise. Da questi vagabondaggi un giorno risalì con una insolita rete ricolma di tesori: infiorescenze racemose di corallo, alghe rossicce, cernie e saraghi opulenti, sardine neonate trasparenti e mollicce, rapprese come un muco tra le chele o sulle corazze di rugosi crostacei, apparentemente arrese ma che scappavano dalle mani come un mercurio argentato e viscido. In fondo al suo tesoro, benedicente l’insolito sorriso della bocca sdentata, i tasselli di uno scheletro nel loro aspetto eburneo di avanzata mineralizzazione.. Del tutto venne redatto un lungo e pensieroso verbale, nei locali del Locamar, catalogando meticolosamente gli stabili soprammobili, che furono raccolti in una scatola di cartone. Reperti appartenenti alla razza umana, ma una rotta comunque non identificata, che avrebbe ormai proseguito il suo cammino verso la burocrazia degli interventi di rimozione, incassamento, saldatura e tumulazione.

 

Sentivo chiamare Mohammèd. Ma nessuno in particolare si muoveva, solo una folla stipata mi si arrendeva, inutilmente abbandonata e guardinga con i suoi tentacoli di polipo. Nonostante quella presenza, ugualmente il centro accoglienza manteneva tuttavia un’aria disabitata: uno scoglio sul quale i gabbiani piantavano i loro gridi, come chiodi su un’impalcatura deserta. La sentinella intanto fece entrare nella baracca il primo da visitare, mentre altri piantoni distribuivano il cibo e quel polipo, raggrumato e guardingo, sembrava sciogliere le sue molteplici mani, sgranchirsi le braccia, troncando la sua autodifesa in una fiduciosa liberazione. Il primo che entrò lo chiamarono Mohammèd e il terzo pure. Sicché se volevi parlare con uno, in mancanza di una decente identificazione, erano in cento a volere parlare con te e ad inseguirti con gli occhi. In realtà davo migliore ascolto a tutti tacendo, mentre mi si accumulavano pazientemente dentro le loro inconfondibili presenze e mi si svelavano le loro ferite nascoste sotto luride camicie o maglioni. E assistevo all’improvviso mutare della loro pelle: indossavano due tre maglioni, l’uno sopra all’altro, anche due paia di pantaloni. Qualcuno scrostava dai piedi screpolati la salsedine rappresa in chiazze fungine. Qualche altro ancora mi rincorreva, ingigantendo i suoi fastidi, sottoponendomi concitato la salvezza delle sue piccole ferite.  Annotavo invece che chi aveva veramente bisogno taceva. Lo seguivo perciò di nascosto, mentre si aggiustava sul viso una composta indifferenza, decidendo di segnalarlo infine per un soccorso più proficuo. Poi mentre la flebo lentamente rianimava i suoi battiti, lo vidi riordinare i suoi incubi e ricordarmi che per la sua pazzia aveva speso settecento dirham, consegnandoli al Comandante della barca prima della partenza. Una volta imbarcato aveva chiuso gli occhi, restando ancora a cena nella sua casa coi bambini, che si lanciavano ciambelle al miele o datteri. Ma avvertendo distinto il lento dileguarsi nella notte del motore, finì per svegliarsi. Non essendoci molto spazio sulla barca, ognuno dei suoi compagni s’era rannicchiato in uno stretto utero di vita, comunicando a stento con la notte ferma e minacciosa. Dopo qualche ora il paesaggio di partenza si era eclissato dietro le nere nuvole d’oriente e in cielo una luna esangue, timida e preoccupata,velava la sua faccia di cera, collocando su tutte quelle ombre un definitivo cappello di sonno, dal quale ogni tanto qualcuno si svegliava per vomitare l’ultimo pasto o per cantare le nenie della sua infanzia. L’approdo non doveva essere lontano, ma la speranza era diventata troppo incerta, forse perché anche già rovinata in partenza. Mohammèd allora prese a contare e a ricontare quelle settantaquattro ombre che all’alba avrebbe riconosciuto definitivamente, bloccando la sua attesa in una specie di equilibrio instabile, più vicino alla morte che ad una qualsiasi penombra di vita. Così si addormentò, con la sensazione di andare alla deriva o di stare ad aspettare che i galli dell’alba, come ogni mattina, rompessero il sonno della sua casa. Quando poi improvvisamente uno stormo curioso di gabbiani frullò tra cielo e acqua, gli sembrò naturale svegliarsi in un posto di definitiva consolazione. Salvo poi a rendersi conto che non si trattava del giardino di Maometto e che sull’orizzonte la terraferma spuntava come un serpente che si rintanava nel suo cuore.

Ferdinando Cirillo, Case Dammusi entroterra sopra Cala Madonna, acquerello

Oggetto: Zaire – aggiornamento epidemia Ebolavirus. …Lo stato di allarme, determinatosi in seguito alla epidemia di Ebola nello Zaire, comporta che al problema venga accordata la massima considerazione. Il Sindaco e il Responsabile della locale struttura sanitaria, vorranno assumere pertanto le opportune intese per gli interventi del caso. Si fa presente che, durante la permanenza nel piazzale della banchina di attracco, i clandestini abbandonano ogni sorta di oggetti: indumenti, coltelli, lamette… che potrebbero risultare infetti. E’ consigliabile adoperarsi affinché questa area, quando occupata per le operazioni di imbarco, sia opportunamente bonificata e possibilmente disinfettata…

 

Per sfuggire a questa peste, come la compagnia di giovani della Firenze del 1348 che passava il tempo raccontandosi storie, m’ero convinto a studiare musica. In verità era stato un collega più anziano a propormelo, trascinandomi da un venerando maestro in pensione, che superava gli acciacchi con una messa in scena leonina. Solo che dopo le prime lezioni il collega era scomparso, accontentandosi delle sue sonatine ad orecchio, mentre il maestro mi avvertiva che se volevo fare una cosa seria dovevo consegnarmi a lui per una decina d’anni almeno. Poiché il tempo non mi mancava, non prestai molta attenzione alla difficoltà dell’impresa. Ma il mese di Marzo ci caricò sulle spalle il Giudizio Universale. Proprio così mi sovviene infatti la definizione di quel periodo, per un particolare policromo che il Maestro s’era rilassato a dipingere, nei suoi pomeriggi di vendetta sul genere umano, copiandolo dal trionfo del Vecchio Bruegel. La tavoletta me l’aveva regalata perché non sapeva chi gliela avrebbe potuta accettare, mi diceva per incoraggiarmi ad essere superiore. E ogni volta che mi incontrava riprendeva il solito discorso sulle epidemie, riassumendomi brevemente che il flagello era arrivato dall’oriente tra il 1347 e il 1350; che i Tartari nell’assedio di Caffa avevano lanciato dentro la cinta i corpi di alcuni appestati; che da Caffa le navi genovesi, anche a causa dei topi imbarcati, avevano diffuso il contagio prima a Costantinopoli e poi nel bacino del Mediterraneo. Concludendo infine le sue dotte riesumazioni col fatto che la Sicilia era stata contagiata per prima, con una intonazione di privilegio come se da solo avesse penetrato il nocciolo della questione. E punto certamente non secondario divenne per noi un inatteso intensificarsi degli sbarchi. Tanto che ogni mattina al porto sostava sempre qualche squadra di clandestini, pronta per il trasferimento, sorvegliata con prudente disattenzione dalla popolazione, fino a quando si dileguava nel ventre del traghetto. Trasferimento per noi impegnativo dal punto di vista controlli, considerato che il Comandante della nave non avrebbe imbarcato extracomunitari clandestini, se prima non fossero stati opportunamente visitati e refertati. Sempre più spesso ci giungevano poi feriti intirizziti e assenti, rigidi come simulacri. Qualcuno di loro, quando la lena glielo permetteva, raccontava che l’affondamento della barca veniva deciso per non lasciare traccia dello sbarco. Rievocava come ogni volta il Comandante, a poche centinaia di metri dall’approdo, si abbassava per togliere il tappo mentre restava per tutto il tempo sordo, a chi gli si opponeva misurando le sue forze scarne con il muro di acqua che si alzava come una tomba sulla sua testa. Ogni volta poi non era solo questione di feriti. La preoccupazione dei soccorsi poteva infatti durare qualche ora ma la fama, che da quegli interventi ne derivava, invece non conosceva soste. Una fama di epidemie, che mi faceva ruotare il capo ai pettegolezzi che si sfornavano le vecchie sui balconi, mentre dedicavano i loro rosari alla cura dei gerani e della mentuccia. E che mi spingeva alla perlustrazione sanitaria sui disinfettanti, a sorvegliare paure meticolose, chiedendo lumi particolari sul filo del telefono. E raccoglievo silenzioso i fatti della notte. C’era pure infatti chi aveva fatto il conto delle case di campagna scassinate, lasciate inebetite nella solitudine della suppellettile risparmiata, dove una presenza diversa e strana s’indovinava dal tanfo di selvatico che la vinceva sugli usci e sulle finestre spalancate. In qualche casa, i residui di un falò sul pavimento o i duri avanzi di una cena frugale, conservavano le impronte durature della profanazione a chi inseguiva le loro tracce. Ora li andavano infatti cercando dappertutto: dietro i muretti di pietra locale, dentro i ruderi disabitati, nelle grotte vicino al mare. Quasi sempre però venivano a galla da soli. Quando uno meno se lo aspettava te li ritrovavi a passeggiare in paese con quell’aria di terremoto negli occhi, scalzi e con una mano ferma sullo stomaco, quasi ad indicare l’equilibrio più precario della loro rotta.

 

Ferdinando Cirillo, Madonna di Porto Salvo, acquerello

Il vento per quasi un mese continuamente ci accompagnò con raffiche impetuose. In paese sosteneva in rigide riflessioni i pochi frequentatori della piazza: il mare aveva rotto gli argini, spazzato le barche del porto, frantumando il pontile che s’allungava simile a un millepiedi molliccio fino alla punta estrema del molo. Era passato il marrobbio. Trovavo allora rifugio negli angoli nascosti del porto, battendo col vento alle porte a vetri dei piccoli ritrovi. Lì insieme con qualche mortificato pescatore ordinavo trasparenti bicchieri di grecanico, chino al giro di carte dei miei occasionali commensali che, nei momenti di più scura ispirazione, frustavano risentiti il Cielo e le sue due Orse o davano fondo al loro tesoro di pesche miracolose, assistite da misteriose anime purgatoriali, alle quali i familiari da lontano dedicavano novene e accendevano candele benedette. Lì quasi sempre mi raggiungeva il Maestro, sottoponendomi gli estremi bollettini sui clandestini radunati. Nel suo ultimo aggiornamento venivano portati in salvo quattro naufraghi che, per parecchie ore, erano rimasti ad aspettare sulla spiaggia, sperando che i loro compagni riuscissero infine a raggiungerli a nuoto. Rifocillati nella vecchia caserma erano stati poi inquisiti sul loro spaventoso resoconto. Ma ancora per molte ore avevano aspettato tacendo sulla loro disperazione, finché qualche giorno dopo l’alba scoprì il primo cadavere di un giovane sui venticinque anni. Allora le ricerche per mare e per aria si intensificarono, con la necessaria prudenza che operazioni del genere comportano, specie se contrastate da avversità meteorologiche; concentrando dapprima gli sforzi sugli scogli a nord che probabilmente i naufraghi s’erano sbracciati a raggiungere a nuoto, sfidando onde alte parecchi metri ed una corrente che li risucchiava al largo. Andando a sederci sulla panchina del molo, il vento dapprima fu il nocchiero ebbro delle nostre improvvisazioni, poi uno stormo di gabbiani batté l’aria con repentine scosse di paura.

 

TERRORE E MORTE IN MARE PER SETTANTACIQUE DISPERATI. All’alba un’imbarcazione, nel canale di Sicilia, con un gruppo di nordafricani affonda davanti alla costa: venti morti, quarantacinque dispersi, in dieci si salvano. Poche ore prima nell’Adriatico un’altra tragedia: di venticinque cingalesi quindici ne mancano all’appello.

 

Conobbi Salima quasi contemporaneamente a quei titoli sui giornali, quando il mare cominciò a sputare annegati come un pasto indigesto. Ma il riconoscimento restava semplicemente aleatorio, anche per noi che intervenivamo in quel rito necroscopico conclusivo, soffermandoci sugli indumenti che ancora rivestivano i corpi in macerazione o su qualche effetto personale particolarmente resistente. La ragazza parlava poco e sapeva nascondere bene le sue preoccupazioni, ma rivelava un rancore sordo negli occhi, come di chi ha perduto il suo sonno. Suo fratello non aveva voluto ascoltarla, lei diceva. Lui guardava sempre la televisione straniera e lì vedeva bella gente che rideva, mentre vicino a lui vivevano le miserie dei piccoli lavori per il pane quotidiano. E per più di tre anni continuò ad angustiarsi con questa mania di partire. Metteva da parte i suoi piccoli guadagni e sorrideva, come il ladro che di nascosto costruisce la sua sorte. Quando giunse il momento non disse però niente. Salima sapeva che doveva succedere e se lo ripeteva anche ora su quel molo, dove la motovedetta attraccava. Subito scesero a terra i sommozzatori della polizia. Salima ebbe uno scatto e mi fece un cenno rivolto a quella barca, dove un sacco scuro aspettava. Forse capiva che proprio lì si doveva chiudere la sua ricerca, in quella solitudine di un improbabile riconoscimento. Tutto quello che poteva cercare era in realtà un suo regalo. Glielo aveva scelto lei, proprio per quella rotta: una giacca a vento rossa, calda e leggera come la fortuna. Si arrese allora a uno sbadiglio di perplessità, perché dalla barca quel naufrago le veniva incontro come un alieno, preoccupato di non riconoscere la via di ritorno alla sua astronave. Ma tramontava per Salima come il sole, silenzioso e inesorabile, sulla schiena dei pescherecci lasciati a pascolare tra le onde del porto. Nell’ultima luce dell’orizzonte le sembrò tuttavia ancora di vederne i riflessi sull’acqua e nel cielo o che le venisse incontro, guizzante come la coda di una rondine, prima di divenire un’attesa invisibile e muta.

Salvatore Bommarito