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Prima lettera

Mi domandate se i vostri versi sono buoni. Lo domandate a me. Lo avete già domandato ad altri, li mandate alle riviste, li confrontate con altri poemi e vi allarmate quando certe redazioni scartano i vostri tentativi poetici. D’ora innanzi (poiché mi avete permesso di consigliarvi), vi prego di rinunziare a tutto ciò. Il vostro sguardo è volto verso l’esterno. E’ questo, innanzitutto, che non dovete più fare. Nessuno può portarvi consiglio o aiuto, nessuno. Entrate in voi stessi, cercate il bisogno che vi fa scrivere: esaminate se trae le sue radici dal profondo del vostro cuore. Confessate a voi stessi: morireste se vi fosse vietato di scrivere? Questo, anzitutto, chiedetevi nell’ora più silenziosa della notte: “Sono veramente costretto a scrivere?”. Scavate dentro di voi in cerca della più profonda risposta. Se questa risposta sarà affermativa, se voi potrete far fronte ad una così grave domanda con un forte e semplice: “Io devo”, allora costruite la vostra vita secondo questa necessità. La vostra vita, fino nella sua ora più indifferente, più vuota, deve diventare segno e testimone d’un tale impulso.

Sembrerebbe, da queste celebri parole di Rainer Maria Rilke a un giovane poeta, che la scrittura sia legata alla necessità di salvarsi da qualcosa; alla necessità di non morire. Se non possiamo più scrivere, allora moriremo, e questa sarebbe la prova che la scrittura ci è assolutamente necessaria come il pane.

E’ una risposta fuorviante perché non considera, per esempio, l’intermittenza, cioè il divario che c’è sempre tra il vivere e il dire della vita. Chi scrive deve necessariamente vivere e se noi avessimo solo la scrittura per vivere, rimarrebbe in noi l’incompletezza di essere staccati dal corpo, dalla necessità dell’attesa. Ma erano tempi in cui, appunto, scrivere era questione di grande serietà; di vita o di morte.

In che modo, chi incomincia a scrivere, può interpretare questa necessità? Chi scrive non è un pazzo, un malato, come si sottintenderebbe qui. E la scrittura non è una medicina per la guarigione. Questa lettura relega la poesia a un atto privato, motivato dalle proprie pulsioni e da un progetto della parola sul mondo, non per il mondo. Interpretazione, sia chiaro, condivisibile oppure no. Certo, la domanda rimane sempre viva e attuale per ogni giovane scrittore. Lo obbliga a fare i conti con la propria voce; anche con l’inganno della propria voce. Con i debiti che deve al lettore, alla comunità dei fratelli maggiori e dei maestri. E’ una domanda che i giovani poeti di oggi si pongono? E che risposta ne danno? O quale risposta hanno ricevuto dai maestri? Coincide, questa risposta, con la visione che essi hanno del mondo? O col progetto di scrittura che essi vogliono realizzare per il mondo?

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Seconda lettera

Non c’è onore a leggere e a scrivere, non c’è vetrina nemmeno nella parola, c’è ormai vuoto che galleggia su altri, vuoti costanti, che ci bruciano tutti. Come vale poco ormai la parola: per troppa che viene diffusa? Per una incapacità di schiusa? E il silenzio, se davvero lo si tocca, ha qualcosa che lo valga? Butta all’aria la parola, guardane il verme che sotto la cova.

I poeti che leggono e si mettono a scrivere dei libri degli altri non lo fanno per sembrare dei critici. A loro non interessa necessariamente la valutazione estetica.  Lo fanno per trovare delle corrispondenze o porsi in frizione con le corrispondenze che non trovano. I poeti che parlano dei libri degli altri sono persone che sentono, piú degli altri, la solitudine dello scrivere, a differenza dei poeti “scomparsi”, quelli che amano esistere solo nelle pagine dei loro libri.

Come in uno stato di santitá, questi sono bastanti al loro silenzio; non provano l’angoscia della solitudine perché soli non si sentono e accanto alla loro scrittura sanno vivere serenamente la vita di tutti i giorni. Sono perfettissime isole. E non hanno radici. Noi, invece, siamo porti di mare. Noi che scriviamo degli altri siamo inquieti. Abbiamo bisogno di ri/conoscerci. Siamo radici delle isole.

Scrivere degli altri non é un’operazione del tutto innocente. C’è un dolore nel leggere i libri degli altri, un desiderio di abbandono a ogni poesia sbagliata, a ogni dubbio… Potresti chiudere la pagina e non lo fai. C’è un dolore che ti viene dallo stato di pellegrino in cui ti trovi, di ri/conoscenza nel viso di una parola che non é la tua.

Non é bello da vedersi chi legge i libri degli altri. Il viso é corrucciato, le mani pronte a scrivere come si inforca una zappa. Chi legge è un lanternaio che accende e spegne la lanterna e non ha tempo per il suo sonno. Ognuno prova il suo dolore. Vanghi, rafforzi, puntelli. Proteggi, porti alla luce, esponi. Smascheri. E mentre fai questo, sai che devi tenerti a mente le parole di Jacques Diderot: “Vuoi fare il critico? Comincia a fare la brava persona”.

Sì, smascheri, ma solo se sei gentile, solo se sei una brava persona perché nessuno, nella gentilezza, potrà accusarti di aver agito per vendetta o per mercimonio. Hai mai provato a distinguere, da un grumo di terra che hai portato alla luce, i semi buoni da quelli non buoni? Quelli da cui nascono i fiori e quelli da cui nasce la gramigna? E chi lo dice che la gramigna, se isolata nei paraggi, a ciuffi, non possa dare soddisfazione allo sguardo? Il contadino che per la prima volta mi falciò l’erba del giardino, in montagna, un misto di fiori selvatici e tutto il resto che chiamiamo gramigna, mi chiese se volessi preservare gruppi di fiori e gramigna, altrimenti avrebbe dovuto falciare fiori e gramigna.

Sono così questi libri che leggo, e come il contadino che falcia l’erba selvatica cerco di distinguere fiori ed erbaccia. Hai provato a recidere con la falce? Fa male. Ci vuole molta pazienza. Fa male scrivere degli altri, e ti avrei detto, qualche tempo fa, che é un atto necessario per la poesia. Ora ti direi più crudamente, che è un atto necessario soprattutto a me stesso. Sono la stessa cosa, questi due gesti, nell’ottica del narciso/mondo che si specchia per conoscersi nell’altro, non per anticipare la sua morte.

Scrivo degli altri perché a volte ritrovo un frammento di specchio che si é perduto di me, e non lo trovo in me ma in qualche parola che non é mia. E non é una scoperta del tutto innocua: ci sono da distinguere gli stereotipi, gli oboli da pagare al proprio tempo, le furbizie… e poi finalmente i momenti in cui avverti la purezza della parola sola, scoperta, ingenua, folle, ma bastante a se stessa.

La poesia é fatta di una musica coatta, afona, che ti risuona dentro come una latta sfondata. Non ha veramente suono. E’ un corpo che simula il suono. La poesia é drammaticamente silenziosa. La poesia mi mette in travaglio. Scrivo di poesia come se dovessi risolvere un mio problema per poi allontanarmene. Vedi che non sono, dunque, un critico. Tranne che non risieda in qualche oscura giustificazione questa cosa che chiamiamo critica. C’é un film per bambini che lo dice. Vatti a vedere “Ratatouille”, la scena in cui il critico Ego immerge la prima forchettata nella ratatouille.

Forse é questo, sì, non ci avevo mica pensato… é sempre questa cosa che chiamiamo infanzia, il luogo in cui si fanno tutti i giochi, prendere o lasciare, e poi é già troppo tardi. Poi é già scontare una colpa.

Sebastiano Aglieco