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L’INEGUAGLIABILE MAGISTRATO-SCRITTORE E IL NARRATORE DELLA CRISI DELL’INTELLETTUALE MODERNO

  1. Queste mie brevi considerazioni sono dedicate a Salvatore Mannuzzu, lo scrittore sassarese deceduto l’11 settembre 2019, a ottantanove anni, la cui scomparsa – al di fuori dell’ambiente culturale sardo, dove gli sono stati tributati doverosi omaggi – mi sembra sia stata poco ricordata, se non addirittura dimenticata, nonostante la sua grandezza letteraria e l’importanza della sua figura intellettuale.

Il silenzio calato su Salvatore Mannuzzu, in qualche modo, è figlio dell’atipicità di questo Autore, presente nel dibattito culturale e istituzionale italiano per oltre un quarantennio, ma con il suo modo di fare volutamente sommesso e controcorrente, che lo ha reso una delle voci più intense e ammirate del panorama letterario nostrano.

  1. Ma chi era Salvatore Mannuzzu?

Cominciamo con l’osservare che Salvatore Mannuzzu è nato nel 1930 e ha sempre vissuto a Sassari, dove è morto qualche mese addietro.

Entrato in magistratura nel 1975, ha svolto tale professione in Sardegna fino al 1976, quando è stato eletto alla Camera dei deputati, come indipendente, nelle liste del Partito Comunista Italiano. Mannuzzu, quindi, è rimasto in parlamento, per tre legislature consecutive – la settima, l’ottava e la nona –, fino al 1987, rivestendo in tale contesto importanti cariche istituzionali.

L’esperienza parlamentare di Salvatore Mannuzzu meriterebbe di essere commentata con un intervento autonomo, al quale magari mi dedicherò in un’altra occasione, per l’impegno che l’ha caratterizzata e l’importanza degli incarichi svolti. Si consideri, in proposito, che Mannuzzu è stato presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere per due legislatore – per un lungo arco temporale, compreso tra il 16 aprile 1980 e l’11 luglio 1983 e tra il 21 luglio 1983 e l’1 luglio 1987 –, ma, nella stessa direzione, non si possono non richiamare gli ottantasei progetti di legge e i centosettantanove interventi del nostro Autore, che testimoniano l’intensità del suo impegno e l’importanza della sua presenza nel dibattito parlamentare dell’epoca.

Dopo l’esperienza parlamentare, l’Autore ha diretto, per qualche anno, la sezione giustizia del Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato – fondato nel 1972 su iniziativa del Partito Comunista Italiano, il cui primo presidente fu Umberto Terracini –, fino a quando, conclusa anche tale ulteriore esperienza istituzionale, non si è dedicato all’attività di narratore e saggista, che ha portato avanti ininterrottamente fino a qualche anno prima della sua morte.

Sul piano letterario, Salvatore Mannuzzu diventa noto al grande pubblico con il romanzo Procedura (Einaudi, Torino, 1988), anche se aveva pubblicato il suo primo romanzo Un Dodge a fari spenti (Rizzoli, Milano, 1962), scritto nel 1955, qualche anno dopo essere entrato in magistratura, con lo pseudonimo di Giuseppe Zuri.

Tra questi due romanzi, dunque, trascorre un lungo periodo di silenzio, durato ventisei anni, nel corso dei quali Salvatore Mannuzzu svolge un anomalo apprendistato letterario, trascorso tra le aule di giustizia e le aule parlamentari, all’esito del quale la sua vena letteraria emerge in modo definitivo e prepotente, anche grazie a Natalia Ginzburg – conosciuta tra i banchi della Camera –, che fa pubblicare presso la Casa editrice Einaudi il romanzo Procedura.

Al romanzo Procedura, quindi, seguivano numerose altre opere narrative, tra le quali una raccolta di racconti, intitolata La figlia perduta (Einaudi, Torino, 1992) e i romanzi Un morso di formica (Einaudi, Torino, 1989), Le ceneri del Montiferro (Einaudi, Torino, 1995), Il terzo suono (Einaudi, Torino, 1995), Il Famoso Natalino (Laterza, Roma-Bari, 1998), Il catalogo (Einaudi, Torino, 2000), Alice (Einaudi, Torino, 2001), Le fate dell’inverno (Einaudi, Torino, 2004), La ragazza perduta (Einaudi, Torino, 2011) e Snuff o l’arte di morire (Einaudi, Torino, 2012); nel 2002, inoltre, veniva ripubblicato il suo romanzo d’esordio, Un Dodge a fari spenti, non più sotto l’originario pseudonimo, ma con il nome dell’Autore, presso la Casa editrice Illisso di Nuoro.

Nella vasta bibliografia di Salvatore Mannuzzu, meritano di essere citati anche la raccolta di poesie Corpus (Einaudi, Torino, 1998) e le opere di saggistica Il fantasma della giustizia (il mulino, Bologna, 1998), Giobbe (Edizioni della Torre, Cagliari, 2007), Cenere e ghiaccio (Edizioni dell’Asino, Roma, 2009), Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Lindau, Torino, 2012), scritto insieme a Goffredo Fofi e Testamenti (il Maestrale, Nuoro, 2017), che è la sua ultima pubblicazione.

La bibliografia di Mannuzzu, in realtà, comprende anche numerose altre opere saggistiche – che riguardano le tre attività svolte dall’Autore sassarese nel corso della sua lunga vita: il magistrato, il politico e il letterato –, che, tuttavia, possiamo ritenere di rilievo secondario rispetto all’inquadramento culturale dello scrittore sassarese, che, dal mio punto di vista, è soprattutto uno scrittore di prima grandezza o meglio un ineguagliabile magistrato-scrittore.

  1. La grandezza di Salvatore Mannuzzu, a ben vedere, sta proprio nell’essere il più grande dei magistrati-scrittori del panorama letterario italiano, che pure annovera tra le sue fila numerosi esponenti del mondo giudiziario.

Occorre, invero, osservare che, di anno in anno, aumenta il numero di opere narrative scritte da magistrati – ordinari, amministrativi, contabili –, che vede crescere, quasi proporzionalmente, la stanchezza dei lettori verso tali cimenti letterari; stanchezza che, del resto, è la conseguenza del fatto che non sempre le opere narrative dei magistrati nostrani brillano per originalità, al punto che è stata coniata la definizione di magistrato-scrittore, quasi a volere giustificare la qualità non sempre eccelsa di tali lavori, la cui pubblicazione, spesso, finisce per essere giustificata solo dall’esperienza professionale dell’autore.

Tutto questo, invece, non si può dire per le opere narrative di Salvatore Mannuzzu, nelle quali i suoi magistrati sassaresi assumono una dimensione universale, finendo per costituire lo spunto per una riflessione sulla condizione dell’intellettuale contemporaneo, tormentato dal dubbio e logorato dai suoi dilemmi, che lo fanno dibattere – nel privato come nella professione – tra ciò che è giusto e ciò che è utile, tra lealtà e opportunità e, in ultima analisi, tra Giustizia ed Etica. Questi dilemmi, tuttavia, i protagonisti dei romanzi di Mannuzzu non riescono a risolverli, finendo schiacciati dalla necessità di dovere scegliere tra le varie alternative che gli si pongono e risultando incapaci di compiere una scelta, quale che sia; incapacità che li pone sotto l’occhio del lettore come figure ambigue, sostanzialmente inadatte all’azione, quasi sveviane, come Piero, il giudice del romanzo Procedura, in procinto di trasferirsi dalla Sardegna, chiamato a indagare sulla morte del collega Valerio Garau.

I protagonisti di Mannuzzu, dunque, anche quando non sono magistrati, come Piero – nome ricorrente nelle sue opere –, lo scrittore di Un morso di formica, sono l’incarnazione dell’intellettuale moderno, tormentato dai dubbi e incapace di agire: le sue figure intellettuali, infatti, trascorrono la maggior parte del loro tempo, in modo febbrile, nella speculazione, nella formulazione di ipotesi, nei dubbi e nei ripensamenti, che travagliano le loro sofferte esistenze.

Per questo, i protagonisti delle opere narrative di Salvatore Mannuzzu sono straordinariamente moderni, essendo percorsi da una tensione esistenziale, prima ancora che morale, che colloca i suoi personaggi in una direzione vicina sia a Italo Svevo sia a Fëdor Dostoevskij, con il quale il nostro Autore si è costantemente confrontato nel corso della sua, non lunga ma intensissima, vita letteraria.

Questa tensione esistenziale si riflette in modo esemplare nei magistrati inetti – mutando l’aggettivo dai romanzi di Italo Svevo – descritti nelle opere di Mannuzzu, che, paralizzati dal dubbio e naturalmente portati all’inazione, finiscono per ritenere la verità che dovrebbe costituire il loro obiettivo professionale inarrivabile o comunque introvabile. Come ha detto magistralmente Natalia Ginzburg nella nota scritta per la quarta di copertina del romanzo Procedura, a proposito del magistrato che conduce le indagini sulla morte di Valerio Garau: «Il giudice non sa mai dimenticare che la verità è introvabile, anche quando sembra rivelarsi d’un tratto spoglia e semplice allo sguardo che l’ha inseguita, introvabile perché sopra di essa passano le onde degli anni e del mare».

Il giudice di Procedura – come tutti i giudici dei romanzi di Salvatore Mannuzzu – matura il convincimento che la verità è inaccessibile e che la sua ricerca è resa ancora più problematica dai meccanismi complessi della giustizia, che portano ogni magistrato a scontrarsi con l’ambiente giudiziario in cui è inserito e con i suoi colleghi, che, come nel Processo di Franz Kafka, finiscono per rendere inconoscibile la colpa oggetto dell’accertamento giurisdizionale.

Queste difficoltà, che sono al contempo umane e professionali, accentuano il disagio in cui versano i giudici delle opere narrative di Mannuzzu, che descrivono la condizione di crisi esistenziale in cui si trovano i suoi magistrati, che, in ultima analisi, è la condizione di crisi in cui, negli ultimi decenni, si trova l’intellettuale moderno, che non crede più nella verità o comunque non sa più cercarla. Esemplare, da questo punto di vista, mi sembra una frase pronunciata da uno dei protagonisti de Il catalogo, un’opera ritenuta a torto minore di Mannuzzu, che dice: «Forse sbagliavo: forse la giustizia esiste, anche se cammina per strade tortuose e tarda troppo ad arrivare» (pagina 11).

I protagonisti delle opere narrative di Salvatore Mannuzzu, quindi, vivono appieno la crisi dell’intellettuale moderno e la prova di quanto si sta affermando è data dal fatto che questi personaggi letterari sono accomunati, oltre che da un temperamento speculativo e dalla tendenza all’inazione, dallo svolgimento di professioni tipicamente intellettuali, quali quella del magistrato – soprattutto –, quella del docente universitario ovvero quella dello scrittore, come Piero, il già ricordato protagonista del romanzo Un morso di formica.

  1. In questa cornice, mi sembrano esemplari rispetto al percorso letterario compiuto da Salvatore Mannuzzu, da Procedura a Snuff o l’arte di morire, sulla crisi dell’intellettuale moderno, soprattutto due opere narrative: La figlia perduta e Alice, sulle quali mi vorrei soffermare brevemente.

La figlia perduta, come si è già detto, è una raccolta di racconti pubblicata nel 1992, che, al suo apparire, ebbe un certo successo, tanto da arrivare a comporre la cinquina finale del Premio Strega, che non vinse per pochi voti.

I sei racconti de La figlia perduta sono accomunati da un filo conduttore unitario, costituito dal rapporto che il protagonista, un giudice – che abbiamo visto essere per Mannuzzu il prototipo dell’intellettuale in crisi, esistenziale e professionale –, ha con una donna più giovane di lui, che viene narrato attraverso una sequenza di dialoghi serrati, scontri personali e tensioni emotive.

Questo rapporto personale è percorso in una pluralità di direzioni: il personaggio femminile è per due volte la figlia del giudice-narratore, come ne La figlia americana e Videogame; in un’occasione è la compagna del giudice-narratore, come nel lungo racconto di apertura della raccolta Dedica; in un’altra occasione, è una nipote del giudice-narratore, che va a vivere per un lungo periodo a casa degli zii, come nel racconto Vacanza; in Nostalgia, invece, il registro narrativo cambia, atteso che, in questo racconto, troviamo una serie di voci che si rincorrono in una narrazione corale; infine, nel racconto conclusivo Viaggio in mare, che conclude la raccolta e fa riferimento a una traversata marittima, come in una sorta di contrappunto rispetto agli altri cinque racconti, la voce narrante è quella di una donna, che è la moglie di un giudice.

L’esemplarità di questi racconti – che hanno una forte componente autobiografica, soprattutto evidente ne La figlia americana – è data dal fatto che i microcosmi personali narrati dall’Autore ci aprono le porte alla comprensione della cifra narrativa di Mannuzzu, che fa entrare in contatto i protagonisti della narrazione, disvelandone le crisi esistenziali e le tensioni personali, attraverso cui si sviluppano i loro rapporti, minati dalle incomprensioni e dalle malinconie, entrambe stratificate nel tempo, che li caratterizzano. In questo modo, si produce una sorta di rovesciamento delle prospettive narrative tradizionali, che comporta la sovrapposizione del punto di visto di un uomo e di una donna, dalle cui tensioni emerge la natura conflittuale dei loro rapporti; conflitti che possono riguardare riguarda i rapporti tra due coniugi come in Dedica, tra padre e figlia come in La figlia americana e Videogame, tra zii e nipote come in Vacanza.

Invero, è lo si capisce dallo stesso titolo della raccolta, è il rapporto tra padre e figlia ad assumere un rilievo centrale nei racconti di Mannuzzu, atteso che è proprio la problematicità di tali rapporti a rendere evidente la crisi del giudice-narratore, che, come si è detto, è un intellettuale moderno, i cui travagli si riverberano in modo esemplare nell’atteggiamento del padre verso la figlia.

La problematicità di questi rapporti, come conseguenza della crisi esistenziale che tormenta i protagonisti del racconto, è descritta in termini esemplari in Videogame, che narra di un’estate “straordinariamente calda” trascorsa da un giudice – un consigliere di cassazione – e sua figlia, nell’innominata città sarda, ma che è naturalmente Sassari, tra i quali vi è un rapporto di sostanziale estraneità, che viene così descritto dal protagonista: «Silvia è mia figlia; non è che poi ci facciamo molta compagnia […]». Il rapporto tra il padre e la figlia, dunque, si presenta al lettore secondo le modalità tipiche della narrazione di Mannuzzu: si tratta di due soggetti che sono tra loro vicini, fisicamente e contingentemente, ma che appaiono divisi dalla reciproca incomprensione, che è la conseguenza della crisi esistenziale che ciascuno di loro patisce, che è descritta anche in La figlia americana.

I due protagonisti, quindi, iniziano a giocare tra loro, appunto con un Videogame, dove dovranno inventare delle trame, che li porterà a svelare, autobiograficamente, i loro disagi e le loro insoddisfazioni personali, che, alla fine del racconto, li avrà allontanati ancora di più, confermando la loro distanza umana, che è contrapposta alla loro, contingente, vicinanza personale.

Ed è, in fondo, questo il messaggio che l’intera raccolta di racconti vuole trasmettere: la crisi dell’intellettuale moderno è il frutto di un travaglio che attraversa la sua esistenza tout court considerata, in tutti i suoi aspetti, professionali, personali e familiari.

  1. Altro passaggio fondamentale per comprendere la crisi esistenziale del giudice-intellettuale di Salvatore Mannuzzu è rappresentato dal romanzo Alice, il cui protagonista è un giudice civile cinquantenne, separato dalla moglie, che fin dalle prime pagine ci viene descritto come un tipico personaggio delle sue narrazioni. Come ci dice Alessandro Cadoni (Il fantasma e il seduttore, Donzelli, Roma, 2017, pagine 171 e 172), in una bella monografia dedicata al nostro Autore, il «lettore di Mannuzzu che si appresti a leggere questo romanzo già ne conosce il carattere: tiepido, intellettuale, è l’uomo delle decisioni non prese, della reticenza, del rinvio della scelta […]».

Piero è separato ma non divorziato dalla moglie e vorrebbe lasciare Lula, la donna con cui vive, dopo la separazione dal coniuge, a Sassari, anche in questo caso innominata, per andare a vivere con un’altra giovane donna, una collega. Piero, dunque, vorrebbe lasciare Lula, ma, tergiversa, non riuscendo a prendere questa decisione, trascinandosi stancamente, tra una menzogna e l’altra, per tutto il racconto, fino alla tragica, inaspettata, fine – costituita dal suicidio apparentemente inspiegabile di Lula – che è risolutiva rispetto alla sua in-vincibile inazione, ma che comporterà un’ulteriore sconfitta personale per il protagonista.

Un’ulteriore, peculiare, espressione dell’inettitudine sveviana di Piero è rappresentata dal rapporto che ha con la figlia Chicca – che vive in America, come la protagonista de La figlia americana, di cui si è già detto a proposito dei racconti di Mannuzzu –, con cui il protagonista del romanzo ha un rapporto distaccato, ma sofferto, fatto di una lontananza dolorosa, alla quale, per tutto il tempo della narrazione, non riesce a fare fronte. Con la figlia tanto amata, infatti, Piero si limita a comunicare solo via mail, inviandole messaggi laconici ed evitando di esprimerle il suo affetto e il desidero di rivederla, fornendo, ancora una volta, al lettore la conferma del suo stato di sospensione esistenziale.

Lula, invece, è l’esatto opposto di Piero.

Lula, infatti, è la figura positiva del romanzo ed è animata da uno stato di grazia terrena, che è del tutto sconosciuta a Piero, che, però, finisce per travolgere il partner con la sua accidia, con cui trascina la sua esistenza, schiacciando la compagna e inducendola a suicidarsi, compiendo un gesto disperato e, per il lettore, inaspettato.

Ed è esemplare rappresentazione della condizione di stasi esistenziale del protagonista di Alice, il brigantino francese, che ha lo stesso nome del romanzo e che è ripreso da una fotografia apposta nella copertina dell’opera narrativa in esame, che si incagliava nel 1909, presso la penisola di North Beach, alla foce del Columbia River, nella costa atlantica settentrionale degli Stati Uniti.

Alice è anche la password del personal computer di Lula, accedendo al quale Piero scopre una dimensione sconosciuta della vita della compagna e i malesseri interiori che accompagnano la sua esistenza; scoperta che, tuttavia, non induce il protagonista a modificare il suo approccio con la compagna e a rivitalizzare il loro rapporto o a troncarlo definitivamente, prigioniero, com’è, dalla sua inazione, che, alla fine del racconto, si rivelerà distruttiva per Lula.

Piero, dunque, si incaglia, come il brigantino francese, nelle secche della sua esistenza, mostrandosi incapace di risolvere i suoi dilemmi esistenziali e sentimentali e aspettando che l’evolversi degli eventi, a prescindere dalle sue condotte, gli dia quelle risposte che lui non riesce a trovare o che forse nemmeno cerca, prigioniero – come tutti i giudici-intellettuali di Mannuzzu – della sua inazione. Citando, ancora una volta Cadoni (Il fantasma e il seduttore, cit., pagina 180): «L’Alice è, in ultima sintesi, nel segno della grazia, in uno stato di ubiquità polare, metafora al contempo, della resistenza e del naufragio dei legami più saldi: quelli della famiglia e quelli delle radici. Che sono […] tutto ciò che abbiamo e insieme tutto quello di cui dobbiamo soffrire».

  1. Mi sembra, infine, opportuna un’ultima considerazione, a proposito dello stile letterario di Salvatore Mannuzzu, che è caratterizzato da una cura certosina, quasi scientifica, delle parole utilizzate e della costruzione dei periodi, che è il frutto, come lui stesso più volte ha riferito, dalla sua formazione di magistrato e dei decenni trascorsi a “scrivere sentenze”: torniamo così, ancora una volta, al magistrato-scrittore. Occorre, infatti, ricordare che Mannuzzu entrò in magistratura nel 1955 e che, fino al 1976, quando venne eletto in parlamento, svolse le funzioni di magistrato giudicante presso uffici giudiziari sardi.

Nella prosa di Mannuzzu, infatti, a ogni parola e a ogni segno di interpunzione viene dedicata un’attenzione particolare, come abbiamo detto, quasi scientifica, che è la conseguenza del suo sforzo di ridurre all’essenziale la sua narrazione. Come ha mirabilmente riferito Salvatore Settis in un uno dei pochi commenti sulla morte dello scrittore sassarese (Elogio dei due punti: in memoria di Salvatore Mannuzzu, in www.ilsole24ore.com, 11 settembre 2019): «C’è un segno distintivo della scrittura di Salvatore Mannuzzu […]: sono i due punti. Ciascun segno di interpunzione, per la verità, meritava, in Mannuzzu, un’attenzione supplementare: segno, inequivocabile, della estrema precisione di scelta che egli aveva compiuto, per confezionare, limando fino all’ultimo, postremo segno, ogni elemento che avesse osato “sporcare” il bianco della pagina […]».

In questo modo, l’attenzione alla prosa, alle parole utilizzate per descrivere i suoi personaggi e alla punteggiatura diventa per Salvatore Mannuzzu la testimonianza del rovello della sua scrittura, che è al contempo il rovello dei suoi protagonisti narrativi, prigionieri dell’inazione e schiacciati dal dubbio esistenziale, kierkegardiano, che attraversa le loro vite di intellettuali moderni. La costruzione rigorosa del periodare delle narrazioni di Mannuzzu, dunque, costituisce una delle cifre essenziali delle sue opere letterarie, in cui l’uso meticoloso della punteggiatura e la costruzione del periodo sono indispensabili per descrivere i tormenti dell’intellettuale moderno, di cui i magistrati descritti nei suoi romanzi sono esemplare rappresentazione.

Questo stile, personalissimo, di Salvatore Mannuzzu ha reso inconfondibile il suo modo di raccontare i personaggi delle sue opere, sempre lucido, quasi implacabile nel descrivere le debolezze degli intellettuali che campeggiano nei suoi racconti, che vengono descritti con un acume che è la conseguenza della sua visione del mondo, intrinsecamente antiretorica e per nulla consolatoria.

Nelle opere narrative di Mannuzzu le debolezze dell’intellettuale moderno vengono descritte senza alcuna concessione per i protagonisti dei suoi racconti, che attraverso uno stile asciutto e un periodare che procede in modo quasi inferenziale, come le tante sentenze scritte dal nostro Autore, descrive la crisi esistenziale dei suoi protagonisti, che sono soprattutto magistrati, che attraversano gli anni in cui vivono con il peso insopportabile delle loro debolezze umane.

Lo sforzo incessante di descrivere sintatticamente nel modo più adeguato gli stati d’animo dei suoi protagonisti è, del resto, anche la conseguenza dello sforzo di descrivere lo stato d’animo, contingente, del narratore e ci fa comprendere il senso delle operazioni di riscrittura di alcune opere di Salvatore Mannuzzu. Ci si riferisce, in particolare, al primo romanzo Un Dodge a fari spenti (Rizzoli, 1962), scritto nel 1955, pubblicato qualche anno dopo il suo ingresso in magistratura con lo pseudonimo di Giuseppe Zuri e ripubblicato presso la Casa editrice Illisso di Nuoro nel 2002; nonché a La ragazza perduta (Einaudi, Torino, 2011), che costituisce una riscrittura del racconto La figlia perduta, di cui ci si è già occupati nell’esaminare l’omonimo libro di racconti.

In entrambi i casi, ma soprattutto ne La ragazza perduta la riscrittura dell’opera costituisce l’ennesimo tentativo dello scrittore sassarese di tornare su un tema a lui molto caro, quello della crisi dei rapporti umani come conseguenza della crisi dell’intellettuale moderno, i cui travagli, come si è detto, si riverberano in modo esemplare nel rapporto tra il giudice-narratore e sua moglie Zezi, molto più giovane di lui e, proprio per questo, in qualche misura, compagna-figlia del protagonista.

Alessandro Centonze

Alessandro Centonze

Alessandro Centonze è nato a Siracusa e vive tra Catania e Roma, dove presta servizio, con funzioni di consigliere, presso la Prima Sezione penale della Corte Suprema di Cassazione. In precedenza, ha svolto, presso uffici giudiziari siciliani, sia funzioni requirenti che funzioni giudicanti. Ha anche insegnato, presso l’Università degli Studi di Catania, diritto processuale penale e diritto penale transnazionale. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, tra cui le monografie "Il sistema di condizionamento mafioso degli appalti pubblici" (2005), "Criminalità organizzata e reati transnazionali" (2008) e "Contiguità mafiose e contiguità criminali" (2013).