Al momento stai visualizzando Kim, l’adolescente eroe di Kipling

“Ha ragione il mio lama: il mondo è grande e meraviglioso, e io sono solo”, dice Kim a se stesso durante una sosta del loro lungo viaggio. “Sono Kim, una singola persona nel mezzo di tutto”. Cosa cercano nell’India antica e favolosa, nell’India dei Cinque Fiumi, di tutte le sue regioni la più bella, il piccolo sahib e il suo maestro venuto da un luogo remotissimo del Tibet, dietro le nevi? Perché dormono lunghi e soavi sonni sotto le stelle e al mattino lui, da buon chela, che vuol dire discepolo e portavoce, porge la ciotola delle elemosine agli abitanti dei villaggi?

Il lama cerca la Via. Cerca la Liberazione. Cerca il Fiume miracoloso della Salvezza dove è caduta la freccia di Budda, l’Illuminato. Kim cerca il Toro Rosso sul prato verde. Suo padre, fumatore di oppio, gliel’ha predetto. Gli ha predetto che un giorno l’avrebbe incontrato e avrebbe avuto un destino migliore del suo.

Suo padre era il giovane sergente Kimball O’Hara, portabandiera del reggimento irlandese dei Mavericks nell’India coloniale. Prima di morire ha lasciato alla donna con cui viveva i documenti (tra i quali un certificato massonico) che avrebbero aiutato il figlio. La donna li mise in un astuccio di cuoio che Kim da allora portò sempre appeso al collo come un amuleto.

Bambino dagli occhi svegli, come apparve subito al padre, si ritrovò senza genitori (la madre era morta di colera) e solo nel mondo grande e meraviglioso: proprio “una singola persona nel mezzo di tutto”. Ma da quel momento da tutti fu chiamato Kim amico delle stelle, Piccolo Amico di tutto il mondo. Era così dentro al mondo indigeno in cui viveva, alle sue tradizioni e magie, così amato da tutti che nessuno aveva mai notato il colore chiaro, europeo della sua pelle.

Kim conosce il monaco mendicante a Lahore, davanti al museo della città, e rimane così colpito dalla sua santità che vuole seguirlo lungo il cammino, diventarne allievo e servitore e raccogliere l’elemosina per lui. Il lama era un pellegrino con la faccia benevola, gialla e piena di rughe, il cappello rosso, le mani inseparabili dai grani del rosario. Prediceva il futuro e parlava di vite precedenti. Cercava il suo Fiume, dispiegava la Ruota della Vita dov’è scritto il destino e nulla faceva per denaro. Una delle tante cose che insegnerà al suo allievo: di non far mai nulla per denaro. Diceva che mai è esistito un chela simile a Kim – sobrio e di buon carattere, sincero e mai sbadato, allegro lungo la strada: “Grande sarà la sua ricompensa”.

Intorno a loro, in cerca della Causa delle cose e della liberazione dal peccato, si apre l’India immensa dei “vasti frutteti in fiore”, dei bazar e dei caravanserragli pieni di gente e di notizie che passano di bocca in bocca. L’India delle varie religioni, lingue e caste; delle maledizioni e delle buone profezie. L’India con le sue formule magiche e i suoi incantesimi, i guaritori di gemme, le superstizioni, le leggende e i suoi proverbi del tipo “ai mariti delle donne loquaci spetta una grande ricompensa nell’aldilà”. L’India dove le donne delle montagne hanno il gozzo, dove l’oppio è cibo, tabacco e medicina per gli spossati, dove l’ultima luce del giorno è color limone e la polizia indigena significa ovunque estorsione per la sua gente.

Nel 1901, quando Kim venne pubblicato, l’autore inglese Rudyard Kipling aveva trentasei anni. Nato a Bombay – il padre era ufficiale dell’esercito britannico durante il lungo impero anglo-indiano – anche lui, come il protagonista del suo romanzo, visse una prima infanzia di solitudine insieme alla sorella più piccola Trix. In Inghilterra, dove i genitori li fecero studiare. E dove poterono frequentare solo dei parenti per qualche mese all’anno. Finché la madre, Alice Mac Donald, non pose fine alla loro tristezza tornando a prenderseli e a riportarli in India.

Come i propri genitori, anche Kipling viaggiò molto. Viaggiò per l’Asia, l’America e il Sudafrica, annotò nei diari tutto quel che vedeva, fece il giornalista (corrispondente di guerra dal fronte occidentale e dall’Italia nel primo conflitto mondiale) e fu considerato la voce dell’imperialismo. Nel 1907 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Nel 1886 entrò nella Massoneria, seguendo le orme del padre. E di varie logge fu membro, fondatore e socio onorario. Ma più di tutte gli rimase nel cuore l’Hope and Perseverance di Lahore cui dedicò nel 1896 la poesia Loggia madre, ancora oggi considerata dalla Fratellanza Universale come l’opera che più esalta lo spirito massonico, gli ideali di fraternità e uguaglianza.

Espressioni d’esoterismo massonico, come “per il bene della madre sua e della mia”, scambiate tra fratelli di logge diverse, trovi nel suo racconto L’uomo che volle essere re; e anche in Kim, come “la mano dell’amicizia ha allontanato la frusta della calamità”. L’amicizia è quella tra Mahbub Alì, protettore di Kim e venditore di cavalli, e il colonnello Creighton sahib che li acquista. Mahbub è una delle spie indigene degli inglesi.

Quando il Piccolo Amico delle Stelle incontra il Toro Rosso sul prato verde, nient’altro, simbolicamente, che il reggimento cui apparteneva il padre, e viene riconosciuto dai documenti che porta al collo, inizia per lui una vita diversa di gran lunga. Viene tolto dalla strada, separato dolorosamente dal suo lama e mandato in un collegio di Lucknow dove impara a leggere e a scrivere e a diventare sahib. Viene lavato e vestito con una divisa di tamburino di pessima stoffa che gli provoca prurito alle braccia e alle gambe.

Kipling aveva scritto in una poesia del 1890: “Oh, l’Oriente è l’Oriente, e l’Occidente è l’Occidente, né mai i due si incontreranno”. Il suo adolescente eroe smentisce questo verso, questa sua certezza di dieci anni prima. Perché in Kim i due mondi s’incontrano e convivono. Quando la sua natura libera e vagabonda lo porta a fuggire per qualche tempo dal collegio, a ritrovare la strada e a rivedere il suo lama, ecco la “mano dell’amicizia” di Mahub Alì che interviene per allontanare la “frusta della calamità” ed evitargli la punizione.

Il collegio farà di Kim un pandit, un erudito cittadino dell’Impero che casualmente si ritrova a svolgere compiti di spionaggio nel Grande Gioco, il conflitto politico e diplomatico tra inglesi e russi per il controllo della regione. Ma sulla strada torna, è ansioso di tornare, il piccolo eroe: anche per lui e per il suo lama la vita è un viaggio da compiere a piedi. Quanto ci dirà un altro scrittore inglese, Bruce Chatwin, qualche secolo dopo.

Una parte del viaggio il maestro e il discepolo l’hanno fatta in treno. Ma ora è giunto il momento di respirare aria pura e di lasciarsi alle spalle la locomotiva “lucente di ottone e i binari scintillanti”: sebbene si tratti di un’invenzione meravigliosa, i suoi “scossoni – dice il vecchio monaco – mi hanno tramutato le ossa in acqua”. Avanti, dunque, senza fretta, meditando sulla Via e in cerca del Fiume. Alle loro spalle i Siwalik e le nevi dell’Himalaya. Nei villaggi, ben accolti dal capo o dal prete “come vuole la costumanza del cortese Oriente”, raccontano la loro storia. Lungo il cammino il lama è prodigo di insegnamenti. Per chi segue la Via “non esistono né il nero né il bianco, né l’India né il Bhotiyal. Siamo tutti anime in cerca di scampo… quando arriveremo al mio Fiume – diceva al suo chela – sarai liberato da ogni illusione… accanto a me”. Rievocava disordinatamente i suoi vagabondaggi su e giù per l’India e pensava spesso al suo monastero.

Con la frescura della sera partono per le montagne dell’Himalaya dove l’aria profuma di pini. Il lama ha perduto le forze e la ricerca del fiume della salvezza sembra non assillarlo più. Ma chi va ai monti va da sua madre. E il lama, nonostante il cammino in salita, recupera di giorno in giorno le energie, togliendole a Kim che, nato e cresciuto nelle pianure, suda e ansima, attonito. Anche alle ospitali popolazioni delle montagne, ammaliate dal Sant’Uomo, raccontano storie. Storie di miracoli e incantesimi.

Chi va ai monti va da sua madre. Avanzavano di sentiero in sentiero, lungo piste e scorciatoie. E di vetta in vetta salivano sempre più in alto verso le nevi eterne, “immutate sin dalle origini del mondo” cui il lama tendeva le mani. Il maestro e l’allievo “erano completamente soli con i venti e le erbe fruscianti”. Kim credeva che quello non fosse un posto per gli uomini, ma la dimora degli Dei. Le nevi di giorno sembravano “argento fuso sotto i raggi solari, poi, verso sera, rifulgevano di nuovo simili a pietre preziose”. Nessuno ha descritto meglio di Kipling le vette sovrane dell’Himalaya e i suoi tenebrosi precipizi.

Ma cosa fanno sulle alte vette se la “Freccia di Nostro Signore” è caduta nelle pianure? Il vecchio lama capisce d’aver ceduto al Desiderio, al male dell’anima che l’ha allontanato dalla Liberazione. E così lasciano l’aria sottile e rigeneratrice delle benedette montagne per tornare alla vera meta della loro lunga ricerca: il Fiume della Salvezza, nelle pianure, che li avrebbe liberati dal peccato. Il fiume che il lama vede in sogno dopo due giorni e due notti senza cibo, di meditazione e di astrazione dal mondo. L’anima sua si libera del corpo, lo stupido corpo, e come un’aquila vola non verso un’altra anima, ma verso la Grande Anima che contiene tutte le cose e tutte ti permette di vederle nello stesso momento e nello stesso luogo. Come l’Aleph borgesiano. E chissà se Borges, scrivendo il suo racconto, non ha pensato proprio alla Grande Anima vista in sogno dal monaco tibetano nel romanzo di Kipling. Quando l’India intera, da Ceylon nel mare alle montagne, quando ogni campo e anche il più piccolo dei villaggi dove si è fermato con l’amato chela entrano nella sua Visione, il monaco capisce d’essere stato liberato. Perché la sua anima è andata oltre l’illusione del tempo, dello spazio e delle cose.

“Ma dovevo salvare anche te – dice a Kim raccontandogli il sogno. – E così con indescrivibili sforzi staccai la mia anima dalla Grande Anima, mentre una voce gridava: Il Fiume! Bada, il Fiume!”

Il Fiume in cui il lama s’immerge, rischiando d’annegare. Kim l’aveva aiutato nella Ricerca, gli aveva massaggiato i piedi provati dal lungo cammino, l’aveva portato sulle spalle, gli aveva dato la sua forza sino al proprio giovanile sfinimento, l’aveva amato senza motivo e poi “per cinquanta valide ragioni”: grande dunque doveva essere la sua ricompensa. Il Fiume! Bada, il Fiume! – gli grida una voce nella visione. Mentre, nella cavità d’un albero, il monaco s’è ormai estraniato dal mondo e dalle sue illusioni. Il Fiume! L’immersione! La voce gli ricorda (o gli ordina) che un altro suo passo è necessario per dare anche a Kim la certezza del Nirvana, della liberazione dal dolore e dal desiderio. L’immersione nel Fiume della Salvezza: un altro merito – dopo avergli insegnato che nulla va fatto per denaro, che siamo tutte anime in cerca di scampo, queste e altre cose, e aver dato elemosine per i suoi studi a Lucknow – il vecchio lama deve acquistare se vuole che l’allievo sia un Illuminato, come lui. Ora sì, Kim può andare per il mondo. Non importa se il collegio, oltre le cui porte c’è il sapere, ne ha fatto un maestro, un geometra o uno scrivano al servizio dell’Impero. Conta soltanto la sua Liberazione alla fine della Ricerca. “Tutto il resto è illusorio”.

Questo romanzo di Kipling è ancora tra i più amati nel Regno Unito. C’è chi lo inquadra tra le opere di spionaggio e chi lo ritiene letteratura per l’infanzia. Ma resta innanzitutto un grande romanzo di viaggio e d’avventura non privo d’intenti pedagogici e di formazione spirituale.

Gaetano Cellura