Pensavi mi fosse successo qualcosa del genere un rapimento/arresto in paese straniero senza possibilità di contattare qualcuno che parli la mia lingua. O una fuga d’amore con straniero conosciuto sull’aereo?! E invece no, è solo che le comunicazioni da questo paese sono difficilissime: con il mio telefono italiano non posso mandare messaggi, però posso riceverne.
E trovare una cabina telefonica non è mica facile, soprattutto una che funzioni e soprattutto se uscendo dalla stanza nella quale ti hanno messo a dormire trovi il nulla intorno a te, o meglio, non il nulla, ma strade sterrate con baracche in lamiera che vendono solo gomme da masticare e sigarette sfuse, succhi di mango e mollette per stendere il bucato.
Pensa che ieri sera, arrivata alla guesthouse, ero talmente disperata – non trovavo un telefono e dovevo chiamare i mie due amici che vivono qui ad addis – e dopo le estenuanti, nonché infruttuose ricerche della cabina, ho tirato fuori una delle migliori facce di bronzo del mio repertorio e ho chiesto ad una tipa dell’ufficio della guesthouse se per favore mi faceva chiamare col suo cellulare… e per fortuna me lo ha lasciato fare; Luciano e Marina sono venuti a prendermi con il loro fuoristrada (mi sembra di capire che qui tutti i bianchi ne abbiano uno), mi hanno portato a cena fuori e mi hanno fatto sentire un po’ meno persa in questa mia prima giornata africana.
Quindi volevo avvisarti che sono arrivata, sto bene e a questo punto avrai capito, ho persino trovato un internet point e, scusami, ma l’Etiopia non vuole che comunichi con il resto del mondo!
Comprare una sim card etiope? Beh, sembra facile ma non lo è per niente.
Vado in un negozio di elettrodomestici, più o meno, ed il tizio mi dice che in città non ne vendono più, però le posso trovare all’Hotel Hilton. Così guardo sulla mia cartina dove si trova questa oasi di lusso, ma mi rendo conto che è troppo lontano per andare a piedi e affrontare la scia di “white lady”, “sister” e altri appellativi del genere che mi accompagnano nelle passeggiate cittadine. Quindi dopo una brevissima contrattazione, visto che ancora non mi sento pronta per tirare sul prezzo, decido di prendere un taxi direzione Hilton.
Anche lì come al ristorante, mi controllano la borsa e mi fanno passare attraverso il metal detector; una volta appurato che non porto con me esplosivi, mitra o taglienti, mi lasciano passare e mi avvio alla reception. Una bellissima e gentilissima signorina mi dice in inglese che sì, certo, sono nel posto giusto, ma le danno solo a noleggio e solo per i clienti dell’Hotel… e io no, decisamente no, non sono un’ospite dell’Hilton e di sicuro neanche lo sembro dopo una notte in aereo e una giornata in giro per una delle città più caotiche e polverose che abbia mai visto… ma sempre la bella etiope della reception, mi informa che di sicuro in aeroporto le vendono.
Ok. Si può fare. Ma è tardi, andrò domani.
Così questa mattina prendo un taxi blu e bianco alla tariffa di 30 birr (circa 2.50 euro, sto iniziando a non farmi trattare troppo da Ferenji, straniera, come dicono qui) e vado in aeroporto. Insomma, per farla breve, presentando passaporto, visto e pregando i militari riesco ad entrare agli arrivi, subito dopo la dogana, e, dopo un interrogatorio degno di un terzo grado da poliziesco americano da parte del tipo della compagnia telefonica, capisco che sono idonea, ma purtroppo “madame” per adesso le schede sono terminate “come back next week”… ma io non ho una settimana!
Sconsolata esco dall’aeroporto e nell’esatto momento in cui varco la soglia scoppia il temporale più forte che abbia mai visto. Quindi rimango lì piantata per una buona mezz’ora. E va bene, si sa, a queste latitudini e in questo periodo dell’anno i temporali improvvisi non sono certo una rarità, non dovrei stupirmi più di tanto. Mi tocca rientrare in aeroporto, essere di nuovo investita da questo misto di odore di spezie e fare colazione/pranzo con coca cola e zignil (spezzatino di carne piccantissimo)… Finché il sole non torna ad asciugare tutto in pochissimo tempo.
E in pochissimo tempo a riportare tutto alla polvere di prima.
Il sole è accecante. Forse anche perché illumina un paesaggio a me sconosciuto ed estraneo. E mentre torno in taxi verso il mio alloggio me ne sto lì, a guardare ogni cosa, ogni pecora per la strada, ogni capanna di lamiera, ogni posto di blocco con i militari in mimetica beige e mitra in mano, ogni volto, scuro, pochissimi quelli chiari, ogni capo coperto dal velo dal quale però fuoriescono dei capelli riccissimi, delle treccine, ogni macchinone bianco con i vetri scuri delle Nazioni Unite o della FAO, con autista rigorosamente locale, ogni bambino che si avvicina alla macchina vedendo una bianca dentro, per chiedere soldi. Il tassista mi dice in un inglese tutto suo di non dargli retta, li caccia via, non vuole che mi infastidiscano. Lui ha una bianca in macchina, la deve proteggere, per lui sono ricca.
E devo tornare in ambasciata. Anzi all’UTL, Unità Tecnica Locale della cooperazione, che sta dentro l’Ambasciata. Ci sono già stata ieri, ma devo firmare degli altri documenti. Dico al tassista la mia destinazione, “no problem Madame! I know it. Where are you from?” ha evidentemente capito che sono italiana e vuole sapere da quale città vengo; mi sembra complicato spiegare che vengo da roma ma sono siciliana, mi spaccio quindi per romana e mi becco i soliti complimenti per la città eterna che lui, ovviamente, non ha mai visto, né verosimilmente vedrà mai, perché come mi spiega, è difficile uscire dal paese. Chissà quante altre facce curiose, spaurite e incredule gli è toccato di portare lì. Chissà cosa pensa di me che mi posso permettere un taxi dall’aeroporto all’ambasciata e posso anche permettermi di chiedergli di aspettarmi fuori per riportarmi indietro.
Sono già stata ieri, ho visto la strada che si fa. Distolgo un attimo lo sguardo dal mondo esterno al taxi con i sedili bucati, assorta in questi pensieri e quando guardo di nuovo fuori dal finestrino che non si abbassa per più di metà, è rotto, non riconosco la strada che ho fatto; senza che me ne rendessi conto abbiamo abbandonato una delle poche strisce asfaltate, per addentrarci tra pozzanghere e vegetazione in strade sterrate, metà polvere, metà fango per il temporale di prima.
Ti confesso che da brava europea diffidente dello straniero mi passano per la testa i pensieri più truci: mi sta portando da qualche parte per derubarmi, rapirmi, uccidermi e vendere i miei organi e cose simili, ma decido di mettere da parte la mia istintiva diffidenza e di accordare un po’ di fiducia a quest’uomo sui 45, almeno apparentemente, che poco prima mi ha raccontato di avere una moglie e 5 figli, 4 o 5 nipoti, un taxi e nient’altro.
Non passano neanche 10 minuti, a me sembrano 10 ore, che finalmente riconosco la strada che porta a “Villa Italia”, l’ambasciata italiana ad Addis Abeba. Non potrei sbagliarmi: una via in salita, che passa in mezzo ad una sorta di foresta, fiancheggiata solamente da baracche di fango, fango e lamiera – in mezzo alle quali si intravedono fili pesanti di panni, secchi per portare l’acqua in casa, piccole montagne di copertoni, vecchi con un panno di tela grezza (che un tempo doveva essere bianco ad avvolgere il corpo e la testa) seduti su una pietra appoggiati ad un bastone, aspettando qualcosa o niente – a tratti interrotta dal passaggio di animali, o di gruppi di bambini zozzi, con i vestiti strappati e, a volte, scarpe di plastica colorata.
Alla fine della strada un grande cancello grigio che interrompe un muro di cinta col filo spinato, controllato a vista da guardie armate. È Villa Italia. È una fortezza nel deserto. Scendo, suono, mi riconoscono e mi lasciano entrare. Si apre il cancello e improvvisamente mi sembra di essere stata trasportata in un altro mondo, il contrasto è troppo intenso per rimanere indifferente: davanti ai miei occhi stupiti un parco con viali alberati e aiuole fiorite, un ordine creato dall’uomo. Sotto il mio sguardo incredulo passano, a cavallo, due ragazzini biondissimi in perfetto completo da equitazione, pantaloni beige aderenti, stivali, frustino e caschetto nero. E io sono confusa e, confusa, dopo aver lasciato il passaporto, eventuali oggetti pericolosi, ricevuto un pass, entro. Percorro i viali e arrivo all’edificio. Potrai immaginare il mio abbigliamento, non certo da business woman, e per di più questa mattina alla guesthouse non c’era l’acqua… qui capita. Di certo non capita nelle case degli italiani che lavorano in ambasciata, che girano sui fuoristrada e che per tutto il giorno non vedono altro che le loro facce.
E lo so, stai pensando che sono sempre la solita polemica, che se anch’io fossi al posto loro mi comporterei allo stesso modo, che in fondo è come lavorare in qualunque altro ufficio… al quadruplo dello stipendio, è probabilmente vero. Ma ho accusato uno scontro di immagini troppo diverse in troppo poco tempo. È come se non ci fosse un continuum, una linea, ma solo dei picchi, in alto e in basso, senza le fasi intermedie. Destabilizzante.
 
Beh, il tipo dell’internet point mi fa capire che il mio tempo sta per scadere e c’è già uno che aspetta per prendere il mio posto, ci sono solo due computer anche decisamente lenti, quindi ti saluto e vado a cercare qualcosa da mangiare che non mi mandi in fiamme la bocca!

A presto

Chiara Pajno

Non è una scrittrice. È nata a Palermo nel 1978. Si è laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Malattie Infettive a Bologna. Dopo la specializzazione ha iniziato a lavorare a Roma per l’Istituto del Servizio Sanitario Nazionale che si occupa della salute dei migranti. Fa visite mediche nei campi nomadi, nelle stazioni ferroviarie, nei centri per richiedenti asilo. Ha lavorato come medico infettivologo in progetti di cooperazione in Africa con particolare riguardo alle tematiche della tubercolosi e dell’HIV/AIDS, nei centri di accoglienza e di identificazione ed espulsione dell’isola di Lampedusa, al molo dell’isola di Lampedusa per l’assistenza sanitaria agli sbarchi dei migranti e nei centri aperti per migranti di Malta… Gioca a mandare notizie dei suoi giri.