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Dall’intramata tessitura
di Enrico De Lea (Edizioni Smasher)

 

enrico de lea copertina“Lumi, segnali, segni, signature, / semi di luce, sementi del chiarore / illùne, un’assenza nel guscio, / nella vagina asciutta della terra, / insediamo per verba gli atti / dell’ostinazione della presenza vana, liberiamo / lo sguardo, ammutoliamo con i nostri morti” (p.47). Piuttosto che di poeta luciferino, portatore di luce, nel caso di Enrico De Lea potremmo parlare di poeta lucipĕtus, «che cerca la luce». Una definizione, quest’ultima, da allargare alla condizione umana, della quale De Lea è un testimone un po’ defilato ma attentissimo, con la postura di chi osserva e non parla né scrive altro se non l’essenziale, dentro un cammino segnato da ricordi ed esperienze legate alla sua terra originaria, nel messinese, soprattutto alle zone di Casalvecchio Siculo e la Valle d’Agrò: “Nei giorni, entro cui siedo, / la luce avanza e si fa pienezza / di senso, di adesione alla terra, / al suono suo squillante di mani, / di legno, pietra e pane. Fortuna / che ti incontro e me ne avvedo” (p.53). L’autore, trasferitosi per lavoro a Milano, non ha dimenticato i bagliori siculi, “[…] il chiarore iniziale, da insaccare per risarcire la fine del viaggio”, la sua scrittura risponde ai dettami dell’evocazione, dell’invocazione, complice il silenzio dedicato all’ascolto creaturale: “A notte fonda ed in attesa i platani / invocano sia luce, sia risveglio, / vogliono salutarti intensamente, / stringerti le mani tra le mani, / assieme al fiume, ad inattesi / profumi, tutto uno stupore, come te, / come il tuo passaggio d’ogni giorno. / Infatti passi e il mondo ti saluta, / e anch’io, parlando sempre / una parola muta” (p.56).  I luoghi dell’origine, fonti, pozzi e fontane (pp.13, 31, 52, 70, 71), del flusso costante, sono specchi di confronto con la discendenza, l’ingombrante spettro del padre e della madre, “il tessuto avito / di calore” (p.33). La poetica di De Lea, parte da un’urgenza della terra luce (come il titolo dell’altra plaquette, edita lo stesso anno per l’Associazione Culturale “La Luna”, in una collana diretta dal poeta Eugenio De Signoribus), attraversando i luoghi della memoria dove “L’occhio divora tutto, non ha testa / ma sangue del possesso, verso il mare. / Non la parola, ma un lento procedere / dello sguardo, quasi un adorare” (p.67) e il tempo narrato viene mistificato dal suo stesso nominarlo: “m’affascina ogni verbo, per intero, /in questo mi diffondo ad ampio raggio. / Mai che ti dica un po’ del tempo vero”(p.57). Questa scrittura poetica scala il paesaggio con gli occhi e lo esplora con perizia lirica: “Presto, ci sono colli da cui planare, / ove lambire un mare sempre ignoto, / un nastro d’ombra, un lago di lampare, / rasenti a pietre, ulivi, ad un vecchio fuoco, / esteso al sole, nello scricchio di sciare, / limitarsi a quel velame doppio / lasciato ai pomeriggi, dove pronti / e molli occhi sono i paesaggi, nelle fonti” (p.54). C’è la voglia di annullarsi dentro l’essere cosmico: “Nei giorni, entro cui siedo, / la luce avanza e si fa pienezza / di senso, di adesione alla terra, / al suono suo squillante di mani, / di legno, pietra e pane. Fortuna / che ti incontro e me ne avvedo” (p.53). L’umiltà dei poeti sta nel lasciarsi dire dalle cose, farsi attraversare con paziente cura dal desiderio, quella cura senza la quale l’universo si sarebbe già estinto. De Lea fa rifiorire i suoi morti “Dal lungo buio” (p.64), “[…] assolti / come la piena dal dirupo” (p.41), al riparo (per quanto frangibile), nel magazzino degli oggetti perduti o dimenticati, il testo poetico.