Ci è venuta una idea bizzarra: piccola inchiesta sulle lucciole! A scanso di equivoci precisiamo subito che ci stiamo riferendo all’insetto (lamperide) che emana di notte una graziosa luminescenza dalla parte terminale del suo addome. Precisazione indispensabile perché la stessa denominazione viene attribuita a chi in corso di proiezione (cinema) o rappresentazione (teatro), quando nella sala c’è il buio, accompagna lo spettatore fino al posto da occupare. Altrettanto di uso ordinario l’accezione di lucciola per dar nome a passeggiatrice o, come trascriviamo dalla didascalia riportata da un dizionario: “Donna di facili costumi che, di notte va in giro cercando di attirare clienti”.
La nostra generazione ha avuto occasioni di vario tipo per vere e proprie confidenze con le lucciole-lamperidi. A principio degli anni 1940, quando era prescritto il buio per via dei bombardamenti aerei, il nostro ricordo va alle battute che ci si scambiava tra adolescenti, riferendoci scherzosamente alle tante lucciole i cui punti di luce, di colore vagamente smeraldo, davano una sensazione di festosa accoglienza alla corsa verso i “ricoveri” antiaerei in campagna. Ricordi indelebili ed è un rammarico non disporre di un documento fotografico di quelle occasioni.
Noi etnei definiamo lucipicurara l’insieme (con desinenza che fa pensare a un neutro plurale latino) e lucipicuraru (luce del pecoraio) al singolare, con chiara classificazione al maschile. Particolare che non presenta il dialetto delle contrade della Sicilia occidentale fino all’agrigentino, dove la voce viene ingentilita da una raffigurazione al femminile con una definizione che diventa didascalia più esplicita: cannileddi di picuraru (minime candele del pecoraio).
Probabilmente non avevamo continuato a far caso alla presenza delle lucciole fino al giorno di un editoriale di P.P. Pasolini apparso sul Corriere della sera del primo febbraio 1975, e rimasto poi famoso. Lo scrittore friulano concludeva il suo metaforico divagare politico sulla fine delle lamprede, provocata dall’uso scriteriato di veleni chimici nelle campagne, con una malinconica riflessione: “Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola.”
Ma ecco dopo appena tre anni un altro grande scrittore, il siciliano Leonardo Sciascia, che ritiene tornate le lucciole e lo scrive nell’incipit del suo L’affaire Moro (Ed. Sellerio, Palermo 04 0ttbre 1978). Pasolini era stato ucciso il 2 novembre 1975, nove mesi dopo il suo articolo sulle lucciole. Scriveva Sciascia: “Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse. Erano ormai un ricordo: dell’infanzia allora attenta alle piccole cose della natura, che di quelle cose sapeva fare giuoco e gioia. Le lucciole le chiamavamo cannileddi di picuraru, così i contadini le chiamavano. Tanto consideravano greve la vita del pecoraio, le notti passate a guardia della mandria, che gli largivano le lucciole come reliquia o memoria di luce nella paurosa oscurità. Paurosa per gli abigeati frequenti. Paurosa perché bambini erano di solito quelli che si lasciavano a guardia delle pecore. Le candeline del pecoraio, dunque. E ogni tanto ne prendevamo qualcuna, la tenevamo delicatamente chiusa nel pugno per poi aprirne a sorpresa, tra i più piccoli di noi, quella fosforescenza smeraldina.
Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso ora pieno di voci e giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori dal tempo, ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso.
(“Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change”). Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze. Per mia parte sentivo come un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola-chiave della sua vita: la parola “adorabile”. Può darsi che questa parola io l’abbia qualche volta scritta, e sicuramente più volte l’ho pensata: ma per una sola donna e un solo scrittore. E lo scrittore – forse è inutile dirlo – è Stendhal. Pasolini trova invece “adorabile” quel che per me dell’Italia era già straziante (ma anche per lui, ricordando un “adorabili perché strazianti” delle Lettere luterane: e come si può adorare ciò che strazia?) e sarebbe diventato terribile. Trovava “adorabili” quelli che inevitabilmente sarebbero stati strumenti della sua morte. E attraverso i suoi scritti si può compilare come un piccolo dizionario delle cose per lui “adorabili” e per me soltanto strazianti e oggi terribili.
2. Pasolini, Sciascia, Moro, nomi come piramidi nelle pianure della storia. E non sia esagerazione aggiungere, per altre ragioni di loro assenza per sempre, le lucciole. Ma su questo particolare sarà il lettore a decidere. Noi qui, a distanza di ben 41 anni dalla virata sciasciana sul momentaneo ritorno delle lucciole, (rapimento e uccisione di Aldo Moro) siamo propensi a meditare sulla progressiva scomparsa di qualcosa che metaforicamente ci riporta indietro negli anni, cavalcando l’attualità della progressiva scomparsa delle edicole dei giornali, e su quella meno accelerata, ma non per questo meno decisa, delle librerie, anch’esse luoghi come simboliche piccole candele anche se non proprio dello stesso genere di quelle definite dal dialetto siciliano proprio del territorio agrigentino. C’è in tutte le città una decrescita delle presenze di edicole di giornali e di librerie che segna in modo chiaro e altrettanto scuotente un procedere inversamente proporzionale rispetto alla crescita (seppur lenta) della popolazione: è la scomparsa dei punti cari a chi legge e ricorre al cartaceo.
Segni inequivocabili di una nuova epoca che avanza con i suoi codici irreversibili (indietro non si torna!) che potrebbero essere (emblematicamente) i veleni, gli anticrittogamici, a pendant epocale di quanto è stato per le lucciole. Nulla, da ottimisti ci stimola a pensare al peggio. La vita continua. Nessuno scrive più nella lingua dei grandi tragediografi greci ma le loro opere, almeno quelle rimaste o i frammenti recuperati, sono tuttavia oggetto di studi e rappresentazioni. Un modello per rendere ottimistiche le vedute di un avvenire senza lucciole e senza carta stampata. Di quest’ultima ci saranno sempre i cultori e i collezionisti. Quanto alle lucciole ci si rassegnerà a ricordarle con il nome di lamprede perché a insistere col dialetto di lucipicurara o di cannileddi d’u picuraru si dovrebbe impiegare un botto di tempo per spiegare l’allusività del nome, col rischio di annoiare l’uditorio.
Ludi Rector