I più anziani ricorderanno lo strepitoso successo del romanzo “Il giorno della civetta” e ricorderanno il susseguirsi, per anni, di dozzine di occasioni narrative dai titoli zoologici, non sempre di genere avicolo, come quello del gran successo sciasciano, ma disperatamente mirati a tentarne qualche improbabile suggestione sui lettori. A rafforzare la tendenza si aggiunse “Il giorno del condor”, più fortunato in celluloide che in cartaceo. Ed ecco la processione di titoli inneggianti a un giorno più o meno fatale: “Il giorno del giaguaro”; “Il giorno del desapodide”; “del pescecane”; “dell’orca”; etc., un calendario di ricorrenze al bestiario, denominatore di altrettante proposte letterarie che legano, ogni volta, incolpevoli animali a un giorno tuttavia imprecisato quanto virtualmente responsabile.
La forza d’inerzia di questa tendenza al vaso comunicante dei titoli di certa povera narrativa italiana si estinse verso l’inizio degli anni 1990. Ed era l’ora. Anche perché erano sopravvenuti simboli nuovi, specialmente sulla via della politica. I titoli dei giornali tra “mani pulite” e “seconda repubblica” applaudivano a “nuovi corsi”. Alla presidenza della Camera veniva eletta la giovanissima Irene Pivetti, che l’aveva spuntata per un paio di voti sull’antico Spadolini, una delle figure “istituzionali” del Paese. Spadolini sarebbe morto da lì a qualche mese, quasi a sancire con la sua scomparsa la fine di un’era.
Il senatore Miglio (la mente) e l’onorevole Umberto Bossi (il braccio) inauguravano una medievale ritualità a base di carrocci, ampolle, dio Po. Novità di forte impatto in un territorio di certa Lombardia-Piemonte-Veneto, Regioni dove covano disposizioni a leggere alla rovescia l’unità d’Italia, in barba alla Costituzione e si esibiscono certificati di “Forza Etna”, nonché parentele coi lurchi & Radeschi, contro “Roma ladrona”. Ben presto si inscenano proditorie cammellate tra popolar convergere e fanciulleschi imbandieramenti di campanili in San Marco.
I custodi della Costituzione italiana sonnecchiano in omaggio a qualche identico amuleto che trafigge loro il naso, lobi d’orecchi, e a qualche storico scheletro comune in cassaforte. Insomma c’è una corte con un nome tra composto chimico e esito di colata d’alto forno. Una corte da grancirco, che sembra invocare la presenza di un sovrano, di un “RE”.
Un re da circo, è chiaro.
Ma il re c’è gia, un Mida del mattone e dell’etere che non è travicello. Anzi di travicelli ne fabbrica in serie. Un re consapevole del doversi esibire come “uno di noi” e quindi un re che per questo ruolo crea una variante moderna e tutta italiana del clown classico.
Un clown con i “numeri” adatti all’italiano di casa, chiesa e bordello, nonché al momento della montante e strombazzata “mutazione epocale”.
Della simbologia classica viene rigorosamente rispettata la funzione ossimora al re-sovrano. Il Clown infatti oppone alla maestà la più imprevedibile stramberia e la irriverenza, fino alla dissacrazione; all’aura di sovranità il disprezzo per le istituzioni (costituzionali); al timore per le leggi, la beffa delle leggi e di chi le amministra; alla dignità del ruolo, il pretesto grottesco, l’esibizione del faceto, della greve lepidezza allusiva; al trionfo e al prestigio verso l’esterno, la sconfitta morale in salsa menefrego.
Il clown che un bel mattino abbiamo trovato insediato da sovrano ha saputo gestire con supremo garbo il proprio ruolo creando un climax adatto a non irritare con brusche mosse il transito dal dignitoso allo scollacciato e lisciando il morbido vello del gregge nazionale con mano talmente tenera da far belare “Meno male che il clown c’è”.
La gente paga e rider vuol, recita la strofe nel prologo de “I pagliacci”, così è stato. Chi con amarezza chi col compiacimento del sentirsi rappresentato e rivendicato ha riso. L’Italia pecorilmente si è riadattata.
Dalle “veline” al “bunga-bunga”, dallo “stalliere eroe” ai “responsabili” in Parlamento, tra lodi, salvacondotti e “nepotismo”, il clown, ha mantenuto coerenze ineccepibili, anche attraverso il crescendo di un vocabolario schizofrenico, ma da regime.
Dalle remote sue origini scandinave, col significato di campagnol, o rozzo e con cappello a pan di zucchero, il clown italiano del Duemila è passato alla raffinatezza del re Mida dulcamara con bandana e del mandrillo in parrucca miliardaria.
Il gran circo degli impresari è stato tutto un coro di umanità circense in maschera riverenziale verso il suo clown mentore e cantore del nuovo corso.
“La gente paga e rider vuol”, amara o pecorile c’è stata la risata continua lungo tutta l’esibizione torrentizia, fino alla foce, sul mare in tempesta. Qui sono finiti in detriti gli anni del clown.
Protagonisti, corte e clown, adesso, attendono nei rispettivi lussuosi camerini, che gli addetti alla nettezza finiscano di ramazzare la pista del circo e completino l’applicazione della loro sadica specializzazione nel torturare, friggere e incenerire.
Aspettano freschi come fresie in humus generoso, per rientrare con nuovi spettacoli.
Ma l’era del clown è finita, anche se: “morto il clown viva il clown!”
Per questo sembra legittimo auspicare il titolo “Gli anni del clown”, fosse pure un banale omaggio alla cronaca, un arsenioso pamphlet. O un omaggio alla letteratura giullare della storia, o, in extremis per dare un pendant di assoluta levità a quei pregressi e nefasti incunabuli che furono “Gli anni di piombo”.