Un tempo era tutto diverso. E lo penso davvero. Non lo dico perché essere nostalgici ormai è consuetudine di chi non accetta il presente e desidera l’eterno ritorno del passato.
In questi primi giorni di febbraio, Catania, la città dove sono nato e tutt’ora vivo, è letteralmente in subbuglio a causa della festa di Sant’Agata, la terza celebrazione religiosa al mondo per mole di festeggiamenti. Da bambino adoravo questo periodo: c’erano moltitudini di venditori ambulanti che mettevano in bella mostra tutti i loro palloncini colorati, devoti vestiti di bianco che portavano in giro per la città la vara, turisti estasiati da un evento così folkloristico. E ancora la salita dei Cappuccini, le candele di cera, gialle ed enormi, che si sostituivano alle stelle della sera ed illuminavano la città, le olivette di zucchero, dolcissime e verdi. Ricordo in particolare un pomeriggio uggioso dove feci una passeggiata con mio papà e Giuseppe. Giuseppe è il marito di mia zia Lidia; io, però, non l’ho mai chiamato zio, ma non perché non gli voglia bene, semplicemente l’ho sempre visto prima come un amico e poi come un parente. I primi ricordi che ho di Giuseppe risalgono a quando mio padre, mia madre e mia zia, di domenica, andavano al cimitero per visitare le tombe del nonno Francesco e della nonna Francesca (i miei nonni paterni). Ricordo che passavo le mattine con lui a giocare a pallone in cortile, a fare la lotta sul divano e a inventare storie con i Lego. Ogni volta che penso a quei giorni, vengo pervaso, per un attimo, da un brivido di felicità e spensieratezza.
Tornando a quel pomeriggio e a quella passeggiata, mi ritorna alla mente l’arcobaleno che spuntò improvvisamente tra gli alberi di Via Plebiscito e le nuvole, prepotente, d’una bellezza estranea a questo mondo. La mia famiglia poteva godersi lo spettacolo da un punto privilegiato, l’ufficio di mio padre infatti era adiacente alla chiesa di Sant’Agata La Vetere, cioè il luogo dove la santa entra una delle sere della festa. A me non piaceva tanto lo spettacolo in sé, quanto il fatto che – per una volta – si stesse tutti insieme. Di solito, preferivo aspettare il momento cruciale in ufficio, di sotto, e non in terrazza. Lì mangiavo le olivette e mi divertivo a giocare al computer. C’era tanta gente in quella terrazza con noi: amici, dipendenti di mio padre, la nonna Angelina, il nonno Vincenzo, gli altri zii. E la sera non volevo mai tornare a casa, volevo sempre mangiare fuori e puntualmente fuori non ci mangiavamo mai. “C’è troppa confusione” mi diceva mia madre. In fin dei conti andava bene così. Mi godevo la festa anche perché, essendo piccolo, non avevo coscienza di cosa significasse realmente professare una fede. C’era solo il mito di nostro signore Gesù Cristo, il catechismo lunedì e la messa la domenica. Lo facevano tutti, quindi perché avrei dovuto fare diversamente? Ricordo la fede ferma di mia nonna, come pregava, come recitava il rosario, come si ostinava ad andare in chiesa nei giorni più caldi, in cui – almeno in teoria – sarebbe dovuta restar a casa per colpa dei problemi legati alla pressione. La nonna Angelina era, è e sarà sempre uno dei miei punti di riferimento. E adesso che non c’è più, cerco di trarre linfa dal suo ricordo, come un albero a cui hanno strappato le radici prova comunque a stare al mondo.
Ancora ricordo tutti gli spettacoli pirotecnici della festa di Sant’Agata, le bombe, i fuochi d’artificio che coloravano il cielo nero della sera, le grida “Cittadini, semu tutti devoti tutti, viva Sant’Agata!”, le trasmissioni in televisione, papà che la sera del febbraio 3 mi lasciava a casa con la mamma per vedere lo spettacolo pirotecnico che si svolgeva a Piazza Borgo. Con il passare degli anni, iniziai a perdere interesse per quella festa, ma più in generale per la religione. A volte la notte non riesco a prendere sonno perché divento preda di angosce che, almeno a questa età, non dovrei avere. Mi metto a letto e penso a cosa accadrà quando sarò vecchio e la lista delle cose da fare in vita sarà stata quasi tutta spuntata e resterà soltanto morire. Il problema più grande che mi si poneva di fronte, durante quelle notti agatine, era riuscire a dormire in preda all’eccitazione della giornata appena trascorsa: alla fine un compromesso si trovava sempre. Adesso non è più così. Adesso guardo il soffitto, nero come il cielo di una notte senza stelle, e mi chiedo cosa ci sarà dopo. Non scherzo, né credo di esagerare quando affermo che – per me – buona parte delle persone che conosco segue una pratica religiosa soltanto per illudersi che, quando chiuderanno gli occhi una volta per tutte, alla fine li riapriranno. Credo che l’unica forma di prosecuzione di vita oltre la morte siano i ricordi, e dunque anch’essi temporanei: un caro defunto vivrà sino a quando qualcuno ne avrà memoria, gli porterà i fiori al cimitero e piangerà per lui. E, poi ricordo dopo ricordo, anch’egli scomparirà del tutto. Adesso vedo nella festa di Sant’Agata soltanto una buona percentuale di ipocrisia, condita da una corposa dose di fanatismo.
Mi reputo una persona abbastanza umile, con i miei pregi e i miei difetti. Non riesco a controllare alcuni tic nervosi, a volte mi demoralizzo troppo facilmente, non riesco a leggere qualcosa che venga scritta da un mio coetaneo senza esserne schifosamente critico, sono un po’ ipocondriaco e anche tremendamente logorroico. Tutti questi difetti provo a migliorarli, ma da solo, non trasferendo i corrispettivi pregi ad un’entità astratta di cui non ho prova tangibile. In questi ultimi anni sono stato preda di un forte cinismo. Nel quotidiano resto sempre lo stesso, il solito Francesco che ride e trova sempre qualcosa su cui scherzare. Dentro di me, però, la notte, coltivo tutti i miei demoni interiori, come se fossero delle piante che sfruttano, per fare la loro fotosintesi, i miei incubi e le mie angosce, e mi succhiano e mi succhieranno linfa vitale, fino a quando un paio d’occhi profondi come il mare, dopo che è calato il sole, li sradicherà. Perché allora non si farà a gara di sogni, tra il più bello da realizzare e il più brutto, che non è altro che un bel sogno mai realizzato, allora si farà a chi sa fare meglio l’amore e basterà questo. O almeno così credo.
Non ci sono più né il nonno Vincenzo né la nonna Angelina. Molti dei dipendenti di mio padre a cui ero legato, e che stavano con noi in quella terrazza, hanno intrapreso percorsi diversi. Quello ricordo con più affetto è sicuramente Paolo, mi chiedo cosa stia facendo adesso, che nome abbia dato al suo nuovo cane e se abbia trovato la fidanzata che cercava.
Col passare del tempo iniziai a scendere sempre meno e, da qualche anno a questa parte, l’unica attesa che ho attiene esclusivamente alla fine di questa festività. Spero solo che questa guerra civile – come la definì un mio professore universitario – passi il più presto possibile. È rimasta solo la mia passione per le olivette. C’è ancora però chi ci crede davvero, chi darebbe la vita per quella Santa che porta il nome di Agata, farisei che si spogliano di ogni peccato commesso e per tre giorni dimenticano la loro vita, come se il sacco[1] potesse purificare la sua coscienza. Le strade della città, adesso, non le vedo solamente piene di luci, ma anche di cera, che resta per le settimane successive, rendendo pericolosa anche una semplice passeggiata in moto. Vedo che per tre giorni la città si paralizza: chiudono uffici, università, scuole e tutti iniziano a gridare “Viva Sant’Agata!”. Forse provo una sorta di invidia per questa massa amorfa che, spinta da un comune sentimento popolare, trova in quei tre giorni un particolare motivo di giubilo. Io, ormai, non ci riesco più. Trascorro le mie mattine sperando di alzarmi presto e fallendo puntualmente. Studio, scrivo, esco. Cerco degli occhi in cui rifugiarmi. Indosso il sacco della devozione a questa penna e a questo foglio, come se avessi contratto un’obbligazione perpetua con la vita. E fino a quando non troverò con chi condividere l’angoscia di realizzare i sogni che mi porto dietro, potrò solo illudermi di stare meglio. Penso spesso ad una frase che mi colpì durante la lettura di Fiesta di Ernest Hemingway. “Non mi importava che cosa fosse il mondo” – recitava – “volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era”.
E adesso che è giunta un’altra festa di Sant’Agata quella terrazza resta vuota, ma i devoti non sanno di aver perso uno spettatore: me. Loro vanno avanti, con i paraocchi della fede, trainati dalla devozione che millantano, come noi continuiamo a vivere le nostre vite, nonostante tendano a svuotarsi sempre di più, giorno dopo giorno, come la terrazza dell’agenzia di mio padre.
(Francesco Raguni)
[1] Abito tipico dei devoti di Sant’Agata