Stava ricamando la sua tela, quando le si compose in mente il paragone. La vita come un ricamo. Ma ricamo di chi? E su cosa? Era lei la ricamatrice o il ricamo? E d’istinto si mise a tirare la cima. Come per verificare l’ipotesi. E il ricamo, complesso, articolato, intelligente, si trasformò, giro dopo giro, in un comune, banale gomitolo. E nient’altro.
Pinella a Pa’ era vedova. Vedova di guerra. E prima che vedova di guerra era stata, com’era d’uopo, sposa di guerra. Luis era un bel francese arruolato nell’esercito inglese sbarcato a salvarci. Bello come il sole. Irresistibile e presuntuoso, proprio un quattordicesimo. E lei, che in paese non vedeva nessuno, tranne se stessa riflessa in uno specchio accondiscendente, s’era alzata in volo e s’era avvampata. Luis era stato richiamato al fronte e l’unica cosa tornata indietro, a spegnere gli entusiasmi, fu il certificato di morte.
Di specchi in paese se ne intendevano. Turi ‘Rchimito aveva convinto il sindaco che per avere il sole anche d’inverno in quella valle desolata, almeno per qualche minuto al giorno, bastava costruire uno specchio grande a sufficienza da piazzare sul monte Colmo a nord. Strano sole settentrionale. Come Luis.
Pinella aveva una sorella schetta, Rosa a Pa’. Si somigliavano. A occhi chiusi, tutti potevano riconoscere in ognuna di loro la sorella dell’altra. Ma a Rosa, lo specchio, buttava occhiate taglienti. Secca come la sarda, pelosa come la signa. Copia dissonante della sorella, aveva copiato, di nascosto, anche il moto verso Luis.
Si continuavano a far vivere, sole, alla massiria dei Pa’, vuota di tutto tranne che di specchi. Ma il sole disertava quella casa, anche il sole di Turi ‘Rchimito. Anche quello di Luis. Poco alla volta anche pure il ricordo.
Fin quando non arrivò Febo tra i lavoranti della massiria. Si distingueva eccome, Febo, in mezzo a quei mori abbrustoliti e sudici dei lavoranti. I capelli baluginavano anche all’ombra, anche dietro le tapparelle, anche ad occhi chiusi, anche di notte… E che sudori e che calori di caligine. Tutt’e due sorelle, chi per ricordo chi per rammarico.
Il gioco ebbe la forza che doveva. La vedova si rallegrò e il sole risplendette ancora. E lo specchio riflesse gemiti e sussulti che accesero la mente distrutta della sorella disarmonica. Che prima tappò le orecchie, ma non bastava. Poi gli occhi, insufficientemente. Poi tappò la sua vita fin quasi a soffocarsi. Ma solo quasi.
Tre anni erano passati. Lo specchio di Turi ‘Rchimito rifletteva. Più di quanto facesse Pinella che si crogiolava al cospetto del suo giovane amante. Quando lo seppe le si oscurò la vista degli occhi. Se n’erano fuggiti. Sole e fiore. Febo e Rosa.
Stranezze n’erano accadute. Rosa s’era incarnata. E un giorno ch’era sembrata diversa – cos’è? cos’è? – non era spuntata … depilata? E vista così qualcuno aveva cominciato a scambiarla per la sorella, che ora a dir vero, s’era inquartata e non voleva uscire più.
Così partì Pinella, d’istinto, appena i vicini buoni le portarono la novella, senza pensare, e li trovò. E li spense. Come il tramonto spegne il sole. Come le dita inumidite in bocca spengono la candela, che gli amanti giocavano quando li aveva trovati, senza neanche permettere al fumo di insaporire l’aria.
Tornata, Pinella trovò la lettera sul comò accanto al letto dove aveva prima gioito la tresca e poi pianto la fuitina. Dapprima le sembrò d’intuire. Poi si smarrì, poi si perse.
“Lo so che sono un vigliacco. Sono scappato senza pensare. E non volevo spiegarti. So di averti lasciato nella peggiore amarezza. Ma vivere con me, per te sarebbe stato peggio. Non sono come la macina che gira e torna sempre attorno allo stesso punto. Piuttosto come la ruota che gira e corre altrove e altrove e altrove…
Mi consideri morto. E morto io sono per il tuo amore. E morto è colui che pure ti amò
Febo è figlio mio. Mio e della donna che a te mi strappò. Mio e anche della donna che avevo negli occhi quando lo concepivo con quella. Voglio che sia lui a dirti che non son morto. Compensandoti con una vita una morte rubata. In lui mi specchio e vedo la fiamma della mia giovinezza.
Luis.”
Compensa e ti compensa…, pensò Pinella a Pa’, e si mise compulsivamente a disfare la sua tela, il suo sudario.
Nessuno scoprì il colpevole. Neanche Pinella, per quanto indagasse nella sua mente affollata. Per quanto ricamasse fili di colpa e discolpa, in testa e fra le dita.
La trovai così. Col gomitolo in mano. Quando la cercai, per nostalgia e per avere da lei notizie su mio figlio. Lei dipanò il racconto come aveva fatto col ricamo, riducendomi a gomitolo ingarbugliato. Ed io non seppi condannarla. Solo, non fui più capace di trovare il bandolo della mia esistenza e perciò lascio spegnere lentamente la brace della mia vita, in questo manicomio, sepolta da uno spesso strato di cenere, tanto che a voi dottori sembra non abbia barlume. Questa lettera è l’ultima scintilla nascosta che si consuma.
Trovato accanto al letto del paziente Luigi Udisse, morto il 23-5-’79.
Dott. Curiazio Mairone.
Maurizio Cairone