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A PROPOSITO DEL “DUBBIO DI MANUBRIO” PUBBLICATO SUL NUMERO SCORSO DI LUNARIONUOVO abbiamo ricevuto una lettera del poeta Vittorio Stringi che volentieri pubblichiamo e, con particolare gradimento, il pacato e saggio intervento di Claudia Russo, il risentito commento di Valeria Spallino (cui ha fatto eco Manubrio Zeta), il ponderato riflessivo di Aurora Romeo e un approfondimento di particolari di Ilary Tiralongo. A tutti risponde il direttore, sia nella sua qualità di Ludi Rector sia come turiferario generale dell’ORB (Officina Riparazioni Bambole).

poeti

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Al direttore e al Condirettore di Lunarionuovo

ho letto su Lunarionuovo di marzo c.m. la nota di Manubrio Zeta sulla statistica dei poeti presenti in Sicilia e mi sono venute queste note che mando alle SS. LL. e che auspico possano venire utili per il prossimo numero di Lunarionuovo. Naturalmente non pretendo che queste note siano esaustive dell’argomento, ma questo è quello che mi è sembrato utile dire, al riguardo.                                                                                     Ringrazio per l’ospitalità e saluto.  

Vittorio Stringi

 A proposito del dubbio (tanti poeti, nessun poeta)

“Tanti poeti, nessun poeta”: questa potrebbe essere la sintesi dopo aver letto sull’ultimo numero di  Lunarionuovo l’articolo di Manubrio Zeta che riferisce di una statistica in cui si rileva che, in Sicilia, sarebbero oltre 1400 i poeti (cifra verificata per difetto).  Ora non v’è chi non veda che scrivere versi, per esprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti, non solo non fa male a nessuno, ma segnala una sensibilità umana sempre da apprezzare. Tuttavia, detto questo, una cosa è scrivere qualche verso, come in molti si è fatto in gioventù, altro è essere poeta che richiede, vocazione personale, la cosiddetta chiamata, conoscenza delle materie umanistiche, del ritmo, della musicalità e del tema che si intende affrontare. Essere poeta, inoltre, significa stare nel proprio tempo, seguendo le evoluzioni del pensiero poetico del momento storico e culturale; significa essere in un rapporto stretto con la realtà, dalla quale si traggono ispirazioni e sintesi sugli interrogativi più cocenti e intimi dell’uomo e delle comunità. Il poeta cerca una collocazione nell’ambito della letteratura che altri prima di lui hanno esplorato, dando un indirizzo d’insieme alla complessa vicenda della vita e della condizione umana.

Ora, come affrontare il problema di: ”tanti poeti, nessun poeta?”. La risposta non è facile, né semplice, in un mondo sempre più guidato dalla logica del “consumo” e dalla conseguente, necessaria,“leggerezza” del prodotto da consumare. Chi, nell’editoria, ha interesse a fare emergere un prodotto di qualità, capace di interpretare la realtà in cui vive l’uomo? Interrogativo è proposto anche da Claudio Magris in un recente articolo sul Corriere della Sera, che ripercorre il ruolo della piccola editoria, come fonte di scoperta di “intelligenze nascoste e creative”, il cui prodotto, però, quasi mai arriva sugli scaffali delle librerie, appunto perché non è interesse delle grandi concentrazioni editoriali, cimentarsi con la promozione di autori impegnativi, che non fanno cassetta. Per rendersi conto di quanto si va dicendo, basta guardare i titoli che vanno per la maggiore esposti nelle librerie, che sicuramente non invitano alla riflessione, ma piuttosto alla evasione.

Ora è possibile che la piccola editoria possa di nuovo avere un ruolo di scoperta di veri poeti? Certo è che occorrerebbe, da parte loro, riprendere quel ruolo di selezionatori delle opere da pubblicare, quelle cioè che vanno oltre il cosiddetto “libro dei ricordi” che molti verseggiatori ambiscono a veder pubblicato. Forse è il cane che si morde la coda, perché anche qui sappiamo che poi è difficile vedere questi libri distribuiti, cioè messi nel circuito editoriale. Quindi forse la domanda da cui siamo partiti è senza risposta, o forse bisogna avere il coraggio e la forza di reagire all’andazzo generale, uscire dal coro e tentare di comporre un’altra canzone, fuori dalle consorterie e dalle caste.

La grande scuola poetica siciliana, da Stesicoro a Jacopo da Lentini, alla corte di Federico II°, con lo sviluppo che diede vita alla lingua italiana, dovrebbe insegnare a tutti:  poeti, apparati culturali, editori e aggregazioni varie, che non si può sciogliere la storia in una sorta di strada percorribile da tutti. Quel momento significativo per la storia siciliana e italiana, diede un grande insegnamento, allora si scelse tra i migliori, presso la corte, che diedero vita a un cambiamento culturale e, addirittura, crearono una lingua.

La carta poetica di cui parlava Quasimodo, forse ora diventa necessaria, ed è di impellente necessità per fare i giusti distinguo, tra chi scrive per diletto e chi invece riesce a fare cultura. Forse si tratta di pensare alla stesura di una antologia per cercare di fare sintesi e uscire da “tanti poeti, nessun poeta”.

Vittorio Stringi

Caltanissetta, 29 marzo 2015

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 Caro Vittorio Stringi,

“Essere scrittore” diceva Deleuze,  “significa diventare tutto, tranne lo scrittore”.  “ Ne pas faire l’archive” di  se stessi, di  un’infanzia sola e di ricordi propri. Ma liberare l’infanzia del mondo  da qualsiasi residuo soggettivale.  Che  scrivere delle proprie cose emozioni e sentimenti, equivalga a occuparsi di letteratura, è uno sbaglio grosso, per quanto possa pure essere il punto di partenza della miriade di evoluzioni. Ma il processo della creatività, del fluire della parola  va umilmente sottomesso a qualcosa di molto più ampio dei propri reflussi umorali e del proprio compiacimento. E’ un vedere oltre, una missione comune, di umanità e ricerca interiore e universale. Qualcosa di cui la nostra società ha estrema urgenza, prima ancora della forma estetica del verso, benché quest’ultimo non vada del tutto negato.  Che l’Italia lo voglia o meno, ch’essa voglia conservare più o meno intatta la propria nutrita tradizione poetica, si confronta sempre di più con il multiculturalismo e il capitalismo. Capitalismo che può spingere a volte a fare di certe meditazioni poetiche che non sembrano poetiche, ma libere. Vogliamo dargli l’epiteto di poetiche per comodità, ma non sarebbe necessario davvero. Concordo con lei signor Vittorio Stringi, che “ essere poeta significa stare al proprio tempo”. Non farlo, sarebbe come esistere senza aver coscienza , o averla senza utilizzarla,  fluttuare e roteare dentro il manicomio più totale. Non sono molto d’accordo però con quello che lei ha definito: “ seguire le evoluzioni del pensiero poetico del momento storico e culturale”.  Il pensiero quando è è pensiero veramente, è libero e solitamente anche contro corrente.  Non da Bastian contrario, ma deve essere pensiero critico. Parlare di pensiero che segue la linea temporale e culturale,  si cadrebbe nel  voler credere, di desiderare in linearità con una realtà circostante, che è evoluta sostanzialmente nel capitalismo. Fermarsi e fissarsi  al  rapporto con la realtà , a mio avviso, è inesatto  quando a essere distorta è la stessa realtà. E questa fa credere tante cose: che sia giusto il compiacimento del fare poesia da scaffale, sia anch’esso uno scaffale d’élite. Fa credere ad un’inesausta tenebra  e  spinge allo specismo involutivo.  Qualcosa di simile al definire “ chi è in grado” e “chi non è in grado”,varrebbe a mettere un limite non solo alla creatività ma allo spirito che non è fatto per accontentare gli indici di gradimento dei lettori di consumo, che guardano a ciò che un sistema consumistico, gli propina come “distrazioni”. La letteratura però non è fatta per distrarre. E’ ben più di questo la letteratura.  Il suo appello a me ha dato da riflettere su una cosa:  è storia vecchia come il mondo, quella della minaccia della tenebra, che ora incombe sempre di più, sulla letteratura.  Sarebbe uno sbaglio cedervi ora e peggio ancora sarebbe cedervi in futuro.  Sarebbe più sano prima  recuperare il contatto con il reale e l’Elementare, prima che con la realtà.  Ed è bene a mio avviso, che ci si stacchi dal dilemma di definirsi poeti o nessun poeta, per poter raccogliere umilmente, quanto la nostra terra ci offre, senza cedere al consumismo e all’identificazione col poeta.  Quando spontaneamente , più convergenze si incontrano, queste non si trasformano in poeti, ma restano le convergenze in nome della Poesia.  E’ semplicemente un esistere, l’agapé, dove tutte le parti lavorano per l’Uno. Noi lavoriamo ovviamente per quest’Uno, essendone ancora ben lontani. Essere semplici si sa che è la cosa più difficile.

Claudia Russo

Enna, 10 Aprile 2015

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 Ignoro chi si celi dietro lo pseudonimo Manubrio Zeta, ma non ho remora a dichiarare che diffido istintivamente da quanti, mascherandosi con un nomignolo e non per pudore, principiano le loro dissertazioni con frasi del tipo “L’idea non è mia”. Ambasciator non porta pena, ma preferisco il parlar chiaro e responsabile. E qualcosa, inoltre, non quadra e infastidisce: si mettono le mani avanti ma è per affilare e indirizzare coltelli. Era di poesia che volevasi trattare o inviare un messaggio a persone terze? Marinetti era un principio o un pretesto?

Dopo una prima lettura dell’articolo titolato Il dubbio, apparso nello scorso numero di Lunarionuovo, ho presto archiviato l’intervento, non me ne voglia il signor Zeta… a ognuno i propri giochi e modi ma la provocazione mi era parsa arida e maliziosa, il discorso e i suoi legami strumentali, il pensiero futurista e le tesi del Marinetti richiamate con funzionalità sterile e opportunista, la necessità della poesia (magia indefinibile, ineludibile e primaria) distorta e travisata, svilita e umiliata. Mi vedo tuttavia chiamata a esprimere un commento: il dibattito potrebbe risultare fruttifero, stimolante, costruttivo.

Quando Marinetti affermò nel Manifesto del Futurismo (1909) le sue idee dogmatiche e stilistiche, e attraverso pubblicazioni specifiche e successive indicò l’abolizione del chiaro di luna (leggi lirismo, emozione e sentimento, soggettività insomma) a favore dell’esaltazione dell’oggettività assoluta, del dinamismo e della macchina, della forza, della violenza, dell’orgoglio… era figlio del proprio tempo, reclamava una rivoluzione culturale che rilevasse e supportasse le trasformazioni sociali in atto, l’industrializzazione e l’esigenza, per alcuni, della guerra.

Non abbiamo bisogno di riesumare e incoraggiare certi atteggiamenti al giorno d’oggi, in un’epoca che ha fatto della violenza fisica e verbale, della prepotenza e della forza l’arma di battaglia per affermarsi a se stessa e al mondo, per conquistare impunità e agiatezza sociale, né necessitiamo di ulteriore dinamismo e movimento in questo tempo fluido nel quale anche i sentimenti e i valori, le stesse coscienze e intelligenze si fluidificano e disperdono.

Il problema del linguaggio? Ma sono i poeti che hanno inventato (e inventano) la parola, diffuso e raffinato la lingua, quali siano le espressioni e le forme del linguaggio. E lo hanno fatto senza proclami d’abolizione di sintassi e punteggiatura, avverbi, aggettivi o dittonghi, senza bandiere o tamburi strombazzanti. Abbiamo già enormi difficoltà di comunicazione, radicato sospetto e incomunicabilità nel mondo (persino, talvolta, con la parte più profonda di noi stessi) per acquisire nuove distanze aderendo a qualche –ismo che sopprima l’uso di certe sillabe o del colore espressivo del nostro dire, la musicalità dell’anima e il sentimento da condividere. Discuterne è paradosso.

Sarebbe preferibile soffermarci e tornare alla sincerità del vero e del naturale, perseguire la cultura e la bellezza, l’arte e la poesia, partecipandole con espressione semplice e chiara, priva d’arroganza, rispettosa d’ogni differenza e particolarità, tornare a guardarsi e confrontarsi con tolleranza e onestà, in sintesi dialogare.

Per parte mia, in quanto a Marinetti, lo saluterei con le parole che Pessoa – che pure, nella sua moltitudine curiosa e attenta, del futurismo s’era infervorato, se pure con differente sensibilità e senso, secondo un tratto personale, mistico e introverso –, ha affidato ad Álvaro de Campos in un sarcastico testo a quello dedicato, che termina così:

Marinetti, accademico…

Le Muse si sono vendicate con riflettori, caro mio,
alla fine ti hanno piazzato alla ribalta della vecchia cantina,
e la tua dinamica, sempre un po’ all’italiana: f-f-f-f-f-f-f……

 per giungere alla poesia.

Liquidiamo Marinetti, come un palloncino che si sgonfia o altro se aboliti per momentaneo incanto restano i dittonghi. Mi risulta difficile e ambiguo rintracciare un nesso logico tra quel letterato, che peraltro trovo poco poetico, e le statistiche in corso sui poeti o non-poeti di Sicilia o d’Ognidove), parliamo di poesia e poi (forse) di editori e amanti, statistiche e recensioni, corporazioni invidie e atteggiamenti. Evitiamo scontri inutili e inimicizie, facciamo dibattito e Cultura. Solo quella conta.

1450 poeti calcolati per difetto. Piuttosto tendo a credere calcolati per eccesso, per esagerazione. Certo non con parsimonia. Sono troppi i poeti al mondo, troppi i poeti nella nostra Sicilia? Ancora una volta è un problema di linguaggio: tra quei 1450 di Poeti ce ne saranno forse due o tre, al più e nel migliore dei casi ci saranno embrioni di poeti in crescita e trasformazione; il resto è gioco e distrazione, vanità o ingenuità. Perché non basta scrivere “parole in liberta” e ripotarle ripetutamente a capo o simbolicamente sullo spazio della pagina, per essere Poeti, né basta o è condizione necessaria e sufficiente l’aver sulla copertina d’una silloge stampato e in bella mostra il proprio nome per essere riconosciuti poeti nel tempo che ci accoglie e nel successivo. Non basta spacciarsi poeta per essere Poeta: serve tanto di più. È necessaria quella capacità di svelamento e paziente sollecitudine suggerita da Ungaretti, non scevra da studio e applicazione, attenzione alla memoria e al contesto, al sentimento e alla ragione, è necessaria umiltà e non esaltazione. Prima d’ogni cosa è necessario mettersi in ascolto, imparare l’ascolto, farsi silenzio per poter udire, riconoscere la chiamata e la voce più che la grammatica o una lingua codificata, un repertorio dogmatico o accademico, cercare empatia con l’Essere e la sua presenza, con le cose del mondo e le immateriali, al di là d’ogni parola e di ogni quiete. È necessaria l’arte che richiama e la sensibilità che risponde, lo spazio musicale e la luce tremante dell’idea, serve anima e trascendenza, ricerca e fantasia, affermazione di speranza e di umanità, non ingranaggio rumoroso e imbullonato, odore di nafta e grigiore svolazzante, il versificare per diletto o goliardia, la firma su un qualche ipotetico contratto, un plauso a un reading o una recensione altisonante.

Un conteggio sì ottimista, 1450 poeti (con il dittongo, quanti lo siano e quanti no in realtà è poco importante, tutti meritevoli d’espressione, di presenza e attenzione, memoria d’un tempo e d’un divenire) lascia tuttavia ben sperare e necessita opportunità al riconoscimento, tramite pubblicazioni editoriali, case di poesia o quant’altro, perché testimonianza di un’epoca e di un sentire; ed è consolante: c’è ancora sete di poesia nel mondo, c’è ancora speranza per l’umanità.

Valeria Spallino 

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IN RISPOSTA A V. SPALLINO

Al fin della licenza io…tocco! Ma Cyrano de Bergerac la licenza di “toccare”l’aveva avuta, io no né mi servirebbe. Infatti, attribuisco a una momentanea oscillazione negativa del ph (ppi acca) l’aspra e risentita premessa di Valeria Spallino alla sua stessa dotta dissertazione sui peti e sui poeti tirati in causa dalla mia provocazione. La Spallino, che pur si dimostra di buon palato letterario, da erudita e seria, quindi lasciandoci il sospetto che sia stata malconsigliata da qualche malconsigliora, stigmatizza chi si firma con pseudonimo fino a scongiurarne la moralità. E fa la figura di padre Zappata, omettendo che, quella dello pseudonimo che lei generosamente definisce maschera, è stata ed è una delle più affabili e consuete livree della buona letteratura. Da George Eliot che altri non era se non Mary Ann Evans Cross; all’Alberto Moravia che all’anagrafe era Pincherle o, nel giornalismo non propriamente remoto, il tal Ercole che altro non era se non Palmiro Togliatti; o il Ricciardetto che firmava settimanalmente e per decenni da incognito in uno dei rotocalchi italianipiùimportanti e diffusi della seconda metà del secolo scorso, o ancora il buon Trilussa che all’anagrafe era Salustri. L’elenco potrebbe riempire pagine e pagine. E sarei tentato di elogiare questo genere di maschera, specialmente se la sua presenza può essere veicolo di sfogo per chi, proprio grazie a chi si indigna (o si fa indignare dalla consigliora) e si scaglia a testa bassa  contro Manubrio, trova poi, proprio grazie a Manubrio Zeta, occasioni per svaporare umori da p h negativo sul lastricato policromo di una piattaforma culturale cui mai avrebbe avuto accesso in una società di pseudomecenati, peti e narcisi dalle facili autostime! Questo lo dico in clima caro a chi ripara bambole e con la buona Pasqua per tutti.                                                                                                                         

Manubrio Zeta

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 È assolutamente certo che la poesia, degna di tale nome, sia insignita di una techne oltre che di un sentimento. Ciò che distingue un poeta vero è il lavoro del fabbro, dove l’incandescenza liquida del sentire viene sapientemente temprata dagli arnesi del maniscalco.

È altrettanto certo che l’editoria, nella sua funzione originaria, dovrebbe ergersi a guardiana della letteratura, lavorando come setaccio e trebbiatrice, per distinguere il grano dalla paglia.

Ma il punto è proprio questo: come si fa a distinguere il grano dalla paglia? Come lavora la “trebbiatrice” dell’editoria?

La società di massa, il consumismo e le comunicazioni telematiche hanno reso molto più complessa la questione. Oggi è  molto più semplice accostarsi alla “cultura”, divulgarla e fruirla, e il risultato è che ne esce spesso svilita: tutti possono pubblicare in modo agevole, tutti possono scrivere: basta trovare i “canali giusti”, un’ adeguata pubblicità, un conoscente strategico ed il gioco è fatto. Ciò è favorito anche da un’altra innovazione eclatante: il verso libero! Se da un lato ha affrancato la poesia dai catenacci della metrica, dall’altro ha reso sempre più impalpabile il crinale fra il poetico e l’impoetico. La fluidità del nuovo canone “democratico” ha sì permesso un ampio spettro di fruizione, ma ha anche allargato le maglie del setaccio. Come nella favola del re nudo, nuovi sedicenti “poeti” millantano vesti splendide nei loro versi. Ma è sempre più difficile gridare in faccia agli impostori: «il re è nudo!». Il relativismo culturale, il lassismo del canone letterario, ha dato terreno fertile ai “tartufi” della poesia, e questi proliferano nel loro habitat confortevole! Quando il concetto di nudità e il concetto di vestito sono sempre più labili, basterà solo trovare un buon sofisma, un’adeguata divulgazione, un effetto moltiplicatore del gregge, ed ecco che il re sarà elegantemente abbigliato, ed il più sciatto imbrattacarte diventerà poeta.

Ovviamente gli editori assecondano sempre più la pletora dei presunti scrittori e si piegano sempre più alle logiche di bassa fruizione. Il certosino lavoro di scrematura è faticoso, arduo, richiede perizia e competenza. Anche qualora perizia e competenza siano presenti è più semplice adattarsi alla fiumana della letteratura fast food piuttosto che farsi travolgere da essa.

 Aurora Romeo

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Leggendo il “Dubbio di Manubrio” e il commento del poeta Vittorio Stringi, è naturale conseguenza evidenziare indubbie verità.

Il mercato editoriale appare all’osservatore sempre più “massificato”, alimentante quella “spirale discendente” comportante “giacenza culturale”. Una spirale costruita dalle consumistiche regole del marketing, prive di quella necessaria inclinazione alla formazione, indispensabile per chi si occupa di cultura, come positiva indicazione d’evoluzione mentale, ragionata, opposta alla dominante “catodicizzazione”, o opera plasmante lettori mediante modelli imposti da format, televisivi o simil tali. Prevalenza consumistica, schiacciante “le piccole realtà editoriali”, indipendenti, sempre più scoraggiate nell’offrire spazio ad autori emergenti in settori ritenuti “sorpassati”, “eccessivamente di nicchia”, ergo non proficui, non commercializzabili.

Ma a rendere “poveri” gli scaffali delle librerie è anche il “desiderio figurante” di molti, di apparire, ad ogni prezzo, su quelle stesse mensole. Nel momento in cui un editore impone un costo per la pubblicazione, nel momento in cui l’autore è disposto all’esborso, pur di pubblicare, in quel momento, a mio parere, s’inceppa e distorce il meccanismo di automatica selezione che porta l’editore a scommettere su una nuova “promessa” e l’autore a fidarsi del proprio “mecenate”. Accade così che i filtri vengono erosi, ridimensionati fino all’annullamento. Episodi virtuosi, di rottura, rispetto tale sistema, esistono, ma, ahi noi, sono in netta minoranza, rare perle dall’arduo percorso.

Nell’affrontare il tema della moltitudine poetica (e più in generale “letteraria”) è parso indispensabile evidenziare tali premesse, ma tornando al “dubbio” sollevato da Manubrio “tanti poeti nessun Poeta”, mi chiedo, si può ammettere che la moltitudine sopprima il singolo? Se rispondessimo con un’affermazione, dovremmo asserire che nella massa l’individuo, pur mantenendosi tale, dispare. Un ossimoro parzialmente vero, condizionato da due fattori. Operando un semplice esempio, tentiamo di confutare il citato ossimoro comparandolo alla condizione umana. Diciamo dunque: se in un gruppo di soggetti tutti seguono “il fiume” e uno solo sfida la corrente (condizione prima), “quell’uno”, magari con iniziale difficoltà, avrà l’opportunità di essere notato, specie se presente, nell’osservatore, una volontà che definirei “di scoperta” (condizione seconda), una volontà di scorgere il “diverso” mediante il suo moto contrario, oppositivo. In quel caso, l’uno verrà scovato. Credo che lo stesso meccanismo valga per chi si occupa di Poesia e Cultura. Per quanto siano in molti ad avvicinarsi a tali ambiti, innanzi ad una figura “autentica”, in grado di mostrare la propria valente soggettività mediante il suo, personale, lavoro, ogni meccanismo, direttamente o indirettamente “annullante”, operato dalla moltitudine verrà neutralizzato, se presente, tra gli osservatori una “volontà diversificatrice”.

Bisognerebbe, a questo punto, cercare di individuare la pura figura, di Poeta, e capire in che modo differenziarla dagli aspiranti tali, ma come operare una simile scrematura e chi dovrebbe assumersene l’incarico? Come scegliere gli “scrematori”? Forse pessimisticamente, immagino che imporre o tentare di imporre “meccanismi scremanti” equivarrebbe a mettere in atto, in ambito letterario, i paralizzanti destini dei cantieri Anas, caratterizzati da tangenti, falsi controlli e conseguenti crolli. Ben diverso sarebbe se “il mercato” aggiustasse se stesso, se fosse differente mediante un’azione concertata, combinata, di autori e editori, lavoranti in comune accordo per l’abbattimento dell’ammorbante sistema della non-cultura, e la creazione di una nuova, virtuosa struttura.

Ovviamente, ciascuno avrà, in merito, particolari opinioni. Qualcuno riterrà fondamentale lo studio metrico, altri, profonde conoscenze letterarie, magari l’uso di stili e linguaggi eruditi, nonché l’inclinazione di Vate, guida sicura dei tempi.

Personalmente, magari errando, aggiungo che ho sempre creduto nella forza “sensoria” della Poesia, dell’Arte in generale. Senso sesto dell’uomo, strumento “figurato”, soggetto a costante evoluzione, in grado di offrire, a ciascuno, la possibilità di esprimere se stesso, “trovarsi” nella sublimazione, permettendo, mediante simboli, tramite “menzogne”, di offrire le proprie verità, al di là di ogni cattedratica conoscenza.

Mi affido dunque alle parole del recentemente compianto giornalista, scrittore uruguaiano Eduardo Galeano che, nel rispondere a chi chiese dei suoi maestri, disse “tutti i giorni mi educano persone anonime”, che, parafrasando Picasso, parlò dell’arte come la più grande menzogna rivelatrice di verità, che esortò gli scrittori ad ascoltare due volte prima d’esprimersi, a osservare quel che non viene consideratole piccole, piccole cose che ci confermano che un altro mondo è possibile”, a denunciare “la falsa grandiosità delle cose grandi”, poiché nel nostro, comune contesto, risulta semplice confondere la mera grandezza con la maestosità.

Ilary Tiralongo

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 DA NOI SI RIPARANO BAMBOLE

Una accettabile approssimazione, a proposito di poesia è quella efficacemente proposta quella volta da Giorgio Manganelli:che il Poeta: -“non può tener discorsi, non può commentare, non ha pareri, non consente né dissente; ma gli si concede, anzi si vuole che egli straparli, scioccheggi, strologhi, berlinghi, fabuli e affabuli, concioni agli inesistenti, spieghi carabattole, ed a se stesso dia torto e ragione, si insulti ed approvi, si accetti e ripudi., In quel che dice molte materie e qualità si invischiano: ma non mai la verità e non mai il suo contrario.” appendice di pensiero caro alle nuove avanguardie. La prova dimostrativa era per loro una banale ritualità salottiera ciascuno dei presenti alla riunione era invitato a scrivere un proprio estemporaneo pensiero su una striscetta di carta, e depositarla nel cappello predisposto. Si noterà la preferenza per il cappello di uno dei partecipanti come “urna” per le striscette. Che dopo una mescolata venivano estratte una a una da chi aveva anche il compito di dettarne il contenuto, destinato a costituire ciascuno un verso di quella che sarebbe divenuta la poesia. Una procedura che intanto sanciva il teorema della indipendenza logica di ciascun verso. Concetto fondamentale che fa pensare alla boutade dannunziana:  “Il verso è tutto” e che rinvia automaticamente a una ritualità popolare, molto diffusa negli ultimi secoli scorsi e di cui appunto, tra Ottocento e Novecento troviamo cenni in scritti letterari di Capuana, Tobino, Buzzati, Carlo Levi. E altri. La ritualità consisteva nel trarre auspici per i propri programmi stando nascosti ad ascoltare i discorsi dei passanti, preferibilmente nelle ore del primo buio, entro l’ora di notte. (Momento in cui, si diceva:. “È un’ora di notte / riposano i vivi e rivivono i morti). Con l’accortezza di preferire la coincidenza della ritualità con giorno privilegiato da una fase lunare (luna nuova, primo quarto, secondo quarto, luna piena). La sosta in ascolto doveva durare un’ora e, alla fine, dall’insieme dei discorsi frasi o singole parole captati veniva presa la decisione sul da farsi nel corso dei giorni che separavano dalla successiva fase lunare.                                                                 Le ritualità letterarie dei salottieri delle nuove avanguardie non tenevano in cale le fasi lunari, ma attribuivano valore di poesia, quindi di “profezia”, al significato che scaturiva dall’insieme dei versi scritti autonomamente dai presenti, che, particolare da non trascurare, non dovevano necessariamente essere facitori di versi. Quale parentela tra queste esperienze e il dubbio di Manubrio contestato dalla cattiva digestione di Valeria Spallino o dal narciso risentito di altri? Forse nessuna – o forse strettissima parentela. In  fondo la poesia scaturisce da una effe, una sola, nel senso-significante marinettiano,  ricordato qui dalla evocazione dalla stessa Valeria Spallino, ma da una più recente e letteraria diagnosi che la vuole, la effe, appunto, esito di febbre furore e fiele. Tre effe, cui si potrebbe/dovrebbe aggiungere quella di forsennati, con ineludibile riferimento a quanti poeti o peti finiscono col prendersi sul serio, frecciata che indirizziamo proprio ai 1700 poeti siciliani della statistica cui si riferisce Manubrio Zeta. Quanto al resto ciascuno ha pieno diritto di pensarla come crede, noi infatti, ringraziamo tutti ma particolarmente – e ci sia consentito – Manubrio Zeta che ha lanciato la provocazione e il poeta Vittorio Stringi, autore del recente capolavoro “Oltre l’accaduto” che poeta è per chiara fama e lungo corso. Stringi infatti, con la sua lettera ha stimolato il sostanzioso dibattito nei cui graditi e costruttivi interventi ho però notato con rammarico l’assenza di un denominatore di famiglia, quello proprio del Gruppo CIAI e quindi di  Lunarionuovo, che fin dal suo primo numero ha proposto una linea ludica ai suoi collaboratori e lettori, prendendo in usufrutto il titolo di un’opera di Antonio Pizzuto: “Si riparano bambole”, un invito che il direttore nell’editoriale rinnova, di numero in numero, firmando le proprie ludiche divagazioni Ludi Rector, cioé reggitore del gioco, il che  potrebbe alludere alla impossibilità per l’uomo di conoscere quale sia la verità di ogni verità, e alla convenienza, nei momenti di lucidità, di ricorrere al dubbio, ma ludicamente e tanto meglio se con qualche sfumatura di ironia,  per non lasciare il sospetto di eccessiva autostima.. Dichiaro chiusa la parentesi sui Peti / Poeti. Anche perché Manubrio Zeta non può fare a meno di dubitare, è il suo mestiere! Prova ne è il suo nuovo dubbio che leggiamo in questo numero di Lunarionuovo e probabilmente altri nuovi a ogni numero nei successivi Lunari, e sempre con l’auspicio di liberi dibatti e buone digestioni. Non è facile l’arte del riparare bambole!

Mario Grasso