Sua nonna piccola e arripudduta se ne stava sempre seduta su una sedia in un angolo della cucina e ripeteva sempre quella parola, Ciulluvì, rivolta verso suo padre che vendeva frutta all’angolo della strada e poi si andava a giocare quello che guadagnava. Non voleva ascoltare da quella vecchia che sua figlia così bella fosse andata maritata a quel cosa inutile, che le aveva dato la dote e lui se l’era mangiata. Ciulluvì, Ciulluvì… Quella parola la scacciava dai pensieri, come tutte le brutte parole che denigrassero le persone. Guardava la statuina della Madonna sul cantarano, così pietosa e buona nello sguardo. Doveva essere come lei. Perché bella Rocchina lo era, come una Madonnina, e doveva essere buona. Si distingueva dalle altre per due motivi: le compagne di scuola avevano tutti una pirrera di fratelli, morti e vivi e questi erano caruseddi sbrindellati e lordi. Lei no, era figlia unica. E poi le altre erano brune e scure con i capelli arrizzati: lei era bionda con i capelli folti e lisci, lucidi e morbidi; aveva gli occhi azzurri e una faccia di porcellana e camminava per le strade leggera… Un angelo, una farfalla. Arricriava tutti quando passava. Era come una ventata sciarusa che arrivava dal mare, quel mare immenso che si vedeva già dall’alto quando si scendeva verso la piana di Busciara. La spiaggia andava avanti per chilometri ed era tutta sabbia e l’azzurro di quel cielo aperto accecava gli occhi. Lì erano sbarcati i miricani. Passarono gli anni e la città diventò mostruosa: l’industria del petrolio, le case abusive di quelli dei paesi vicini, che come falchi erano piombati giù, avevano distrutto quel Paradiso. C’erano i nuovi ricchi e i nuovi poveri, ma dovevano essere tutti spacchiusi dovevano indossare abiti sgargianti per farlo vedere che fosse arrivato il progresso. A Rocchina non interessava: si cuciva degli abitini modesti che le si poggiavano addosso come la pennellata di un mastro pittore sopraffino perché era bella come il sole, lei. Ma di soldi ce n’erano pochi e lei, anche se figlia unica, era pur sempre una povera cane e quindi le fecero sposare un marito che proprio per bellezza con lei non c’entrava niente, anzi aveva la faccia e l’espressione di un mulo. «Commerciante, commerciante è, di robe miricane, non di frutta come suo padre», diceva entusiasta sua madre, che con gli anni prese l’affriggi di sua nonna, e, dopo che quella fu morta, lo stesso posto in cucina sulla stessa sedia. E anche lei iniziò a ripetere come una lastima, come un attasso quella parola: “Ciulluvì, Ciulluvì” rivolta a quel genero screanzato che altro che commerciante: era senza erba né lavoro. Ma Rocchina era paziente, mai una parola di lamentela verso quel marito. E gli aveva dato pure tre figli. Prepotente per com’era, quel Ciulluvì aveva quasi imposto la sua bruttezza ai carusi, così diceva sua madre: avevano tutti la sua faccia da mulo. E pure il suo carattere. E oltre a queste cose aveva donato a Rocchina tutta la sua famiglia d’origine. Lei, che di fratelli non ne aveva avuti, abbracciò tutti come la Provvidenza divina… Tutte sorelle erano per lei le cognate. E le seguiva nei loro raduni religiosi perché erano della Chiesa degli evangelisti. Ed evangelista lo era diventato pure Chilluzzo, suo marito. Si portava la chitarra ai raduni e improvvisava canzoni di lode a Dio mentre si girava di scatto attrantato da più di un ticchio, apriva la bocca e la chiudeva, schiacciava l’occhio, spostava il braccio. Erano manie, le aveva pure una sua sorella, Nunziatina, quella che aveva studiato ed era diventata maestra. Pure lei alzava il braccio all’improvviso, schiacciava l’occhio e si lavava sempre le mani. Nunziatina aveva due figli studiosi e che si amavano tra di loro. Quelli di Rocchina, anche se erano evangelisti e della parola amore si riempivano la bocca, sempre tra di loro litigavano e guardavano i due cugini con invidia. Rocchina no, se li stringeva al petto quei nipoti acquisiti, si priava dei loro successi. Certo, li avrebbe voluti così i figli suoi. Invece non erano così: il grande, Pietro, camminava con le cosce aperte, sicuro di sé e gli piaceva andare appresso alle ragazze; il mediano, Gennaro, era quello più esaltato e la sua vita era per Dio e lo gridava ai quattro venti; la femmina, Marinella, era grassa e tarchiata con un ghigno scemo stampato sulla faccia. E, quando vedeva i cugini, glielo diceva a mo’ di sfottò: «E che sei tu, scienziato?». Eppure Rocchina le aveva preparato il corredo con i ricami e i fiocchi e sognava di prepararle un giorno il tavolo con i regali per il matrimonio, con una bacheca per appendere le buste dei soldi che i parenti le avrebbero regalato. Lo sognava per quella figlia femmina che però sembrava un masculazzo caporione. Nunziatina pensava che sua cognata Rocchina fosse invidiosa dei suoi figli studiosi. Glielo diceva, ridendo insolente: «Rocchi’ e che è non ti piacerebbe avere figli così?». Ma Rocchina, che davvero scacciava i brutti pensieri delle persone, non la percepiva quella siringata di veleno. E poi lei non si era convertita, cattolica era rimasta: le piacevano le chiese con i santi e le tappe della via Crucis appizzate alle pareti. Il parrino poi lo diceva sempre che l’anima va in Paradiso se un cristiano fa buone azioni. E allora lei si immaginava vecchierella e morta, distesa sul letto e l’anima sua che usciva da quel corpo con la faccia di lei bambina. E volava, volava come un angelo verso il cielo. Invece, nella famiglia di suo marito, dove tutti erano evangelisti, si pensavano tutti baciati dalla buona sorte, sicuri che Dio già li avesse prescelti e la loro parola fosse sempre santa perché loro in Paradiso ci sarebbero andati tesi tesi, il Signore così aveva voluto. Ma in fondo che male facevano se si radunavano e pregavano? Questo pensava. Perché vivere a Busciara era diventato impossibile: di morti ammazzati ce n’erano come minimo due al giorno. La Stidda li ammazzava, così dicevano. E il giorno quell’orco vicino al mare – che chiamavano industria – gettava il fetore dell’inferno, mentre di notte si illuminava come un orco che avesse mille occhi tra le lamiere. Erano cominciati a nascere caruseddi malati, pure i pesci pescati a volte erano strambi, tutti storti o con due code e tanti, tanti cittadini si erano beccati il cancaro maligno o l’enfisema. I ragazzini masculi non potevano andare per strada perché altri ragazzini masculi li minacciavano, puntavano i coltelli, prendevano a lardiate in faccia e li facevano nuccare ché forse era meglio essere nate fimmine perché quelle a Busciara non le toccavano. Meglio radunarsi in chiesa e cantare a Dio di essere ancora sani e vivi, no? E mentre i figli crescevano e lei rispettava quella nuova famiglia, Chilluzzo si metteva nei guai con i soldi e con il vino. Fino a che un giorno non gli scattarono le interiora e lei si ritrovò vedova, povera e pazza. E Nunziatina, che era rimasta vedova pure lei ed era andata da poco in pensione, le pagò tutti i debiti di Chilluzzo con i soldi della buonuscita. Quel Chilluzzo, testa di cutupiddu, era pur sempre suo fratello e la moglie l’aveva inguaiata. Nunziatina non pretese una lira da lei e Rocchina ancora di più si sentì in obbligo di amare e di accudire quella cognata che aveva tante fisime. La gente è strana, fa cattivi pensieri e poi magari ti aiuta e ti riempie il cuore così, di botto, pieno pieno. E lei i brutti pensieri li doveva scacciare per assomigliare a quella Madonnina sul cantarano della casa di sua madre, quella che guardava quando era bambina. Quella parola cattiva, poi… Ciulluvì. Ma cosa significava? Minchione, uomo da poco, albero di bello vedere? La allontanava come la malasorte, come una mosca che ti tormenta e devi schiacciare con la retina rigida. «Che è, cognà, sorella mia… », diceva a Nunziatina «Hai bisogno di qualcosa? Domani vengo e ti faccio le pulizie». Però si sentiva sola, non perché le mancasse Chilluzzo, ma perché le mancava sua madre, che era morta qualche anno dopo suo padre. Si ricordava ancora quei funerali: l’avevano rivucata là sotto, in un loculo rivestito di cemento. Le funi dei becchini facevano sbattere il tabuto ora di qua ora di là, e lei se lo immaginava quel corpo lì dentro come se ancora sentisse, piccolo, arrisinato, piatusu. Adesso era sola. Menomale che i suoi figli avevano dei fratelli, non come lei lanciata come un citicchio in un fiume, perché quella carne di sua madre ormai era solo pasto per vermi. Sentiva come uno sbalanco nel cuore. Se solo avesse avuto un fratello o una sorella di sangue. Se li sentiva addosso come quelle vozze che spuntano interne ad alcune persone che stanno male e poi gli tolgono uno gliommaro fatto di capelli, unghie, denti. Ci parlava con quei fratelli inesistenti. Ma dentro di sé non aveva neanche una di quelle vozze. E quando i suoi figli litigavano glielo diceva: «Se vi fate un taglio qui, lo stesso sangue esce». Ma quelli non capivano, sordi erano e litigavano tra di loro per chi fosse più vicino a Dio. Invece Giuseppe e Francesco, i figli di Nunziatina come, come si volevano bene, anche se non erano evangelisti. Avevano studiato, uno medicina nell’esercito e l’altro filosofia, se n’erano andati via da Busciara. E studiando erano diventati atei. Ma lei li amava lo stesso, non lo aveva detto il Signore che bisognava andare a recuperare la pecorella smarrita? Ma a lei non sembravano smarriti, le sembravano in gamba. Si avvicinava a loro con discrezione, sempre con una buona parola: «Che è ‘a zia, te lo ricordi quando eri bambino? Che fa, me la fai conoscere la tua fidanzata? Che è ‘a zia, che bello rivederti ora che sei in licenza, mi fai il cuore chino chino». Suo figlio Gennaro, invidioso, mandava ogni mattina un messaggio sul telefono a tutti e due i cugini per farli convertire, per portarli sulla sua strada che era quella giusta: per lui era come se con le sue parole il cielo si aprisse o le acque del Mar Rosso si dividessero come fecero con Mosè. Di studio Gennaro e i suoi fratelli non ne avevano voluto manco a brodo, perché tanto avevano Dio: Pietro si era sposato e se n’era andato a farsi campare dalla moglie in un paese vicino; lui, Gennaro, faceva lavoretti, come accompagnare con la macchina delle vecchiette per sbrigare commissioni e le portava in giro facendogli ascoltare le musiche degli evangelisti; Marinella di lavoro non ne voleva, stava allagnusata tutto il giorno con un fidanzato sordomuto che rideva sempre. Mangiavano, mangiavano a sbafo sulle spalle di Rocchina e ingrassavano. E proprio a Rocchina, che doveva pagare pure l’affitto, era toccato di andare ad assistere i vecchi, lavoro in nero, perché di lavoro serio a Busciara non ce n’era: cateteri, pappagalli, pannoloni e forzate di mali cristiani. Era vuncia adesso: le forme gentili erano scomparse, era un vascello come sua figlia, ma sempre con la stessa faccia di sole, il sorriso di un cuore buono, anche se le mancava un dente e non aveva i soldi per poterselo mettere. «Sono senza Dio», diceva Gennaro dei suoi cugini «e per questo la pagheranno». «Zittuti tu, non fare pensieri cattivi», gli diceva sua madre. Ma come fu e come non fu, si ci mise la sorte, ci si mise il caso e le previsioni di Gennaro si avverarono e fu sciagura: una notte di tarda estate, Giuseppe, il tenente medico figlio di Nunziatina, morì sul colpo in un incidente stradale vicino alla caserma dove prestava servizio. Ma che era morto un figlio pure a lei? Rocchina si sentì spezzata dal dolore, ma doveva stare vicino a Nunziatina, sostenere una madre addolorata…
Quando il corteo funebre passò per le strade di Busciara, tra palazzine abusive senza intonaco con ai balconi i serbatoi blu per l’acqua, la gente affacciata cominciò ad applaudire. «Che ci applaudite?» gridava Francesco, il fratello del morto. E Rocchina si trascinava Nunziatina che sembrava la Madonna del Venerdì Santo, nivura nivura con il pugnale nel petto. Ma Rocchina guardava Francesco che camminava e gridava, rosso e sporco, tra le lacrime. “Povero sciatu, senza il fratello adesso è più solo di me, è peggio di non avere più un braccio o una gamba, è come taliarisi allo specchio e non potersi più vedere. Ma quale madre che ti muore… Un giovane rivucato non si accetta. E poi uno come lui così scienziato che era andato via da questo cacatoio di Busciara e aveva visto il mondo”, pensava Rocchina. Era peggio di quando ti trovano quelle vozze dentro che sono il tuo gemello non formato, era peggio di essere soli come lei, figlia unica e ormai orfana. Il saluto militare con le spade tese, la bandiera italiana e il cappello sul tabuto come quando in tivù muoiono le persone importanti dello Stato. Una musica triste, solo di una tromba. La gente si mescolava al corteo: «Come fu? Come non fu?», chiedevano, niente riserbo, pure la morte è sempre occasione di curtigghio. «Devi fartene una ragione» disse uno a Francesco. «Te la puoi fare tu una ragione», gli rispose arraggiato. “Sciatuzzo, è sconvolto”, pensava Rocchina. «Vieni qua, ‘a zia», se lo prese a braccetto senza dire una parola. E mentre Francesco era lì vivo attaccato al suo braccio, Giuseppe era lì dentro alla macchina dei becchini, e Rocchina gli prometteva che ci avrebbe portato sua madre al cimitero, che ci avrebbero passato tutto il giorno dei Morti, si sarebbero portate le sedie e da sedute gli avrebbero parlato, senza mangiare però, non come fanno quelli di Busciara che arrostiscono il castrato in quel giorno e poi lo mangiano vicino ai morti. Ma che cimitero, però: non c’era posto al cimitero monumentale, lo avrebbero portato a Busello, lontano, fuori città, dopo il petrolchimico che di notte faceva scantare tutto illuminato che sembrava un mostro e Giuseppe aveva paura dei mostri da caruso e aveva studiato la scienza per ammazzarli i mostri e ora se ne andava giovane in un loculo in mezzo al deserto, in un cimitero fatto di palazzi, affacciato su una valle di fumi e di tanfo. Tutte queste cose pensava Rocchina e pensava pure che doveva prendersi un autobus per arrivarci a Busello, che era fuori città e, diventando più vecchia, le sarebbe stato difficile. «Non c’è riscatto», diceva Francesco, smaniando mentre lei lo stringeva e stava zitta.
Quando issarono il tabuto al secondo piano e piazzarono una lapide di marmo sulla cuacina che avevano sbattuto con la cazzola, Gennaro si avvicinò al cugino disperato. Rocchina intuì qualcosa, avvicinò l’orecchio. Ma davvero suo figlio avrebbe detto quelle cose? «Cugino, però tuo fratello se lo meritava di morire, perché era senza Dio». Prima che Francesco capisse quelle parole, a Rocchina arraggiò di botto il cuore di dolore e di vergogna, come mai prima in vita sua. Si mise in mezzo tra i due e subito fu come se fecesse a pezzi quella Madonnina bella e buona sul cantarano, la gettasse a terra, la scripintasse. E quella parola che aveva voluto dimenticare le si presentò forte, violenta, improvvisa e, come la prima boccata d’aria che respiri quando credi di morire affucato, mollò una sberla su quella faccia da mulo di suo figlio e la pronunciò gridando quella parola: «Ciulluvì!».
Giovanna Di Marco