Il 15 febbraio del 1942 è una data importante per Elias Canetti. E vedremo perché. “Oggi – scrive nei suoi quaderni – ho deciso di annotare i miei pensieri sulla morte così come mi vengono, a caso… Non posso lasciar passare questa guerra senza forgiare nel mio cuore l’arma che sconfiggerà la morte”.
Abbiamo letto bene: l’arma che sconfiggerà la morte. Perché Canetti vuole sconfiggerla? Perché, e con quale arma, intraprende questa lotta impossibile?
L’arma è la matita con cui scrive.
Aveva sette anni e sgambettava sull’erba spensierato quando suo padre, ricco commerciante ebreo, morì giovanissimo all’improvviso. Lo shock di quella perdita l’autore di Auto da fé, Massa e potere, La provincia dell’uomo l’avvertirà più tardi, nei momenti in cui la sua vita verrà funestata da altre morti premature. Quella della madre in specie, ma anche dei fratelli e di due mogli. Solo in quei momenti, circondato ormai dalle ombre di tante persone care, lo shock della sua infanzia – inavvertito all’apparenza – manifesta i suoi segni e fa di lui Der Todfeind, il nemico della morte. A cui non era rimasto affatto indifferente, come credeva, quando suo padre morì: in realtà da allora la morte l’aveva improntato di sé, s’era annidata in lui al punto di non riuscire più a liberarsene.
Alla morte Canetti dichiara guerra. Specie a quella procurata dall’uomo. E capisce che per vincerla gli occorre un progetto che abbia nella scrittura la sua arma. Prova con un romanzo dapprima. Ma il progetto si arena, fallisce. E allora i suoi pensieri sulla morte prendono altre strade e li trovi in tutta la sua produzione saggistica e teatrale. E nei suoi appunti inediti: nel 2017 diventati Il libro contro la morte (di quattrocento pagine) pubblicato da Adelphi, tre anni dopo la sua uscita in Germania.
È un libro, uscito postumo, a cui Canetti lavorò in pratica tutta la vita senza riuscire a dargli forma organica, per la sua avversione a tutto quanto è sistematico (un libro generalmente lo è) o nella convinzione intima che ad altri sarebbe spettato un giorno questo immane compito. Quanto lui stesso dice nel 1951 è come una manifestazione di resa di fronte al suo progetto: “Finiscilo, finiscilo una buona volta questo libro tremendo, doloroso, lento, eternamente annunciato, eternamente fallito”.
Altri dubbi nel frattempo lo tormentavano. Per primo il dubbio che scrivere quel libro, portarlo a compimento fosse inutile, non avesse senso di fronte al fatto che si continuava a morire incessantemente e che lui provava vergogna di sopravvivere alle vittime di Madrid bombardata o di Auschwitz. Vergogna di non aver “condiviso l’esodo da Parigi”. Ma lo tormentava anche la paura che questi suoi pensieri, “essendo frutto di quegli anni sanguinari”, fossero sbagliati e avessero in sé i germi di altre sventure.
Due sono i momenti principali in cui Canetti giura a se stesso che avrebbe scritto questo libro: quando muore sua madre e nel 1942 , l’anno di Stalingrado, della sanguinosa battaglia che provocherà l’annientamento della VI Armata tedesca. Soprattutto questo secondo momento non volle far passare senza aver forgiato nel suo cuore “l’arma che sconfiggerà la morte”. E con lei tutti i riti consolatori – sociali e religiosi – che ce la fanno accettare. E per questo dà corso nei suoi quaderni ai propri pensieri come vengono, senza l’ordine e la coerenza necessari a una loro pubblicazione.
Nella morte inflitta dall’uomo all’uomo, attraverso la guerra o comunque, più in generale, attraverso qualsiasi forma di violenza c’è, per Canetti, “l’intenzione autentica del vero potente: sopravvivere a tutti affinché nessuno sopravviva a lui”. Tema fondamentale quello della sopravvivenza come trionfo su chi intanto soccombe, nella riflessione di questo grande scrittore. Nel saggio Potere e sopravvivenza viene esteso anche a quanti sopravvivono per un fatto naturale: il figlio al padre, il giovane al vecchio o viceversa e il coetaneo al coetaneo. Un trionfo intimo – scrive – “che resta nascosto, che non si ammette con nessuno e forse neppure con se stessi”.
Canetti si serve della matita per scrivere, pagine e pagine di appunti. Di giorno o di notte, a Londra o a Zurigo, ovunque si trova, le matite – belle, temperate e ritemperate – sono le piccole armi appuntite con cui combatte senza uccidere nessuno. Qualunque cosa scrivano, è il loro movimento a farlo sentire sicuro, a dargli protezione e invulnerabilità. L’invulnerabilità dello scrittore che mai muore, grazie a chi legge. Il vero succo, in fondo, di questo Libro contro la morte, di appunti e pensieri che l’autore non ordinò mai.
Gaetano Cellura