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Percezione e condensazione.

Due componenti fondamentali nella genesi della poesia, del verso, inteso come micro cellula di un universo creato dalla sensibilità. Dal verso alla pelle, fin dentro l’anima. Se ci si addentra, con umiltà, nello scheletro compositivo di un verso, si comprende come l’animo umano sia un coacervo di pulsioni e denominatori inesprimibili, resi possibili soltanto dall’inafferrabile, intangibile gusto dell’astratto.

Visibilmente un verso potrebbe intendersi come null’altro che una successione, spesso aritmetica, di grafemi, molto somiglianti a insetti neri in fila, disposti  a trasportare suoni. Arginando le ingombranti definizioni accademiche e lasciando defluire istintivamente i  sensi, a scelta fra i cinque percettibili sul palmo di una mano, il verso risulta una splendida ed armonica cassa risonante di vita, passioni, dolori, stasi e respiri. Il verso è la costola della poesia. Il verso è il luogo dell’anima, il neonato dell’ispirazione, la goccia della pioggia e la lacrima del pianto. Un pulviscolo che abbia massima dignità e riconosca la sua umile natura di inafferrabile può essere definito un verso. Ecco così, che ogni magia esistente al mondo, può divenire da potenza infinitesimale, un atto compiuto. Un dna fatto d’inchiostro puro, ri-versato, (scusate il gioco di parole assolutamente voluto), su stracci di carta o su qualsiasi superficie che possa assorbire ogni materia, spirito, molecola che attraversa l’uomo-poeta. Povero uomo il poeta… Piegato al sacrificio, quasi costretto da una forza titanica del proprio inconscio, a rivelare i sensi più astratti dalla familiarità delle cose.

“I miei carmi son prole”. Quest’eco di d’annunziana memoria, tratto dalle “Stirpi Canore” del Vate, ci danno un esiguo contributo nella comprensione della nostra trattazione. Il verso, generato nell’assoluta vergogna di una copulazione fisica mai avvenuta, ma partorito nei più tormentati e subdoli strati del pensiero e della percezione, è la prole del poeta, è figlio, è parte integrante ed integrata con radici indissolubili nell’essere. Il poeta, povero soltanto di danaro e mai di vita, è il padre del suo stesso vivere, e dona filantropicamente il suo Es a chi , con le dovute precauzioni d’animo, si accosti al mugito interiore per lo più condiviso e poco più riconoscibile attraverso le proprie esperienze.

“Il verso è tutto”, scriveva ancora D’Annunzio, battendo il ferro caldo della tenacia poetica e del ruolo che il verso, ammantato di una splendida veste intessuta di megalomania e cosmicità, caricava immaginificamente nel pensiero dei suoi lettori. Come biasimarlo? Provate a sottrarre a l’uomo-poeta la capacità, la possibilità, di percepire il sé al di fuori di sé, a negargli il tratto della sua penna e l’olfatto della carta su cui ri-versare il suo sentire… Morirebbe assiderato, affamato, annegato nel vuoto  e nella disperazione. Si renderebbe pazzo chi pazzo lo è già per il mondo della superficie. Allora si. Il Verso è Tutto. E’ il mondo degli orrori e le parole sono i fantasmi in eco del nostro turbamento. Il Verso è il figlio della madre sterile che non genera uomini, ma sillabe e smorfie. Il Verso è l’atto reso compiuto dell’anima che non osa realizzarlo in Terra. E’ l’appendice della Poesia, il suo amante, il suo vestito cucito addosso.

 

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