Al momento stai visualizzando Corona, il ragazzo infelice con un libro in tasca

“Siamo figli di quello che ci è successo nell’infanzia” dice a Mirella Serri che lo intervista per Tuttolibri. E sulla famiglia la pensa come Pasolini: è un’associazione a delinquere. Mauro Corona aveva sei anni, cinque ne aveva il fratello Felice e l’ultimo nato non ancora uno, quando sua madre, violentemente picchiata dal marito, abbandonò tutti. Ma lasciò in casa i libri ereditati da suo padre. Libri che Mauro, il futuro narratore di storie ambientate nei luoghi colpiti dalla tragedia del Vajont, cominciò a divorare. Don Chisciotte, David Copperfield, i fratelli Karamazov riempirono la sua vita. Dal nonno intagliatore imparava intanto l’arte della scultura lignea. Sua madre tornò, ma fu sempre dura. “Mai un abbraccio, una carezza”. E quasi leggi nelle sue parole di ora quelle di Gide nei Nutrimenti terrestri: “Famiglie! Vi odio! … Focolari chiusi, porte serrate, geloso possesso della felicità”. Il padre, prima di morire, gli disse: “Sei un fallito”. Perché non era voluto diventare impiegato dell’Enel. (Mauro Corona all’Enel, ve lo immaginate?) Un giorno andò a prenderlo in motoretta e lo portò, anzi lo “deportò”, al lavoro nella cava di Buscada. Una cava di marmo che spezza le ossa. “Non ci sono soldi” furono le sue parole. E così lui dovette scordare la scuola d’arte di Ortisei dove avrebbe voluto iscriversi. Il lavoro in una cava al posto della scuola. “Siamo figli di quello che ci è successo nell’infanzia”: e genitori così non si possono che detestare: vivi da orfano pur avendoli in vita. Infanzia infelice quella di Mauro Corona. Scrittore, artista, alpinista. Autore di Storia di neve, La fine del mondo storto, Storie del bosco antico, Nel legno e nella pietra, I fantasmi di pietra, La casa dei sette ponti uscito da poco. Frequentava la scuola elementare e già beveva. Allungava con la grappa il latte e poi il caffè perché gli dava vigore e sollievo, mentre nella lettura trovava svago alla solitudine e al suo dolore di bambino. Comincia a bere ancora prima di Bukowski, narratore e poeta che gli ispira “una dolcezza infinita”. Ma ora sono quasi nove anni che beve a piccole dosi. Perché bere fa male. “Non tanto a me – dice – quanto a quelli che mi vogliono bene”. Parla dei suoi scrittori preferiti. Rigoni Stern. Con lui “quasi fisicamente ci si immerge nel fresco dei boschi”. Francisco Coloane. Per i suoi “numerosi viaggi a cavallo, in barca, in veliero, nell’Antartide, nella regione australe del Cile, nelle Galapagos e in Mongolia, molto simile alla Patagonia della gioventù”. Babel’ e Šalamov. Entrambi ebbero guai con lo stalinismo. Dà consigli di lettura. Collina di Jean Giono. Pedro Paramo di Juan Rulfo. Coloane e Šalamov sono scrittori che io e lui, e chissà quanti altri, adoriamo. Il don Pancho (come lo chiamavano i suoi amici) esploratore, baleniere, pecoraio, capitano del mare del Sud: per Sepúlveda uno dei più importanti romanzieri d’avventura di tutti i tempi. E il poeta della Kolyma che conobbe la deportazione politica, il lager comunista. Lo misero nelle baracche, dove fare versi era impossibile. Solo dopo il 1951, prima infermiere in un ospedale della zona e poi tecnico in una torbiera sul Volga, riprese a scrivere. E “il miracolo è – nota Guido Ceronetti – che nei suoi versi non ci sia che canto, pura poesia: nessun lamento sulla propria feroce sorte”. Varlam Tikhonovic Šalamov è il poeta che nelle miniere, in compagnia dei peggiori delinquenti, prova compassione per il sole, cui tocca un lavoro più duro del suo: sciogliere l’inverno russo. E forse Corona lo ama, oltre che per l’inaudito valore di narratore delle miniere del Nord, perché gli ricorda il lavoro infantile nella cava di Buscada, dove suo padre lo aveva “deportato”. “Siamo figli di quello che ci è successo nella nostra infanzia e io non sono certo un uomo allegro”. Torniamo al punto da cui siamo partiti. L’infanzia infelice di Mauro. Non la scuola, dove si distraeva con i fumetti di Tex “per dispetto e provocazione”, ma la pagina scritta, i libri letti liberamente, senza alcun obbligo, gli insegnano a controllare emozioni e ossessioni. La dimostrazione che s’impara a scrivere solo leggendo. E soprattutto scrivere è stata per lui la vita. Circa tre milioni di libri venduti. La sua città, Erto, nella Valle del Vajont, diventata luogo di culto per i suoi ammiratori. A sessantadue anni, Mauro Corona continua ad alzarsi alle tre di notte e a camminare nella Valle. Sempre, estate o inverno, con la casacca senza maniche. Sempre con un libro in tasca.