Nella prefazione alla Centona edita da Giannotta nel 1948, Luigi Pirandello racconta con pochi ma essenziali tratti l’amico e sodale Nino Martoglio definendolo: “Una voce nativa che dice cose della sua terra come la sua terra vuole che siano dette per essere quelle e non altre, col sapore e il colore, l’aria, l’alito e l’odore con cui vivono veramente e si gustano e si illuminano e si respirano e palpitano lì soltanto e non altrove”. Accenna anche alla coraggiosa e audace satira della vita cittadina espressa nel giornale D’Artagnan fondato e diretto da Martoglio i cui articoli che prendevano di mira personaggi noti della città, lo costrinsero a battersi tante volte in duello spesso a rischio della vita. Non trascura le grandi soddisfazioni riscosse con le opere teatrali rappresentate in molti teatri italiani ma anche le amarezze, le fatiche, che gli procurò essere il vero e unico fondatore del teatro siciliano. E conclude, definendo la tragica morte dell’amico uno sciagurato incidente accaduto: “Aprendo per isbaglio una porta che dava in un baratro”. Se per un verso Pirandello sembra accogliere la tesi della disgrazia dall’altro però, l’utilizzazione a mio avvio non a caso, del termine baratro, per indicare il vano di un ascensore profondo circa tre metri dove fu trovato il corpo senza vita di Martoglio, potrebbe dare indicazioni opposte. Potrebbe cioè alimentare il sospetto che la morte dell’amico sia stata una vera e propria esecuzione, un omicidio decretato da chi, in qualche modo, era stato stanato e esposto al pubblico ludibrio dagli articoli e dagli epigrammi ad hominem di Martoglio. Infatti la parola baratro che, come chiarisce il vocabolario Treccani è sinonimo di abisso, dirupo, orrido precipizio, voragine di smisurata profondità e, usata in senso figurato, significa andare in rovina, fa trasparire altro; lascia intendere che già da allora si addensavano dubbi sulla sciagurata fine di Martoglio. Ed infine Pirandello, che aveva fatto studi classici, non poteva non sapere che baratro in greco βάραϑρον, era il nome di una voragine, fuori dal centro urbano dell’antica Atene nella quale si facevano precipitare durante il 5°e il 4° secolo i condannati a morte spesso per motivi politici.
Martoglio, fu certamente un uomo inquieto, di animo nobile e generoso ma a volte anche con tratti violenti e inconsiderati, dice ancora l’amico Pirandello. Nacque a Belpasso il 3 dicembre del 1870, suo padre, avvocato e giornalista dalla vita avventurosa, aveva indossato da giovane la divisa garibaldina; la madre, maestra elementare, insegnava nel piccolo centro etneo, situazione per una donna allora, non tanto frequente. I genitori si separarono quando Nino era ancora piccolo e questo, certo, dovette lasciare nella sua anima, qualche segno in un tempo e in un luogo, in cui i valori della famiglia e del matrimonio erano considerati cardine sociale. Dopo la frequenza delle scuole elementari il giovane Martoglio vaga tra il liceo classico, l’istituto tecnico e l’istituto magistrale prima di trovare la sua strada. Conseguirà nel 1889 il brevetto di capitano di lungo corso. Un marinaio, quindi, un navigatore che a sedici anni salirà a bordo della goletta Concettina come mozzo e, a questo, seguiranno altri tre imbarchi che lo arricchiranno di esperienze profonde. Il mare dunque, costituirà un pezzo fondamentale della sua formazione artistica e di vita sempre accompagnata da un moto di rivolta che contribuirà ad alimentare, il suo bisogno di libertà e di spazio, ma anche il suo anticonformismo esistenziale e l’ansia di cambiamento. Tutto ciò sfocerà nel suo impegno politico e sociale non solo diretto, ricordiamo che fu consigliere comunale a Catania nel 1902 ma anche attraverso la poesia e il teatro. Perché Martoglio, contrariamente al bozzettismo folkloristco che ne hanno fatto teatranti amatoriali e impresari cittadini, attraverso la comicità dei personaggi ai quali da vita e spessore, denuncia e accende riflettori sulla meccanica immutabilità delle classi sociali, sulla sofferenza, il disagio e la deprivazione degli ultimi, sulla ingiustizia subita e sulla rassegnazione che rendono ferma e immobile la condizione di vita dei più poveri. Le sue opere lo vedranno, accanto ad altri illustri poeti dialettali come Di Giacomo e Trilussa, riferimento forte di un realismo letterario che fa della utilizzazione del dialetto, un baluardo di resistenza alla lingua e alla imposta cultura di regime. Potevano dunque essere tanti i malumori seminati, gli onori calpestati, le prescrizioni disattese capaci di arruolare un sicario per fare tacere un uomo scomodo la cui fama ormai era alle stelle. Il corpo di Martoglio viene trovato il 16 settembre 1921 nel vano ascensore dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania dove era giunto il giorno precedente per ricoverare il figlio Marco affetto da tifo. Nel saggio Le tre porte, recentemente pubblicato dalla casa editrice Villaggio Maori l’autore, il regista catanese Elio Gimbo, riporta i certificati autoptici, i documenti giudiziari dell’epoca, esamina le motivazioni della sentenza civile emessa a seguito della richiesta di risarcimento, avanzata alla direzione dell’ospedale dalla vedova, nella quale l’unico responsabile sembra essere soltanto la vittima. Confronta, poi, tali motivazioni con i verbali della procedura penale e ne rileva le imprecisioni, le incongruità, l’inquinamento delle circostanze che danno corpo e voce all’ipotesi che la morte di Martoglio fu una vera e propria esecuzione. Aggiunge anche una relazione medico-legale prodotta dal professore Pomara il quale, analizzata la perizia necroscopica allora stilata, afferma di non potere assolutamente e inoppugnabilmente escludere il fatto delittuoso e che, soltanto l’esumazione dei resti, anche con il contributo del progresso scientifico e tecnologico raggiunto dalla odierna scienza medico-legale, potrebbe sciogliere ogni dubbio e fare chiarezza sulla morte del commediografo siciliano. Il nome di Martoglio si aggiungerebbe, così, al lungo elenco di morti siciliani uccisi perché considerati scomodi. Chiediamo quindi al regista Elio Gimbo che molto tempo ha dedicato alla ricerca della verità:
D. Nel suo libro lei, con un filo sottile collega Martoglio e Fava, due illustri intellettuali catanesi che, sebbene non contemporanei, sono stati animati dalla stessa ansia di rinnovamento del contesto nel quale si è svolta la loro vita. Entrambi giornalisti, entrambi commediografi hanno affidato alle loro opere il compito di denunciare imbroglio e malaffare e innescare processi di cambiamento, accomunati entrambi con molte probabilità anche da una morte violenta, decisa per spegnere quella fiamma che, se non contrastata, avrebbe potuto produrre incendi, avrebbe potuto devastare l’ordine apparente che aveva messo d’accordo mafia, politica, imprenditoria e informazione. Tralasciando l’omicidio di Pippo Fava il cui iter giudiziario è approdato a condanne definitive e alla certezza assoluta di una esecuzione mafiosa, sull’onda di questa seduzione, quali le affinità tra i due e quale era, secondo lei, il rapporto di Martoglio con la sua città?
R. Sul piano delle biografie personali le affinità più evidenti riguardano la coincidenza di interessi, di campi d’azione: il giornalismo e il teatro; inoltre entrambi condividono la passione con cui hanno vissuto tali ambiti con una intensità simile a ciò che definiremmo vocazione, li guidava la medesima energia, quel tipo di energia che consente ad alcune particolari personalità di restare per tutta la vita caparbiamente fedeli ai sogni della propria gioventù. Troveremo allora molto interessante anche il loro essere, entrambi, costruttori di comunità, di micro-società umane di donne e uomini pienamente coinvolti in una impresa comune talmente forte da divenire missione di vita, radice profonda del proprio essere. Se pensiamo alla strategia di Nino e Pippo possiamo descriverla come quella di chi raccoglie attorno a sé vivai di giovani e, con un ostinato lavoro sulla tecnica e sulle motivazioni personali, trasforma singoli in appartenenti ad un gruppo, una comunità con regole interne parallele o addirittura estranee alle regole esterne, un altrove autosufficiente determinato dalla propria diversità organizzativa e indipendente da ogni sistema o pensiero dominante. Potremmo trovare interessante anche un’altra coincidenza, quella dell’origine; Martoglio e Fava erano dei provinciali di lusso, dei paesani che a Catania cercano la attuazione dei propri sogni di gioventù, realizzandoli oltre ogni aspettativa. Anche su questo due biografie esemplari. Ma la cosa che, personalmente, trovo più interessante al punto da spingermi ad identificare in loro una tradizione catanese, riguarda l’invenzione della pratica di teatro e giornalismo come un impegno militante; Eugenio Barba definisce questo: “Politica con altri mezzi”. Entrambi hanno fatto coincidere la passione personale con l’affermazione di ideali condivisi con altri uomini e donne animati dalla stessa passione. Passione professionale e ideali diventano una cosa sola per chi impegna la propria esistenza in avventure simili, al punto da trasformare radicalmente le scelte di vita proprie e di altri, di diventare un modello, di dare vita ad una tradizione. Martoglio e Fava sono l’esempio della potenza di comportamenti e pratiche quando sono intrisi di un’ideale comune; allora queste pratiche attraversano il tempo e restano attuali nel presente, pronte per essere raccolte. In questa piccola tradizione catanese posso sentirmi coinvolto anch’io, riconoscermi, come chiunque partecipi al medesimo sogno, al medesimo orizzonte ideale di Martoglio e Fava: sempre e comunque dalla parte dei deboli e delle vittime. Vorrei però chiarire che il concetto di tradizione è ambiguo; in apparenza si riferisce al passato, in realtà la tradizione è sempre una creazione a posteriori, è costituita dalle persone e dalle storie in cui ci riconosciamo pur allontanandocene nel tempo, accettandone e trasformandone l’eredità. Il teatro è una forma d’essere e di reagire alla Storia, è tradizione e invenzione di tradizione. Circa la relazione tra Martoglio e Catania direi che la nostra città sia stata per Martoglio l’Heimat, l’origine. Il luogo dove nei tuoi sogni giovanili trovi te stesso. L’origine è innanzitutto uno stato mentale, ci indica la transizione piuttosto che l’immobilità, l’impulso all’incontro con lo straniero fuori e dentro di noi, l’origine è l’istinto a separarsi dalla casa natale, dalle pratiche dei nostri genitori, dai criteri conformistici che riempiono di senso atti e scelte come fare teatro o giornalismo; l’origine è il gusto del rischio che ti fa viaggiare senza lasciare casa, che ti fa sentire a casa in una sala teatrale o in una redazione. L’origine non è qualcosa o qualcuno da cui ti allontani, è quel groviglio di forze a cui ti ostini a restare vicino. In questo senso Martoglio può essere senz’altro, per ogni catanese, per chiunque cioè ne condivida l’Heimat, l’esempio di un modo di essere solare, aperto, fiducioso nella propria energia personale. Ma posso anche dire che, per quelli come Martoglio, la vera patria, la Vaterland, è il teatro, sono la vita e le regole di un artista teatrale nella propria comunità artistica; ciò molto spesso determina, in una persona, trasformazioni concrete sul piano dei comportamenti sociali: si è più disinibiti nel manifestare opinioni e sentimenti, meno disposti al rispetto di valori arcaici e reazionari come quelli degli uomini di potere. Ecco, credo che in questo nucleo infuocato, risieda la miccia che ad un certo punto innesca la tragedia esplosa nella sua vita, il motivo per cui un altro modo di essere catanese, altrettanto disinibito forse ma molto più feroce, decide di divorarlo.
D. Il suo libro ha come titolo Le tre porte e sono proprio tre le porte, secondo le ricostruzioni giudiziarie che Martoglio, deviando dal breve e illuminato corridoio che avrebbe dovuto portarlo dalla stanza di ricovero del figlio fino alla porta esterna dell’ospedale, addirittura la terza ed ultima porta quella che dava sul vano ascensore era ben chiusa; in questo libro lei definisce Martoglio sovversivo, una persona scomoda sia come giornalista che come poeta e commediografo; secondo lei che ha curato la regia di molte sue opere in quali personaggi vede trasfuse le idee di Martoglio ovvero, quali personaggi più di altri, danno voce al suo pensiero politico, alle istanze socialiste, alla critica contro il potere costituito, al contrasto alla mafia?
R. Di sovversivo mi piace l’ambiguità. Oggettivamente è il termine con cui venivano definiti i socialisti nella sua epoca e Martoglio era un socialista della corrente rivoluzionaria, possiamo immaginare che negli anni del D’Artagnan si ispirasse ad Arturo Labriola ed ancor più a Enrico Ferri, battagliero direttore dell’Avanti! più che a Turati. Ma la parola sovversivo che definisce anche qualcuno che persegue la rottura di una situazione esistente o di un ordine tradizionale, mi sembra descrivere alla perfezione il senso che ebbe la professione nella sua vita e il suo ruolo nella società del tempo. A mio avviso non dobbiamo pensare a Martoglio principalmente come ad uno scrittore, dubito fortemente che Martoglio si considerasse tale. Non è un caso che, pur venendo dal giornalismo, non abbia scritto mai romanzi o novelle. Poesie certo e soprattutto drammi e commedie, come Bertolt Brecht per esempio, un altro grande appartenente alla gloriosa Vaterland del teatro del ‘900. Un altro sognatore in grado di creare un nuovo teatro partendo da una comunità artistica di esuli in fuga perenne dalla propria Heimat. Oppure come Eduardo, altro capo-comunità teatrale, la cui esperienza mi appare molto vicina a quello che doveva essere il modo di lavorare di Martoglio e della sua comunità. Brecht, De Filippo e Martoglio trovano nella scrittura, campo in cui sono certamente dotati e aggiungo nel dialetto, un’arma che completi il loro progetto: mantenere ad ogni costo in vita la propria comunità artistica, i propri compagni di viaggio. Il teatro ha questo di specifico: è un’arte di comunità. Non riesce ad esistere senza un gruppo di lavoro ed uno spazio stabilito. Per Martoglio la scrittura nasce destinata sempre ad attori ben precisi e ciò è la base di partenza di una nuova figura artistica del teatro europeo che si afferma proprio in quegli anni: il regista. Una sorta di guida di una comunità circoscritta di attrici ed attori che, con il teatro garantiscono, a se stessi e al mondo, non soltanto la propria sopravvivenza materiale ma anche un modello differente di società. Si pensi al ruolo delle donne nelle compagnie di Martoglio, a quale esempio di emancipazione femminile furono. Ma volendoci soffermare sulla visione del mondo complessiva che emerge e che considero sempre coerente, Martoglio nel suo modo di elaborare la drammaturgia, sembra costruire intrecci e creare personaggi rifacendosi al Marx de L’ideologia tedesca:“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale”. Possiamo immaginare quanto queste idee profumassero l’aria ai tempi di Martoglio; la medesima aria, del resto, si annusa nei testi di autori come Zola, altro giornalista prestato alla letteratura militante che Martoglio doveva conoscere bene. Con ciò possiamo notare quanto insistentemente i nuclei drammaturgici profondi, tanto nelle commedie che nei drammi, siano intrisi di Materialismo dialettico. I contrasti, le alleanze, gli amori, i sentimenti dei personaggi martogliani rispondono sempre ad una precisa appartenenza di classe; sono tipi nel senso che al termine dà Lukacs; il loro linguaggio e i loro comportamenti, come i sentimenti che li generano, sono sempre sintomi della classe sociale di appartenenza, manifestano costanti e mutazioni del loro adattamento all’ambiente materiale in cui sono immersi. In questo senso Martoglio ci lascia una testimonianza antropologica del suo tempo, di come si svolgeva la vita profonda, intima delle persone, attraverso quali modi questa era influenzata dalle condizioni materiali dell’esistenza; del tutto privo di intenti cronachistici, didascalici o pedagogici sia che si tratti dall’aristocratico marchese di Ruvolito, sia che si tratti di Don Procopio e della sua visionaria galleria di civitoti, o del mondo dei proletari del mare: pescatori e marinai.
D. C’è un personaggio femminile: Ajtina della Voculanzicula che, come una antesignana Franca Viola, rifiuta di sposare colui il quale l’ha violata e che sarà premiata dal destino, ce ne sono altre che si oppongono alla tradizione, in un tempo in cui le donne non avevano neppure conquistato il diritto di voto, quale è l’immaginario femminile di Martoglio?
R. Per comprendere l’importanza e il peso che il genere femminile assunse nella comunità artistica creata da Martoglio, il livello di emancipazione di genere raggiunto al proprio interno, molto al di là di ciò che normalmente era permesso in una società oppressiva e maschilista, sarebbe semplice citare le biografie delle grandi attrici del suo ensemble, spesso mogli, madri o compagne di vita di colleghi-attori; ma che dire di una personalità come Francesca Sabato Agnetta? Non sono molti gli esempi nella società italiana dell’epoca di donne-dramaturg teatrali; in seno alla comunità martogliana poteva accadere che una donna conquistasse la credibilità sufficiente per avere credito anche presso monumenti viventi come Capuana, e ciò nonostante ella vivesse alla luce del sole la sua relazione affettiva con Musco; sta anche in cose così la diversità. Come accadde nelle comunità teatrali europee del ‘900, si formarono coppie, nacquero figli subito messi in palcoscenico, amori si intrecciarono e si dissolsero, e tutto ciò insieme ad un’attività teatrale frenetica, totalizzante, costantemente in viaggio; per forza di cose attrici e attori diventavano personalità fuori dal comune, in grado di infrangere il senso del pudore che impedisce per esempio ad una donna di vivere senza colpa la propria sessualità o ad un uomo di piangere in pubblico. Soffermandoci su Voculanzicula per analizzare il metodo di lavoro da drammaturgo di Martoglio, noteremo subito come il motivo del conflitto tra i due fratellastri sia di ordine economico, la loro differenza caratteriale coincide con una differente morale, la rivalità affettiva si fonda su opposte visioni materiali, sono due tipi opposti di adattamento al medesimo ambiente, diciamo: la cicala e la formica. Ma a ben guardare tutti i personaggi, maschili e femminili, hanno biografie personali disegnate dentro una precisa appartenenza di classe, che in questo caso è il magmatico mondo che ruota attorno all’artigianato e al sottoproletariato urbano; intraprendenza e disperazione sono i motori di una lotta per la sopravvivenza: c’è la lotta di Neli per tenere in vita il proprio piccolo mondo ereditato dal padre, la propria bottega che dà da vivere a tre famiglie difendendola da Mariddu, da un modo opposto di interpretare la ricchezza materiale e le relazioni affettive; c’è la lotta di Ajtina per sfuggire alla povertà, alla fragilità a cui è sottoposta qualsiasi ragazza povera in una società spietata e maschilista. Voculanzicula ci racconta una delle eterne, invisibili guerre tra povera gente, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, ci racconta di quanto i conflitti di classe avvengano soprattutto all’interno delle classi stesse per via dei differenti adattamenti alle condizioni materiali. Per restare ad Ajtina non c’è dubbio che sia un personaggio obbligato dalle circostanze a crescere interiormente, ad operare una rottura con il contesto sociale che la circonda e perfino con le sue stesse convinzioni, ad operare una discontinuità ideologica con la sola forza dell’amore, un amore adulto, ragiunevuli, l’opposto dell’amore adolescenziale a causa del quale ha addirittura rischiato di morire. Un’attrice che lavorasse col personaggio dovrebbe attentamente considerare che il suo momento più drammatico, l’aggressione e il ferimento, accadono fuori scena e sono resi soltanto da un urlo, il pubblico non vede le azioni fisiche. Viceversa il suo reale momento di crescita si realizza in scena con un forte mal di testa, un’emicrania frutto dello stress a cui la sottopone il proprio chiarimento intimo; Martoglio chiede all’attrice di mostrare ciò che nella vita resta invisibile. Non che manchino i momenti in cui sia richiesta plasticità dell’azione, basti pensare alla colluttazione tra Neli e Mariddu; il fatto è che Martoglio fa molta attenzione a che lo sviluppo, anche psicologico dei personaggi, sia sempre coerente con la personale condizione sociale, materiale, di classe. La commozione di Neli, incapace di dichiarare il proprio sentimento e la propria volontà, sarebbe impossibile da sostenere in un borghese colto e agiato, a renderla credibile e drammatica è l’universo arcaico di credenze e valori in cui è immerso il suo mondo materiale. Anche la celebre scena del sucialismu è credibile proprio perché avviene tra artigiani, la loro esperienza di vita li porta a diffidare degli ideali egualitari buoni forse per l’universo della fabbrica o della campagna, ma inadatti per l’artigiano di città che affida alla propria sapienza, al proprio mestiere un sano principio di accumulazione primaria. Questo tipo di visione del mondo, in Martoglio, diventa una tecnica che può concedersi come nel caso di Voculanzicula esplorazioni profonde e persistenti dell’animo umano. Non è da sottovalutare il fatto che Neli e Ajtina furono creati per dei giganti come Giovanni Grasso e Marinella Bragaglia, che debuttò nel 1908 a Genova al Paganini in italiano col titolo L’altalena. Quegli attori leggendari, insieme al loro regista-autore, affrontavano in pieno la propria contemporaneità, definivano, con la costruzione dei loro personaggi, dei soggetti della storia riconoscibili a un vastissimo pubblico, delle forze sotterranee che tuttora agitano le vite di tutti noi. Ajtina come premonizione di Franca Viola. Perché no? La cosa sorprendente è che, ripuliti dalle scorie dell’epoca, questi soggetti storici continuano a parlarci anche oggi del recente passato e del nostro presente. Le forze che motivano i personaggi di Voculanzicula e di tutta la drammaturgia martogliana, sono tuttora vive perché sono vive le medesime condizioni materiali che le scatenano; si manifestano tuttora nella società catanese i meccanismi storici profondi descritti da Martoglio, condizionano tanto da produrre ancora oggi l’antropologia mafiosa dei nostri sottoproletari come dei nostri piccolo-borghesi, è da rendere pertinente e, direi obbligatoria, una revisione dell’approccio ai suoi testi in tal senso, perfino troppo tardiva. Da anni con Fabbricateatro lavoriamo in questa direzione, una revisione coerente e costante alla luce del nostro presente delle drammaturgie martogliane guardate attraverso la lente del materialismo dialettico. Questa chiave ha prodotto nel nostro lavoro risultati inaspettati, porto ad esempio il nostro U Vaccinu dello scorso anno; una rilettura de U Contra in chiave del presente dominato dalla pandemia. Un testo del 1918 è diventato una sorta di istant play circa gli adattamenti culturali del nostro sottoproletariato urbano con gli effetti comportamentali che conosciamo. Per chi come me fa teatro questa profonda conoscenza della società umana è la vera eredità di Martoglio, il patrimonio a cui noi tutti dovremmo attingere.
D. Uno degli obiettivi del suo libro è quello di riscattare Martoglio dal pregiudizio di una certa sicilianitudine è solo questo che porta un regista teatrale con cinquantotto regie a lasciare il territorio noto del teatro e ad avventurarsi in quello della ricerca storica?
R. Conosco i testi di Martoglio e so quale grande possibilità di lettura innovativa offrono rispetto al conformismo. Il peggior torto che gli si è fatto è stato quello di relegarlo in una Catania del passato, in un museo della nostra società cittadina, illudendosi che quei personaggi non ci riguardino più, che noi non siamo più quelli. Martoglio non si poneva il problema della posterità, non ne ebbe il tempo, non intendeva stabilire, come uno scrittore, un canone storico ben preciso per i suoi testi; tranne che in Scuru col tema della guerra, gli avvenimenti storici non sono importanti, semmai ne percepiamo le influenze e i condizionamenti, come nei Civitoti con il giudice piemontese. Ma prima erano sufficienti gli spettacoli a comunicare queste consapevolezze, sul terreno a me consueto. Poi è arrivata la scoperta del fascicolo relativo alle indagini sulla morte di Martoglio, la conseguente ricerca e la ricostruzione dell’accaduto. Salta fuori un’altra verità rispetto alla favola dell’ascensore: la storia di un’esecuzione selvaggia per futili motivi, per vecchie ruggini del passato e del fulmineo depistaggio sia della prima ricostruzione che delle indagini verso un esito scontato quanto assurdo. Tutto ciò è maturato in un ristretto ambiente di poteri conniventi, politico, giudiziario e informativo. Come per Pippo Fava. Ultima affinità. Con questa a quante siamo? A quel punto mi è sembrato evidente che questo livello ulteriore di consapevolezza su Martoglio non poteva più trovare una risposta in uno spettacolo. Serviva un altro mezzo, qualcosa che restasse. Mi è venuta in aiuto un’altra tradizione o origine a cui sento di appartenere, quella dei registi del ‘900. Molti di loro sono ricorsi ai libri per lasciare testimonianze della propria esperienza teatrale e umana; questo perché può accadere nel nostro lavoro, di per sé effimero, di imbatterci in qualcosa che chiede di essere scritto, fissato con la particolare precisione che la scrittura possiede, conservato e affidato ad una dimensione storica definitiva; si tratta allora di procedere esattamente nella direzione opposta a quella in cui va uno spettacolo. Stanislavskij quando si trovò a dover precisare e divulgare i fondamenti del suo lavoro sull’attore cominciò a scrivere libri e continuò fino alla morte; stessa cosa fecero Meijerchol’d, Copeau, Grotowski, Brook, Decroux, e fino ai nostri giorni Eugenio Barba. A volte nel teatro si finisce per allontanarsi per amore, come un abbraccio che si offre ritraendosi, penso che per un regista voglia dire questo scrivere un libro su argomenti teatrali. Questa via battuta dai grandi maestri della regia non è stata sterile se io ho imparato molto del mestiere sui loro libri, sulle loro note di regia, su ogni piccola cosa che hanno deciso di scrivere. Ho capito, quindi, che la cosa giusta da fare era fermarmi e scrivere il libro giusto, dove fondere le consapevolezze artistiche maturate nel tempo con la verità sulla morte. Certo, tutto ciò assomiglia molto ad un riscatto, per molti aspetti lo è, ma si riscatta solo l’aspetto pubblico, storico e artistico della vita, del lavoro e della verità sulla fine del maestro; nei miei pensieri più personali abita un folle desiderio di risarcimento impossibile, fin dall’inizio non riesco a staccarmi dal pensiero che Martoglio al momento della sua morte non aveva compiuto cinquantadue anni, io ne ho sette di più; se gli fosse stato consentito di vivere cosa avrebbe realizzato? Ho tante fantasie ipotetiche sul merito, ma di una cosa sono sicuro: avrebbe prima o poi scritto un libro anche lui, una biografia teatrale o qualcosa del genere. Ecco, nel mio profondo, questo libro l’ho scritto al posto suo.
intervista a cura di Renata Governali