Al momento stai visualizzando Trasporre in dialetto (cinque testi di Salvatore Quasimodo)

Perché queste traduzioni?
L’atto del tradurre è uno dei più necessari di cui l’umanità ha sempre sentito il bisogno, per questo un’indagine sul tema andrebbe condotta in senso più ampiamente antropologico.
Si tratta di trasporre un sistema di segni e significati da una lingua a un’altra soddisfacendo in prima istanza,  almeno così parrebbe, una necessità pratica.
Ma, certo, la traduzione non riguarda esclusivamente gli impianti linguistici; la traduzione è un meccanismo che il nostro cervello mette in atto tutte le volte che ha bisogno di capire – capire nel senso di cum prendere, abbracciare, prendere insieme – riportando, dunque, il senso, a un contesto sociale comune – per necessità superficiale –  in modo che  la parola possa transitare dal confine del mistero dell’altro verso il proprio.
La traduzione degli oggetti artistici, invece, è operazione più profonda in quanto non sempre può basarsi  sull’utilizzo di strumenti codificati in grado di garantirne la correttezza, aspetto imprescindibile nella fruizione condivisa. La profondità è un concetto che attiene più propriamente al singolo, le variazioni e gli smottamenti psicologici del singolo, mentre il linguaggio condiviso richiede una grammatica trasposta sufficientemente adeguata alla comunitas, al noi.
I segni che l’opera d’arte palesa nel contesto di una sua riluttanza a svelarsi, raggiungono il “lettore”  non sempre rinunciando all’unicità di un essere  a parte, in solitudine e in dissonanza. Mentre nella comunitas la comunicazione avviene “sempre” e  il dispiegamento dei segni dall’uno all’altro sistema ha il carattere dell’univocità, i segni dell’opera d’arte conservano in parte una certa misura di pluralismo semantico che non può che riguardare il singolo, non il gruppo, e quantomeno la massa. Noi traduciamo in continuazione non solo perché abbiamo bisogno di capire, ma anche perché abbiamo bisogno di ricreare.
Si capisce, allora, come il tradurre da due sistemi linguistici strettamente imparentati, in questo caso l’italiano e uno dei suoi dialetti,  il siciliano, non possa basarsi su giustificazioni di tipo pratico, su una necessità esclusivamente comunicativa. Il lettore, infatti, si trova di fronte a un testo in italiano che è già organismo poetico perfettamente conchiuso per stile, contesto psicologico, necessità interne, milieu culturale, colore. Un conto è riportare il testo di Quasimodo in una lingua straniera, altra cosa in siciliano; operazione rischiosa, o superficiale, a seconda dei punti di vista, per vari motivi.
Ad esempio: essendo il siciliano la lingua nativa di Quasimodo, in che misura di intimità il poeta avrebbe accolto, rivestite e reinventate le sue parole, da una lingua letteraria alta, e per giunta connotata da una specifica poetica, in una lingua dell’infanzia, scartata, come è il caso di molti scrittori siciliani emigrati, nella cui poetica l’italiano engagè adottato costituiva oggetto di riscatto? D’altro canto la poetica del rimpianto e della mitizzazione ben si sposa  con una lingua della lontananza in cui le concavità, le assonanze, sembrano ricostruire, nel corpo dell’organismo testuale, l’esperienza senso percettiva dell’essere dentro le cose, animale fra gli animali, in un paesaggio di promesse e pericoli. In questo senso, l’evocazione di una parlata “locale” sembrerebbe giustificata.
Mi è sembrato, dunque, che, malgrado le difficoltà di senso, sia proprio il Quasimodo di una terra lontana, mitizzata, a prestarsi con maggiore facilità a una trasposizione, e forse, a pensarci bene, il termine traduzione mi sembra meno appropriato proprio perché non si tratta di chiarire, nel contesto di una nuova lingua, ma di “schiarire” ciò che nella lingua colta dell’ermetismo, scorre sottopelle.
L’altra difficoltà è per conseguenza legata al fatto che non si traspone solo dall’italiano ma dalle ragioni di una lingua venutasi a formare nel contesto di una specifica poetica, l’ermetismo, appunto, che così la informa, soprattutto nel suo apparato significante.
Che cosa succede, allora, al traduttore, trasponendo questi testi? Ad esempio una costante sensazione di autocensura – si tratta, dopotutto, di testi celeberrimi, che nessuno amerebbe ascoltare con altri suoni, con altri sensi -. È inoltre presente la domanda se attenersi a una traduzione letterale o a un discostamento, per poi constatare che all’uno e all’altro modo occorre ricorrere per necessità pratiche o per spirito di libertà.
Rimane, infine, una  motivazione di poetica – intuibile dai titoli scelti – che da sola può bastare a giustificare questo esperimento; e cioè il riconoscimento di un correlativo tematico: il tema del nostos, di una costante divaricazione sensoriale, di un trascendere per necessità e non per svago, riportando le parole alla durezza del viaggio e persino dell’addio. (SA)

CINQUE TESTI DI SALVATORE QUASIMODO

Isola

Io non ho che te
cuore della mia razza

Agghiu sulu a ttia
cori ra me razza

*
Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.

Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.
*
L’amùri pi ttia mi fa mòsciu
terra matri, si ciàuri scuri
sperdi na siràta r’arànci
o ri lànnari, chetu
si ni scinni che rrosi u vaddùni
ca quasi quasi  si inchìu u sboccu.

Apperò, se a ttia ritòrnu
e vuci ruci o cantu
ri strata affruntùsa sciàma
nun sàcciu si carusànza o amùri,
nu pitìttu r’àutri cosi mi pìgghia,
e accussì m’ammùcciu nne cosi ca pirdìu.
*
Già la pioggia è con noi
 
Già la pioggia è con noi,
scuote l’aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre il recinto degli orti.
 
Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d’improvviso un giorno.
*
Aggià chiòvi cu nnui
sbatti l’àiri muti.
I rrundùna scànzunu l’aqqui sicchi
re laghètti lumbàrdi
spìunu i piscitèddi comu acèddi ri malutémpu;
a pàgghia sicca ciàura nne stagghi…ma nun na viru.

N’àutru annu  abbruciàu,
nenti sbràiti, piulìi,
susùtu pi vìnciri nna nu sciùsciu  u iòrnu.
*
Lettera alla madre
 
«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
 
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio , dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.”

*
«Matri amurusìssima, uòra s’annèggia, cca,
u Navìgliu sbatti mbriàcu contru i ddighi,
l’àbbiri s’abbúffunu ri iàqqua, arsi ri nivi;
nun sugnu mmalincunìtu na stu paìsi: sugnu
strarriàtu cu mmia, ma ri nuddu
m’aspettu pirdùnu, ri tanti àiu ddèbitu ri lacrimi
facci a facci. U sàcciu ca nun ti senti bbona, ca campi,
comu tutt’i matri re puèti, pòvira
e ggiùsta sinza sparità r’amùri
pe figghi luntàni. Uòra sugnu iu
ca ti scrivu.» –  Era ura, astùra rici, ddu palóri
ri ddu fìgghiu ca scappàu ri notti cu na giacchètta lèggia
e cocchi puisìa nne sacchètti. Pòviru, moddu ri cori,
m’ammàzzunu stu fìgghiu cocchi vota, cu sapi unni. –
«M’arriuòrdu, cettu, dda stazziòni affummicàta
unni ttreni addummisciùti arrancàunu partuàlli e mènnuli
o sboccu ro me sciùmi, ddu sciumi ri caccaràzzi,
ri sali, r’àbbiri ciaurùsi. Uòra ti ricu ggràzi,
chistu mi piàci, a pigghiàta pi fissi ca mittìsti
nna me ucca, ma lèggia, nnucènti, comu tu si.
Dda rrisatìna mi sarvàu ri chiànti e dulùri.
E nun centra si uòra cocchi làcrima pi tia mi scenni,
pi tutti chiddi ca comu a ttìa aspèttunu,
chi cosa, nunnu sanu. Ah morti costumàta,
nun fimmàri u rralòggiu ca batti l’ura supr’o muru ra cucina,
tutti l’anni mei primi su’ stampàti supr’o
iàncu ri ddu rralòggiu, supra ddi sciùri pittàti:
nun tuccàri i manu, u cori re vecci.
Ma cu è ca mi senti? O morti ri pietà,
morti ri russùra. Addiu, cara, addiu, matri mia amurusissima.»
*
Al padre

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie  tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da tre giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele disseccate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
 
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
 
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso sul tuo capo era una mitria,
una corona  con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
«Baciamu li mani». Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
*
Unni spunzàva Missìna
supra l’aqqui viola, tra filàzzi rrutti
e casi sdurrubbàti, tu ti ni vai supra bbinàri
e scambi, ca còppula na capa ri iàddu
siciliànu.Ugghi u tirrimòtu
– avi ttri gghiòrni – uòra è dicèmbiri ri timpèsti
e mari attussicàtu. I notti nostri s’asdirrùbbunu
rintra i carri merci e niàutri, bbèstii nìciuli
sònniri ri pruvulàzzu cuntàmu mmenzu e motti
sfunnàti re ferri, muzzicànnu mènnuli
e puma siccàti a cuddurùna. A spittìzza
ru dulùri misi virità e cutèddi
nne iòchi re posti ra malària
ggiàrna e frevi ancuòra cchiù ggiàrna unciùta ri fangu.

A paziènza toa
tristi, dilicàta, s’arrubbàu u  nostru scantu,
n’ansignàu ppi gghiòrni mmènzu a ddi morti
schifiàti,  o sbriògnu re lattrùni
ca rriminàunu  nn’avànzi, ammazzàti o scuru
re scupètti ca vinìunu ro mari, na cunta
ri nnùmmiri vasci ca squatràva, pricìsu,
tunnu a tunnu, na liziòni ppa vita.

A to còppula atturràta facìva l’altalèna
nna ddu pocu ri terra ca ti ràunu.
Macàri a mmia mi pisàunu tutt’i cosi,
e isài u to nnomi
cchiù gghiàutu ri l’òdiu e ra mmìria.
Tuttu ddu rrussu supr’a testa era n cappėddu ri papa
na curùna cu ll’ali ri n’àquila.
E uòra, nna ll’àquila re to novant’anni
cu ttia vosi parràri, che to signàli
ri partènza culuràti ra lantèrna
nuttàngula, e cca, ri sta rrota
difittùsa ro munnu
supra na china ri muri stritti,
luntànu re gersumìni r’Orienti
unni ancuòra tu si, pi dìriti
chiddu ca na vota numm’arriniscèva – nunn’èrumu
i stissi – pi sbanniàri, e nunn’ascùtunu sulu
cicàli ru Bivièri, …
comu u vardiànu ca rici o so patrùni:
“Baciàmu li mani”. Chistu, e bbasta.
Pi nu mistèru è forti a vita.
*
Nessuno
 
Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perché lo sciolga da tutte le creature:
i bambini, l’albero, gli insetti;
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.
 
Perché non ha più doni
e le strade son buie,
e più non c’è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.
*
Nuddu

Forsi, iu, sugnu n carùsu
ca si scanta ra motti,
e a motti u sciàma
picchì accussì u lìbbira ri tutt’i criatùri:
i piccirìddi, l’àbbiri, mischigliùna;
ri tutt’i cosi ca s’intristìsciunu.

Picchì nunn’avi cchiù riàli
e i strati sunu o scuru,
e nun c’è cchiù nuddu
o sapi fari chiànciri
o sciàncu a ttia, Signùri.

(a cura di Sebastiano Aglieco)