(Omaggio a Omero, Dante, Pessoa e Lampedusa)
Il sogno è come un’onda del mare che ti culla e ti porta verso straniere contrade.
Certamente prigioniero.
Degli Dei certamente prigioniero.
Per mia colpa degli Dei certamente prigioniero.
Dentro una sfera per mia colpa degli Dei certamente prigioniero.
Assurdamente immobile dentro una sfera per mia colpa degli Dei certamente prigioniero.
Come dentro una cornice dorata d’iride, mi vedevo porgere al mostro siciliano il vino portato dalle lontane terre, aspettando il suo sonno, e poi fu buio, e poi enorme dolore, solo per un istante riuscii a vedere me stesso che girava ghignando il tronco arroventato e appuntito dentro il grande oblò che mi imprigionava, la sfera che divenne rossa di sangue e poi più nulla a vedere, solo dolore a sentire, non riuscivo la mia stessa voce udire nel grido dell’enorme dolore, che l’accecamento dell’unico mio occhio poteva dare, era come se fossi prigioniero del più tremendo sogno, che dolore porta e nulla fa dire, le membra bloccate dal perfido Morfeo, per cui ogni reazione è ferma e il sentimento resta vano. Ma il sogno era mio non del mostruoso Polifemo, che forse mai sogni ebbe e per questo mai lasciò la sua triste spelonca. Mostro che ancor oggi governa, con tanti altri nomi e Minosse qui, stessa terra, uccise. Forse non vi sono dentro, sono io stesso l’occhio dell’essere mostruoso, finestra sul mondo e luogo del sogno, dove giace e riposa passato o nasce futuro. Vedevo come dentro l’unico occhio tutta la mia vicenda del ritorno, come nastro arrotolato di pensieri e celluloide, cominciando dalla gioiosa partenza vittoriosa dalla sponde d’Ilio, meccanico rallentatore riavvolgente eroi, morti e misteriose genti. Nel sogno ero prigioniero nell’occhio del mostro. Forse ero io stesso il mostro medesimo. Il mio sogno restò per sempre impresso nella mente del poeta, che me così divenne come Lui fosse sempre presente alle mie tante avventure, forse mai vissute, certo mai viste, poeta accecato dal sogno, come ciclopica vicenda.
Restai cieco e vedevo come in sogno essere Ulisse; vedevo me stesso dentro il cavallo di legno e poi sortire e coprirmi di sangue troiano e di gloria eterna che ancor oggi nella terra intera si sa chi fu Odisseo.
La più grande menzogna è poesia, è sogno. In questo sono come il figlio di Laerte, l’argonauta che eroe giunse ad Itaca, o forse mi fu padre Sisifo, dall’immane fatica. Ulisse, che sua grande astuzia dava, a ogni istante esistenza, altre versioni a lui più ardite e convenienti. Odisseo pure come me si pose il fine: miglior vicenda trarre dalle rotte segnate dalla vita e dall’imperscrutabile e severo Fato, av-verso e dispettoso. Inutile seguir virtude e conoscenza.
Narrare ad occhi chiusi è il vero sogno e ciò diviene vedere ancora, come se qui dinanzi fosse la bella Nausicaa che nudo e ignoto mi trasse, nella sua reggia al padre Alcinoo, a salvarmi e nuova nave armare; ancora sogno e vedo, come se vero fosse, che anch’io narrai a lei tutto il mio viaggio, che mi fece fermare tanti anni amante e vinto tra le braccia di Calipso, perduto nel suo amore, nell’isola di sogno, tra i boschi di cerze, anche agli Dei ascoso.
Certo fu sogno vedermi giungere presso la maga Circe e sortire da uomini turpi maiali e poi con inversa magia ritornare alle umane spoglie, pronte ancora ai mari solcare. O parlare in Ade con il prode Achille da morto, lui vita sognare, anche di porci guardiano. Agamennone del tradimento mi diede avviso, a me traditore di sogni, che di menzogna vissi.
Nostos provai.
Non fu sogno del marinero le fallaci sirene sentire, figlie degli Dei beffardi; i mostri mi chiesero fameliche di approdare alla loro riva, chiamandomi con la voce di Penelope, poi del padre Laerte e infine di Telemaco mio figlio. Ma ero sempre e solo Demsky Danielovitch, da sempre levantino errante, come me Nessuno, in tutte le terre allora conosciute, se pur vere ma forse soltanto apparse in sogno; non mi era ancora nota America, che invano cercai nell’ultimo mio viaggio che me e l’intero legno portò all’abisso divino, a sprofondare.
Non so se fu la fine del viaggio, non erano certamente d’Ercole le colonne come poi dissi dentro lo maggior corno; forse ero giunto sulle sponde d’Africa o nei pressi di quella terra un tempo abitata dai Lestrigoni e che uomini oggi chiamano Lampedusa, uomo che anch’egli mosse e scrisse alla ricerca di sogni e di sirene. E forse in sogno una ne amò col nome di Lighea. Ma ciò avvenne in salmastro sogno, nel mare incantato dinanzi al grande vulcano, che si erge sulla piana ove miti pascevano le sacre vacche, un tempo al Dio del sole destinate; restai in riva al mare che nel divino sole d’estate raggiunge unico color del manto del pavone, sognai l’ennesimo naufragio.
Epoca triste di finti plastici bagliori d’immagine vera, ancora oggi il sogno è poesia.
Grande vento d’Africa luglio siciliano dormivo spesso in riva al mare che mi leccava il corpo col salire della marea sognavo essere Ulisse richiamato col canto all’ennesimo naufragio con il fresco del mare che riduceva il mio “essere” a quello di quando ero bambino fu questo che più mi stupì che nonostante il mare il mio essere era duro ed enorme a leccarmi non era il mare ma lei silente che mi guardava con occhi dello stesso colore del manto del pavone mi tirò con la bocca dentro il mare con la dolcezza e la decisione di una bambina che ti porta per il dito a prendere le caramelle nuotando mi strinse fortissimo tra i suoi congiunti arti inferiori la sua “vita” era come se si muovesse in una spirale vivente con dentro il mio essere di ferro che si avvitava il suo seno era sodo e perfetto pieno come pronto ad allattare per molto navigammo uniti sentivo ancestrali dolcissime carezze che ancoravano meglio il mio essere alla sua vita il vulcano spariva all’orizzonte annegando nel rosso del tramonto con le stelle lei fu ancora più sensuale giunsi a godere prima che io capissi già lei mi strinse al seno come per allattarmi nell’istante sprofondai nell’abisso lei inondò la mia bocca del frutto del suo seno a fecondarmi per me fu naturale nuotare giù in verso opposto alle stelle i miei arti furono per sempre palmati così guardo talvolta la terra da lontano senza rimpianto alcuno
Solo una certezza mi resta: da questo sogno non vorrei mai più risvegliarmi.
Francesco Nicolosi Fazio
P.S. Se è vero che la vita è sogno, è ancor più vero che il sogno è poesia. Poesia che ci fa vedere mondi mai visti come accadde certamente a Omero. E pure a Dante, che ad Omero si ispirò. E Pessoa che narrò la narrazione del sogno del suo marinero, che Ulisse era. E Tommasi di Lampedusa che sognò anch’egli la sirena a cui si ricongiunse, sotto mentite spoglie, al finir della vita.
Perché grandiosa menzogna è il sogno e questa menzogna qui scritta sogno vorrebbe essere. fnf