«Con grave ma lucido azzardo, si fece protagonista della grande impostura».

(Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto)

Docente d’italiano e latino nei licei, preside negli istituti secondari superiori, collaboratore di numerose riviste ed egli stesso condirettore di un semestrale, il nisseno Sergio Mangiavillano, dopo varie opere, tra cui La venerabile impostura, consegna al lettore un nuovo tocco di penna, L’impostura dell’Abate Staropoli (Prova d’Autore – € 10,00), un romanzo dall’impostazione storica in grado di sollecitare le speculazioni etiche, storiche e artistiche di un lettore che si lascia vincere dallo scorrere avvincente di un abile inchiostro.
Estremamente valido è l’espediente narrativo cui l’autore ricorre: una soluzione metanarrativa che non solo introduce la seconda parte dell’opera, ma sollecita la curiosità del lettore attraverso l’esemplificazione delle vicende che hanno preceduto, accompagnato e seguito la stesura dell’opera. Ammettendo di voler dare «una virata alla propria vita» attraverso la scrittura, l’autore coglie l’occasione per esprimere la propria opinione circa il romanzo, in generale, «generato non dalla razionalità, ma dalla fantasia, dal sogno» e definito «un campo aperto, un territorio libero dove puoi dare sfogo senza limiti a tutto ciò che ti viene in mente»; e il suo, in particolare, giudicato come una storia composita in cui «verità e mistificazione, sovrapponendosi a vicenda, lasciano spazio all’immaginazione». Sua guida e modello per la narrazione è Leonardo Sciascia, di cui legge solo tardivamente, per sua stessa ammissione, Il consiglio d’Egitto e Dalle parti degli infedeli; suo strumento, un linguaggio essenziale e conciso; suo obiettivo, la verità storica, intesa dall’autore come «un vincolo e un imperativo che in nessun modo potevano essere disattesi o traditi». Così, pur riconoscendo a un’opera di fantasia la più ampia libertà creativa, l’autore riconosce il dovere dello scrittore di perseguire il vero, senza mai respingerlo da sé proseguendo solo sul sentiero dell’immaginario.
Protagonista dell’opera è un capolavoro dell’arte rinascimentale, Andata al Calvario, detto anche Lo Spasimo, dipinto da Raffaello nel 1517 per i monaci olivetani del monastero di Santa Maria dello Spasimo a Palermo, nel quartiere arabo “Kalsa”. Tela che, prima di decorare le pareti del monastero, durante il trasporto navale finì in mare a causa di una tempesta. Fu, in seguito, ritrovata a Genova intatta come se «persino i venti e le onde nella loro furia» avessero rispettato «la bellezza di un tal lavoro». Un secolo dopo da quell’evento, gravò sull’opera una nuova minaccia, dettata questa volta non da una natura ribelle, bensì da ragioni opportunistiche messe al servizio del potere spagnolo. Ad osteggiarle un monaco capace di preservare la propria dignità libera dalle apparenze mistificanti di facili e ipocriti conformismi. Un uomo «coraggioso, non conformista, dalla schiena dritta», come lo giudica l’autore, una personalità geniale e ostinata che oppone l’inganno all’arroganza e alla prevaricazione, una figura in antitesi al mondo ecclesiastico, non apprezzato dallo scrittore perché considerato dogmatico e fucina di numerosi intrighi e complotti.
La spiritualità diviene nuovamente oggetto di riflessione da parte dell’autore nelle pagine successive, quando essa viene posta in relazione all’Arte. Mangiavillano, infatti, offre alle labbra dei suoi personaggi il dibattito sulla coincidenza tra il bene e il bello, tramite di Dio perché richiamo alla bellezza e quindi al trascendente. Il nesso tra misticismo e creatività è così profondo e strettissimo: «Ciò che è eccellente è quasi divino» asserisce lo scrittore, che fa risalire l’origine del suo pensiero all’antica Grecia al punto da considerare gli artisti, da Fidia a Prassitele, da Apelle a Zeusippo, dei «personaggi eroici, dotati di poteri quasi divini». Del resto, per Platone l’idea del bello è legata ai concetti di armonia, proporzione e misura, caratteristiche divine per eccellenza. Arte, dunque, come verità perché espressione di Dio e mezzo di elevazione spirituale dell’umanità; arte come «terreno del Bello, del Sublime, dello Spirito» da contrapporre al Potere, «regno del Male, della sopraffazione, dell’offesa all’uomo e della sua dannazione». Potere che si configura non come forma transitoria e destinata a mutare, ma come forza atta a reprimere, sorta dal conflitto e dall’assoggettamento. Verità e potere si scontrano e l’uomo viene catturato dall’illusione di poter dominare ora l’una ora l’altro. La questione è argomentata dai protagonisti del romanzo, che così elevano la propria condizione da semplici figure narrative a soggetti portatori di significato.
Da quanto si è detto, si evince quanto forte sia la presenza all’interno del testo di giudizi critici da parte dell’autore sia sugli avvenimenti storici, sia sui protagonisti delle vicende. Questo appare evidente nella considerazione che l’autore compie nei confronti della cultura tedesca che ostenta «un’orgogliosa superiorità verso l’Italia», ma allo stesso tempo avverte «un’irresistibile attrazione verso questo paese, la sua storia, il suo paesaggio, il suo mare». E le sue valutazioni si fanno più acute e pungenti nei confronti di Palermo, «città bellissima, uno scrigno d’arte e di cultura, ma difficile, carica di contraddizioni», o della giustizia siciliana, intesa come una «debolezza veduta e deplorata da tutti». Una Sicilia ancora «in pieno regime feudale, dominata da una potente casta baronale che frena qualsiasi tentativo di cambiamento», una terra dilaniata dalle logiche voraci di una nobiltà asservita alla speculazione e all’arricchimento. Un’isola in cui la vita culturale è avvizzita e trionfa il particolarismo locale, un regno marginale ed emarginato in cui «i modelli religiosi, sociali, politici non sono per così dire nazionali, ma locali e insieme sovrannazionali». E quando il protagonista afferma che «da anni, dalla scoperta del Nuovo Mondo, si attraversa un periodo di decadenza» è impossibile non riuscire a condividere quel sentimento di rammarico che avvelena di rabbia e di risentimento lo spirito del protagonista e che ancora oggi imperversa nelle nostre vie.

Cristina Arena

E' nata a Catania, ha conseguito la Laurea di Primo Livello in Lettere, indirizzo Moderno, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, con una tesi sperimentale in Grammatica Italiana dal titolo "Didattica dell’italiano a bambini stranieri: la morfologia nominale", che affronta i temi salienti dell’apprendimento e dell’insegnamento dell’italiano L2, configurandosi come uno strumento propositivo della didattica della lingua, sulla base delle analisi dei fenomeni linguistici raccolti durante gli incontri con i bambini del Circolo Didattico "Cesare Battisti" di Catania, presso cui ha prestato servizio. Nel 2010, presso la stessa università ha conseguito la Laurea Specialistica in Filologia Moderna, lavorando a una tesi in Linguistica italiana e Comunicazione, dal titolo "Didattica ludica e pragmatico-cognitiva dell’italiano: un’esperienza didattica sul sistema degli articoli" che si pone in linea di continuità con il progetto già proposto nel precedente corso di laurea, variato nel plurilinguismo delle classi di riferimento e integrato con le più recenti teorie e metodologie pragmatiche e cognitive, queste ultime basate sulla differenziazione degli stili d’apprendimento dei discenti. A questi principi teorici si è ispirato il progetto ludo-didattico Raccontarsi articolando, svolto presso l’istituto comprensivo statale "Campanella Sturzo" di Catania, seguito anch’esso dall’analisi dei dati linguistici raccolti. Attualmente collabora con docenti universitari alla progettazione e alla realizzazione di laboratori didattici ludici e pragmatico-cognitivi della lingua italiana.