Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana
M’hai tradita! E’ più urlo che parola. Così urla Aida alla sua serva. E’ venuta la maga, quella strega e fattucchiera, con l’ago da calze pronto a bucare, l’ago già bruciato e passato nell’alcol. Per bucare il bambino che Aida porta dentro, così dicono. Ma Aida ha capito il tradimento. La sua serva, la sua madre! Gesù inchiodato dal suo popolo. Reclina la testa come Gesù sulla croce, m’hai tradita, prende il corpo di Gesù sul suo grembo, senza una lacrima come una Madonna. La serva era nascosta nell’angolo della stanza, dicono, come Giuda. E’ stata la serva a portare lì la maga. Ma ora resta nascosta, e ha le mani davanti agli occhi per non vedere.
M’hai tradita, urlò Aida. Così ricorda la maga venuta con il suo ago nel sacco, la forbice, il prezzemolo, e la statua bottiglia del santo con l’acqua benedetta. Non l’ha più gridato, m’hai tradita, le volte che la sua anima ha parlato per bocca della maga. E se una volta è stata per gridarlo, la maga ha sentito le scosse sconvolgerla, e zittirle la bocca. Quelle volte è subito caduta in terra con la lingua tra i denti sobbalzando.
M’hai tradita! E già il sangue spilla dal ventre intatto, come la fronte per una corona di spine, già l’urlo diventa eco nella stanza, tra i moli deserti, e il mare senza orecchie, tra il letto di lenzuola rimescolate. Già il bambino rotola in terra nel buio, già grande, già morto, già sanguinante per la sua croce.
M’hai tradita! Non c’è più speranza per la terra. Per Aida, per altri. Neppure per lei, per la strega con il suo punteruolo, e le misture di prezzemolo. E’ già pronta, la strega, sopra la pancia di Aida, pronta a fare il proprio mestiere, mentre le apre le gambe sul letto, e la serva le tiene le bende e i ferri, dal suo angolo nascosto. Sogghigna, la maga, e parla di soldi con la serva invisibile. D’un tratto vuole di più, non bastano i soldi del patto. Non ce ne sono altri, dice la serva, abituata a contrattare, tanto m’hanno dato. E il resto per me, pensa. Non bastano, la strega s’è già avvicinata con i suoi attrezzi. Quel ventre aperto le sembra d’un tratto la ferita d’una lancia al costato. Non bastano i soldi. Non ce ne sono altri! Fallo tu, se ce la fai, allora! Però la strega non s’allontana, e non ritira i suoi ferri. Una serva sa fare tutto, ma questo non vuole farlo. Ci metto questo denaro e quest’altro, dice controforza. Non bastano, ancora la strega. Ha voglia di tornarsene nella sua stamberga. Le piace il mare grosso tra le rocce sotto il promontorio, le onde che arrivano altissime, verdi e bianche, con una voce di gola, e rompono la furia sugli scogli, verde, bianco, nero, nessun colore, che polverizzano, e il risucchio le porta, schiuma di sapone. Ho detto, non bastano, e s’allontana d’un tratto. Me ne vado. No, no, la serva. Ci metto questi, la insegue la serva. Ma le streghe sanno scomparire per magia. Il vento fuori ulula, può portarsi via una serva piccola, e senza peso, meglio non avventurarsi. Le streghe invece cavalcano il vento e la tempesta.
La maga non sa come quella gravidanza sia rimasta intatta. Nessuno ha fatto quello che doveva fare lei. Non si chiede neppure. Però una volta ha voluto spiare Aida e la sua pancia. L’ha vista nel cortile dell’osteria. E’ stranamente quieta, Aida, seduta su uno scalone, e sorseggia da un bicchiere, una limonata fredda. E’ una limonata perché la maga è abbastanza vicina da vedere, tanto vicina da sentire il gelo della bevanda, da avvertire il respiro di Aida affaticato da un caldo prematuro, dalla gravidanza, il suo sollievo a bere il gelo di limone. E’ bello stare seduta al fresco d’un nespolo nato per sbaglio in un cortile, con una limonata fredda da sorseggiare. La serva porta un cuscino, lo sistema dietro la schiena della padrona. Aida si stende più quieta sotto l’ombra del nespolo carico di frutti. La maga la guarda tra fronde di nespolo e giallo di frutti, tra moti di sole e di ombra, respira affaticata con lei, ingoia il refrigerio di limone, il suo gusto aspro in bocca. Il mondo è quel gusto di limone, sorride alla fine nella faccia rugosa di strega, e scompare come scompare una strega.
Il Golgota trema e nessuno s’accorge, un morto rivive e nessuno s’accorge. Le streghe no. La strega sa che il Golgota trema come il corpo d’una maga, e il cuore di Giuda è un panno che si lava e ripulisce mille volte, e ogni volta ritorna pulito come mai. M’hai tradita. La maga è tornata ancora e ancora a spiare. A vedere una madre, e la figlia che non doveva nascere. Sono lì, madre e figlia, in quel cortile. Il nespolo ha le foglie avvizzite, qualche ramo nudo, deve aver preso una malattia mortale. Aida fa camminare sua figlia. La bambina è incerta sulle gambe, ci sono foglie secche per terra, la serva è poco discosto. Vieni, vieni, Mara, vieni da me. Non c’è più ombra, perché l’albero sta morendo, e il sole quel giorno è un pallore. Filtra poca luce nel cortile, tra passaggi di nuvole. Aida prende in braccio la sua bambina, come tutto il mondo, la culla, le canta in sordina. La serva che non ha mai filato la lana o il cotone, scopre da un sacchetto i gomitoli e si mette al lavoro, oggi vuol farlo. Si sente soltanto il suo sferruzzio d’iniziata, e un sottofondo, la nenia di Aida. Come la Madonna e il Bambino di certe figurine. La maga s’acciglia e scompare come sempre per magia.
Però l’ultima volta che ha spiato il cortile dell’osteria era vuoto. Il nespolo nato per caso era stato segato vicino alla radice, morto e secco. I morti si seppelliscono, ha pensato allora la strega. Però le anime girano in eterno, ha pensato. Quella nenia di madre…? No, non è la nenia che ha sentito un’altra volta nel cortile, è il vento tra tetto e grondaie. Non c’è più nulla. Il Golgota è pietra. Questo è il tradimento maggiore. Giuda ha scordato, Gesù ha scordato, qualcuno scambierà i loro abiti. E nulla rimane. Solo gli ubriachi dell’osteria vicino, con la testa tra le mani, e le gambe distese. Tornatene nel tuo covo di strega, si dice la maga e desidera la propria stamberga. Se qualcunno le domanderà di Aida e sua figlia, di loro due, lei risponderà da maga, Madonna e Gesù sono stati madre e figlio? Se le chiederanno, lei risponderà, si diventa selvatici per amore. E avrà detto abbastanza.
M’hai tradita. Adesso quando le domandano di parlare con l’anima di Aida la maga esita. Perché dobbiamo disturbarla, quell’anima?
E tu perché non vuoi portarla qui? Le chiedono.
La maga esita.
Ha sofferto?
Perché volete saperlo?
Non lo sanno. Sanno d’essere sfaccendati.
Ha sofferto quand’è morta?
Quando non si ha nulla da fare, si ha paura, si ha paura di nulla, perciò chiedono della malattia di Aida. Ricordano certi rumori soffocati dal suo letto nell’ammezzato sopra la bettola. Come quando lei faceva l’amore sullo stesso letto. Ma non era l’amore, erano le fitte della malattia. Non hanno nulla da fare, e hanno paura. Fai parlare Aida.
Va bene, dice la maga. Lo fa di malavoglia. Lo fa per danaro. Infila la testa tra le braccia. Il suo respiro riempie la stamberga. D’un tratto un urlo. Sobbalzano tutti. La maga ha urlato. Ma Aida non l’ha mai fatto. Solo una volta… m’hai tradita. Serva, no, no, non lasciarmi la mano… ma non dirmi di gridare, non ho mai urlato… anche se le fitte trafiggono a tradimento. No, non chiamare dottori, non voglio dottori. Dov’è mia figlia, non c’è. Ecco, mi calma, mi calma… Non dire, il maledetto dottore! Non ha nulla da fare il dottore, mi calma, e non voglio mia figlia… Mi hai messo il cuore di Gesù sotto il cuscino…. vediamo, vediamo, la tua cartuzza piegata, cuore di Gesù, vediamo, forse fra poco m’aspetta, forse lì c’è tutto o nulla, nell’altro mondo, come nella vita, sai vecchia mia, mia consolazione, ho un buco nel petto… che mi scava, che mi prende davvero il cuore… Quando inizia non c’è più cuore. Ma quando calma… vedo più chiaro, quello che ho vissuto, e no, e allora… Dio mio, allora è importante solo quello che non è stato. Vorrei ridere… vecchia mia. Grida, Aida, grida, mi dici. Invece vorrei ridere, ma no… forse hai ragione, dovrei gridare, cuore di Gesù, sono ancora viva, dolore o amore, sono viva… Eppure m’importa solo di quello che non è stato, di quello che non è stato mai vivo, vorrei ridere. Sono ancora viva e fa male, come queste fitte. Grida, Aida, dici. Sono davanti a te, cuore di Gesù. Basta, basta, vecchia, sì basta, madre mia, sono viva e voglio morire.
La maga urla come Aida non ha mai fatto, libera la faccia devastata, respira appena. E’ di nuovo lei, Aida se n’è andata per sempre.
Tu potevi salvarla, una stregoneria? Potevi farla, la magia? ansimano con lei.
Adesso è di nuovo lei, la maga. La magia può tutto, mormora trafelata, ma gli uomini la disfano. E a volte una maga non può fare nulla. La magia deve credere, ma a volte gli uomini non credono. Per Aida non c’era nulla da fare.
E’ venuta da te per farsi salvare?
La maga si passa le mani sulla faccia segnata. Non è mai venuta da me. Qualcun altro venne da me prima che morisse. Venne qualcuno…
Chi? Uomo, donna?
Quel qualcuno si fruga le tasche, ne esce tutto quello che c’è, soldi, oggetti senza valore, tutto sul tavolo. Puoi guarirla, mi dice. Muove le labbra con il sussurro di una preghiera. Guarirla? Non cambierà la tua vita! Puoi guarirla? Posso guarire te se lo vuoi. Qui, qui, tutto quello che ho. Io guardo quello che mi ha riversato sul tavolo, hai rubato alle tasche d’un bambino? rido. Tutto quello che ho! Non hai niente. Puoi guarirla? Divento seria, come una maga. Sono una maga. Sento… sento che ha un maleficio… le hanno fatto un maleficio… nei polmoni – tossisce e sputa sangue, vero? – Una fattura nel petto, la sento tossire, pare che l’anima se ne vada a ogni colpo di tosse, sputa sangue, pare che sputi un pezzo di sé ogni volta, pare che voglia farlo, che sia bene così. Guariscila! No… no… non ce la faccio… D’un tratto cado a terra. Mi risveglio. Quel qualcuno è ancora là, non è andato via, sopra di me, piegato in due, a tossire al posto di Aida. Riprenditi quello che m’hai messo sul tavolo. Ma quel qualcuno è già via. Vattene, è inutile dirlo.
Non l’hai guarita? galleggia la domanda.
La magia può tutto. Ma Aida voleva morire, come amare, ballare o cantare, amare. Nessuna maga può farla vivere, e nessuna strega. Niente ha così potere. Non voglio più toccare quell’anima!
Si fa silenzio. Qualcuno si rimesta nel silenzio. Anche il silenzio fa paura. Ci dici com’è che sei diventata maga? Il mistero fa paura, è silenzio.
Naturalmente una maga deve mentire. Sono nata con il dono. Non la racconta giusta. Una volta raccattava immondizie, elemosinava per strada, una volta era tramortita dal freddo e dalla fame per le vie. I ragazzini con il latte alle labbra spartivano roba e denaro, i vagabondi le russavano accanto e parlavano nel sonno, i drogati vagavano, qualcuno disegnava su un muro, un altro orinava, gli scarafaggi zampettavano, un topo rimestava, forse un topo e un altro, piccole ombre indaffarate, sfuggenti. Avranno lì la loro tana. Se allungo la mano, se l’allungo… Posso farlo? Nella spossatezza la donna non riusciva a muoversi. Voler muovere un braccio e non poterlo fare! Allungo la mano e prendo uno di quegli scarafaggi neri, veloci, ci gioco, con le loro zampine, se lo prendo, lo assaggio tra lingua e denti, lo macino, a poco a poco, magari è buono, e se non è buono lo mangio lo stesso, oppure scompaio con i topi in una tana. Ma non riusciva a muoversi. Lo mastico, è duro da rompere, ma è morbido e sieroso dentro, tiepido e dolce come niente, e la fame va via, adesso sono coperta di nera corazza come lo scarafaggio della mia bocca, e non ho più freddo, adesso, mi muovo come un topo veloce, abile a nascondersi e fregare tutti, a correre. Che fai lì, strega? mi dicono. Sei morta? No, gli scarafaggi non muoiono, e i topi sanno tutti le tane, tutti i misteri. Che mastichi? Mastico te, me, gli scarafaggi e i topi. Sembri una strega. Sono una strega, dammi la mano, e ti dico tutto. Le mie dita d’un tratto sono antenne e zampine, unghie di topo. E sanno tutto. Così cominciò, ma la maga non lo dice. Sono nata con questo mistero in corpo, e so leggere le mani.
Sai leggere le mani!
Lo so fare, e faccio le carte. Strane le carte, come gli uomini. Un re di denari può significare destini diversi, può essere soldi, o morte come sono sempre i denari, può essere menzogna come il denaro, può essere fortuna o sfortuna, secondo l’uomo a cui esce la carta. Strane le carte, volete vedere quanto sono strane le carte, come giocano le carte?
Un’altra volta, un’altra volta. Fa paura il mistero.
Non vi piace giocare! Eppure le carte girano il mondo. Cambiano, girano e giocano. Re di danari, donna di mazze… Che carta vuoi? Io te la faccio uscire, la tua carta. Sono una maga. Sono un mistero. Quaranta misteri, le carte. Quaranta e più vite, gioco maledetto, gioco perdente, scarafaggi e topi, mano da indovinare, si nasce e si vive tante volte quante le carte infinite. Maga per dono e mistero, ecco, può ripeterlo la donna senza mentire. Strega per non morire. Non ho voluto morire come Aida, Giuda vuol vivere.
E’ morta. Al cantastorie piacciono gli inizi, non la fine. L’inizio è il lampo nella notte, la fine è l’ultimo gocciolio di grondaie dopo il temporale. L’inizio è la creazione, la fine è l’eterno che non vuole finire, l’inizio è il primo respiro, la fine lo soffoca, soffoca chi vuole respirare, in eterno. Il contaballe perciò non ha parole sulla fine. Aida è morta, ecco tutto. E se qualcuno vuol sapere di più, lui parla a forza, solo per il dovere, per il mestiere, e nient’altro. Maledizione, è morta come muoiono tutti, il colpetto di tosse che fanno tutti, e un sospiro che non fa nessuno. Sotto il suo letto, sotto il pavimento del suo ammezzato, schiamazzavano nell’osteria, come al solito, ma a lei pareva che fosse una musica, le è sempre piaciuta la musica, e le canzoni. E’ per te, è musica, mormora la serva, lo senti? Vorrei cantare anch’io, Aida sempre più flebile. E’ pe te, pensa la serva, è la tua vita che canta e suona, come sempre ha fatto. Vorrei cantare. Ma rutti di sangue le invadono la gola. Suonano e cantano per te, per te, Aida, dice la serva, e pensa, è la tua vita che suona, è la tua vita che finisce, è la morte che ti prende suonando e cantando come la tua vita. Suonano per te, Aida, dice, la musica più dolce, Aida, canzone di sirene in mare aperto, e nessuno resiste, neppure tu, nessuno ti ha mai resistito, non hai bisogno di cantare, perché è la tua voce, la tua musica, non si resiste alla propria musica, non si resiste alle sirene. Così dice la serva e si meraviglia di possedere certe parole. Forse davvero le sirene cantano con la voce d’ubriachi, e parlano con la sua voce di serva. Forse davvero siamo tutti in mare aperto e aspettiamo le sirene una notte, che cantino e gorgoglino dall’acqua del mare. Dev’essere un momento speciale, se ad una serva vengono certe parole, cantano per te, Aida, per farti felice, per farti assonnare, sonno di bambina, Aida, per farti svegliare domani con la fronte fresca e sfebbrata di bambina, domani sarai guarita, sono le sirene, sei tu, è la tua voce. Sì, sì, sono felice, sai, mormora Aida, sì… me la sento in gola, la musica… sono felice. Cantala, bisbiglia la serva, l’hai sempre cantata, sirena mia, cantala senza voce. E’ morta, schiamazzano intanto all’osteria, sotto di lei. E s’ubriacano per quella scusa, ogni scusa è buona, meglio che perdersi nella nebbia del porto. Domani, schiamazzano, se fa buono e non c’è nebbia, si esce in mare, tiriamo reti piene di alici, domani balliamo come alici nella rete, domani, se c’è il sole le alici brillano e ballano nella rete, niente morti domani, domani brilliamo e balliamo in mezzo alle alici, pesci tra pesci, come essere tra le braccia di Aida, braccia d’argento, scivolose, che non s’afferrano, braccia vive, che si mangiano crude.
E’ morta, ripete il cantastorie. Forse dovrei commuoverli, pensa, anche se una fine non mi piace e non vorrei parlarne. Come faccio? Con questi pescatori ubriachi! Eppure l’ubriacatura è già commozione, si parli di morte, o di cacce e viaggi, l’ubriacatura è già nebbia tra le vie del porto. Se non li commuovo, li stupisco, pensa. Sapete che è successo quand’è morta Aida? Dicono che il tramonto abbagliò come una bomba, e si spense. Poi un’ombra allargò l’osteria oltre i muri, oltre l’unto dei muri e l’opaco delle lampade accese.
Figaro, pensa il barbiere, mentre guarda da una finestra, ma non ricorda bene, sa solo che è una musica da cantare. Gli è venuta la botta, quella che chiamano botta, ora è immobile su una sedia come il baccalà appeso nella bottega accanto. Non può muoversi, non può parlare, non può masticare se non pane ammollato. Ma si riprenderà dice il dottore, forse si riprende. In ogni caso non è morto, dice ancora il dottore, e il barbiere è contento. E’ contento di non essere morto. Ogni tanto il capo gli si piega da un lato, e ogni tanto una bambina – chi è? – gli asciuga un filo di saliva che gli scola, sempre dallo stesso lato, dal labbro piegato. Sei mia figlia? Come ti chiami? Tenta di parlare, non ricorda, quello ed altro non ricorda. La lingua per giunta non gli si muove per nulla, e non può chiedere. Oppure è il soffio che gli non esce bene dalla gola? Dalla finestra vede una donna con due o tre bambini attaccati alla gonna, che appena si reggono in piedi. Lei stende le lenzuola, forse parla con un uomo che passa dalla via, forse parla da sola. Il barbiere sente una spina nella metà ancora sensibile del corpo, e non ne capisce il perché. Come ti chiami? Vorrebbe chiedere alla bambina. Se sapesse il suo nome… forse nella testa gli si accenderebbe un ricordo, e dopo tutti gli altri. Quella donna che stende le lenzula… Eppure qualche immagine gli appare, dentro una confusione. Per esempio ricorda una grassa e laida puttana, una di quelle puttane invecchiate prima del tempo, infettate di malattie, come il sacco della spazzatura. Lui ha forbici in mano, chissà perché, e la guarda nella confusione del ricordo. Non capisce perché lui la guardi, perché la segua sparire nella nebbia della mente. E’ solo una laida puttana. Anche quella donna che stende le lenzuola nella sua casa, e parla con un uomo che passa sulla strada. Anche quella bambina che sfaccenda, e ogni tanto gli asciuga il filo brillante di saliva. Come ti chiami? Sei già una puttanella come le altre? Vorebbe fischiettare, Figaro, o canticchiare, Figaro, ma la lingua non permette. Perciò s’accontenta di pensarlo, il fischio, o l’arietta. Figaro. C’è uno spicchio di sole che arriva e gli scalda la faccia. Lui se lo gode. Non sono morto.
E’ venuto un uomo a trovarlo, uno che racconta le storie, dice, che gira le strade e racconta le storie. S’è seduto vicino a lui. Gli dice, non mi piace vedere i miei personaggi. Sono loro a cercarmi però. Come un figlio cerca un padre, per annullarlo. Ci sono paura e imbarazzo in un padre, una maledetta debolezza con suo figlio, dice il contafrottole, per cui ti metteresti in ginocchio davanti a un figlio e lo pregheresti come un santo, dammi un attimo del tuo tempo, dammi una briciola del tuo cuore. Io non voglio farlo. Semmai sono le mie storie a cercarmi, e io a scappare. Però a volte chi racconta le storie ha bisogno di vedere, sentire, pregare. Come chi le ascolta. Perciò, dice, è venuto a trovare il barbiere paralitico. Non lo dice, vuol farci una storia con lui. Magari ve lo infila senza senno e appiglio, in una storia di puttane, di quelle che piacciono alla gente. Puttane, sangue, mistero, che c’è altro per una storia? L’amore, la prepotenza? Ma certo, e tant’altro. Però, tutto ha un sapore diverso da quello vero. Come uno specchio? Godibile, senza regole e complicazioni, senza cervello e giustificazioni? Il contafrottole fissa il suo uomo che pencola sempre più dalla sedia, allunga un braccio per raddrizzarlo. Ecco, ha fatto un errore, è venuto a vederlo, il suo attore, addirittura l’ha toccato con una mano. Adesso la sua mano non riesce più a staccarsi dal braccio del malato. Come se gliel’abbia rubata. Stanno tutti e due a guardare la nebbia esterna, attaccati e paralitici, per un lungo, lunghissimo tempo.
E’ venuta anche una maga a trovarlo, il barbiere. Sono venuti tanti, clienti suoi hanno detto, gran barbiere, grande forbice e rasoio delicato. Clienti? La maga gli ha aperto la mano rattrappita dal male. Viene da un tribunale, dice, hanno condannato in fretta una, una che ha ammazzato il suo uomo con il coltello, mentre dormiva. C’era anche una vecchia serva e recitava, così, doveva finire così, mentre si portavano via quella giovane disgraziata e si segnava, ho provveduto io, l’ho seppellito io quell’uomo di tua figlia, m’hanno dato i resti tagliuzzati i dottori, che nessuno voleva, ho pulito io come al solito, come fa una serva, stai in pace, Aida, ho ripulito lo sporco di tua figlia. Così alla serva sono rimaste le robe di Aida, e nessuno può prendergliele!
Non c’è tomba per Aida, non c’è galera per sua figlia, dice il contaballe, così dico io, guarda la nebbia, attaccato con la mano al malato. Il paralitico ascolta e non capisce. Ma che vogliono tutti da lui? M’hanno pagata per sapere se muori nell’anno, gli ha detto la maga, tua moglie m’ha pagata, vediamo questa mano… no, non questa, meglio quella morta, ghigna la maga, la piglio io… la linea… sono stata al tribunale… vediamo la linea… al tribunale, me l’ha detto in sogno Aida, voglio vedere mia figlia con i tuoi occhi, l’ultima volta, prima che se la portino via… ho guardato la sua figlia assassina… mi hanno ubriacato il cervello Aida e sua figlia… mi pare che la mia capanna scivoli ogni giorno d’un metro verso il fondo del mare… il cervello, il cervello… una strega non deve avere cervello… la tua linea, uomo… è quella che vorrà tua moglie.
Il barbiere tenta di muovere le labbra per fischiare, Figaro. Non capisce perché vengano da lui, perché gli parlino di una donna, di Aida. Chi è? Chi è quella donna che asciuga i panni al balcone di casa? Lui ricorda soltanto una grassa puttana, e neppure quella, nella confusione della mente. Forse, forse anche lui sparirà dentro quella confusione. Intanto la bava gli sgocciola sul petto. Lui la sente solleticargli il mento, impotente.
La serva è stata serva fin da bambina. Non ha mai immaginato d’essere altro. Anzi a volte pensa che fare la serva è la migliore vita possibile Che non c’è migliore fortuna che avere padroni, mangiare e bere, rubacchiare da serva. Lei è stata fortunata. E da vecchia si gode la sua fortuna, passando i suoi giorni tra i clienti d’osteria e il cortile invaso da gelsomini lontani.
Ha fatto il suo dovere di serva, anche quando la sua padrona era malata. E anche dopo che è morta. Ha continuato a servire una donna sformata dalla malattia, sul suo letto, una che non somigliava più a una padrona e una donna. Continuavo a servirla, già marcia come terra di cimitero. Campo di papaveri al sole, ora fango di cimitero. Io non sono più la tua serva, sono il tuo braccio, la tua gamba, il tuo occhio, la tua mano, e non sono la tua serva, sono la luce e il sangue di papavero rosso, il pancino dove finisce la terra, dove di più si raggruma il sangue della terra, e non più la tua serva. Adesso sei terra e fango sul tuo letto. Così racconta la vecchia serva alle donne sfaccendate, o ai clienti del vino. Fango che si mescola come si vuole, e non ha forma e luce, lì, sul suo letto di bambina, ma non era più né bambina, né donna, né padrona, la mia Aida.
Era malata, dicono le donne. Sono donne di facchini, di pescatori e delinquenti, d’ubriaconi e lavoratori, sono donne sole il mattino. Mattino lungo tra un lavoro e l’altro. Era malata, dicono i clienti del vino, nessuno vorrebbe parlare di malattie. Ma di qualcosa bisogna parlare. Quella vecchia è così vecchia che per forza si parla di malattie con lei.
Muoio, mi dice d’un tratto Aida.
Fanno gli scongiuri le donne, o gli ubriachi.
E io le dico all’orecchio, avessi avuto una mollica di te, della tua vita nella mia vita!
Questo le hai detto mentre moriva?
Ho avuto diversi padroni. Uno c’è morto con te, Aida. E dire che aveva fianchi forti per montare una donna, e soldi per farle impazzire, traffici e affari dappertutto. Muoio, dice Aida. Sei la mia ultima padrona. Dopo di te non c’è nessuno. Dopo, divento la serva di me stessa. Vorrei piangere con te, Aida, ma non ci riesco. Io muoio. Sì, sono morti tutti i padroni, i servi rimangono.
Le dicevi così mentre moriva?
Aida delirava, muoio, ero il fuoco che distrugge, che riscalda, il mare che si percorre senza strade, muoio, ero il cielo che non finisce, così diceva, la nave che parte, che torna, il marinaio, il facchino di porto che suda sotto il peso, ero la sua donna, il pesce che nuota al largo, sempre più al largo, all’orizzonte, e il gabbiano che se lo mangia appena esce il capo, muoio, e non c’è più mare, cielo, fuoco, marinai, e gabbiani. M’afferrava il braccio e delirava, dove sei, dove sono?
Lei diceva questo, che significa? domandano le donne.
Cosa volete che sappia una serva? Una serva senza padroni! Ahi, non riuscivo a piangere per Aida, ma potevo piangere per me. Una mollica solo della sua vita! Aida litigava, faceva le fusa, tubava come una colomba, strillava come un gabbiano, nuotava come una medusa, un sogno trasparente, saltava come una sardina, mordeva come una cernia, sbuffava come una pentola che bolle e rimesta. Aida era tutto, aveva tutto. Aida era fuoco, vero, e ha bruciato il mio vero padrone, uomo come una colonna, profumato come muschio, bello e ricco, potente. Lei aveva tutto e bruciava tutto.
Ti piaceva, il tuo vecchio padrone, è così, serva?
Tra donne ci si può dire tutto…
Begli affari però il tuo padrone!
Che volete? Lo sanno tutti chi era, che faceva, chi lo proteggeva, certo, doveva fare i conti, certo, con altri padroni, polizia e no, stao e affaristi, tanto a me e tanto a te. Era il mio padrone.
Prostitute, contrabbando, e che altro, il tuo padrone?
M’è venuta fame, ridacchia la serva.
Hai sempre fame.
Il diabete!
Certo, il diabete, sghignazzano. Aida ha amministrato l’eredità di quel padrone.
No, no, questo no, Aida non sapeva che fosse il denaro, era il suo difetto. Aida diceva vorrei tenere in mano il denaro come si tiene un bambino, amarlo come un bambino, volerlo come un bambino.
Che significa?
Che ne so! Stupida padrona e regina! Padrona senza possesso. Mi hanno mandato una carta, dal tribunale.
Non hai mai parlato così della tua padrona e regina. Regina costretta e minacciata d’acido poi, bisbigliano a labbra strette le donne, cancellata d’acido come qualsiasi puttana.
La serva fa un movimento d’insofferenza. Un giorno gli porto il suo bicchiere di menta gelato, al mio primo padrone. E’ gelato, mi dice. Come l’hai sempre voluto, padrone mio. E’ gelato, e i denti mi ghiacciano, la gola, lo stomaco, mi ghiaccia il sangue. Lui, con i suoi denti forti come le morse d’un tornio. Qualunque donna si sarebbe fatta mordere e tenere stretta. Allora capii, avevo un’altra padrona ormai. Ora non ne ho più di padroni.
Arriva qualcuno, dicono le donne curiose. Chi è? Che vuole? Però… lui è storto e calvo, ma l’altro dietro di lui, che tiene borsa e registri, è giovane… però… Chi sono? Li manda il tribunale? Che vogliono? Cercano te.
Non cercano me, dice la vecchia serva.
Proprio te, ha una carta in mano quello giovane. Uno sfratto? Che vogliono? Qualcuno reclama le proprietà di Aida? Guarda, stavamo parlando di lei!
Non sono qui per me.
La legge reclama, ghignano le donne, il tribunale. Un bel giovane manda la legge!
Che volete? Le proprietà di Aida? Regina senza regno! Padrona senza possesso!
Ti buttano in strada.
Maledetti, dopo che ho servito una vita!
Sulla strada!
Non si butta in strada una vecchia!
Legge maledetta, ghignano le donne.
Maledette anche voi, comari!
Che c’entriamo? sghignazzano.
Maledizione! La vecchia s’appoggia al muro, le manca la terra, è il diabete, e maledizione al tribunale e a tutti i padroni. Per la prima volta s’accorge che il nespolo tagliato del cortile ha fatto un ramo, una foglia. Non dev’essere morto. Ora tagliano lei invece. Ma io non sono morta. Maledizione a tutte voi, e ai padroni! Le gambine della serva tremano, forse vorrebbero ribellarsi, ma sono troppo vecchie. E troppo disgraziate. Gambe di serva.
E’ la figlia? E’ lei che si ripiglia il, dovuto? Non se lo merita!
Non può essere, l’ho sepolto io il suo danno, ho ripulito, l’ho vista io portarsela in cella. I servi non vanno mai in galera. I servi… Ma alla vecchia s’annebbia il cervello.
S’è ammazzata, dicono questi due, s’è tagliata le vene in cella. Non lo sapevi, vecchia? Aveva un coltello nascosto in seno. I giornali hanno pubblicato due righe. Hanno scritto che aveva una faccia quieta quando l’hanno trovata morta, quasi dormisse. C’è da crederci se lo dicono i giornali… Però bel giovane, questo della legge.
Ma Aida non aveva parenti, balbetta la vecchia. Quel nespolo forse ricresce e lei non lo vedrà.
Forse c’era qualcuno ad aver diritto, quello calvo e vecchio del tribunale ha le carte.
Ma che carte, che carte? blatera malamente la vecchia serva.
Sempre carte la legge! sbuffano le donne. Ridacchiano e chiaccherano tra loro.
Ma quali carte! sprofonda sempre più la vecchia.
Qualcuno ha sempre diritto.
E io? chiede la vecchia. Aida è morta tra le mie braccia. Chi mi paga? A me neppure un posto dove morire? Non mi toccate, maledetti pidocchi di stato, non mi sposto di qua. Dovete ammazzarmi per portarmi via di qui! Ma lo sapete che Aida è morta tra le mie braccia? Tra queste braccia! E adesso me ne devo andare? Chi c’era con lei quando moriva? C’era qualcuno di quelli scritti nelle vostre carte? C’era il tribunale?
Che vuoi che importi alla legge di queste fandonie? dicono le donne. Alla legge non importa di nessuno. Confabulano, quello calvo ha baffetti di gatto, a vederlo, scuro di pelle e vestito, baffetti di gatto, somiglia all’eterno gatto nero di muso di porco.
E’ lui, è la vendetta di quel gatto, pensa la serva. Ma con me? Non sono stata io a romperti la zampa, la vecchia va sempre più a fondo. Non pago io le colpe dei miei padroni. Mi porterete via di peso, mi porterete via morta, dice la vecchia. A me non rimane niente della mia padrona?
Cosa vuoi che gli importi, all’uomo del tribunale, dicono le donne e si sparpagliano per i loro lavori quotidiani. Sono sempre gli stessi lavori, sempre da ripassare, ogni giorno. Qualcuna però sta peggio di loro quel giorno, la vecchia deve sgombrare con le buone o le cattive, sono quasi contente, qualcuna sta peggio.
Non rimane mai nulla a una serva? La bocca della vecchia è aperta, tonda come il mondo. Un fruscio di vento improvviso prende quella foglia stentata di nespolo. Vento di nord.
Le strade si ravvoltolano come coperte la sera. Specie quelle sere che il vento di nord le spazza di geli portati da lontano, nel suo giro senza sosta della terra. Quel vento di nord dà alle strade la sua voce, ugola e rimbombo di gola, parlano persiane, grondaie, bidoni d’immondizia e immondizie smosse dal loro stupore, fili elettrici, angoli nudi di muri. Non c’è nessuno. Solo gatti selvatici, torme di randagi senza razza e senza scopo, senza alcuna parentela. Però qualche ubriaco, con il coraggio del vino, vi barcolla ogni tanto, ruzzola sulla propria ombra, sulle altre ombre che ondeggiano per rare lampade, scivola tra gli asfalti screziati come ragnatele, tra incavi dove si può orinare, tra eruzioni di terra e ortica. Sembra una barca in mare, quell’ubriaco senza pace, una barca che deve gettar via l’onda che ha imbarcato, vomito e orina. La sua ombra danza, si perde nell’intreccio di ombre e strade dove tutto si perde. A volte un ubriaco, forse un uomo che si guadagna il vino con le storie, a volte un ladro, a volte un poveraccio gli fanno compagnia silenziosa sulle vie. Nessun altro sotto la luna aperta dal maestrale. Però quelle sere, quando gli uomini tacciono, parla chi ha voce. Quelle sere capita che si senta parlare di Aida per le strade con la voce del vento, di lei e di qualsiasi fantasma che gira nei vortici del maestrale. Capita che cielo, luna e stelle, ripuliti dal vento, ascoltino senza parole e che le vie parlino.
Aida siamo noi, non capite? frusciano a coro le immondizie al vento. Ci sono sacchetti di plastica sfondati, cartacce, tutto risvegliato dal vento per combattere una guerra di bandiere su sommità di cassoni. Sembrano capigliature impazzite sopra il cranio d’alluminio dei bidoni. Il vento si porta via il loro sonno, la putrefazione impossibile di plastica e carta. Aida era noi, buttata via, risvegliata dal vento che fruga e trascina. Rifiuto condannato per forza. L’ubriaco, il ladro, e il poveraccio ascoltano muti. Non hanno meta, perciò hanno orecchie. Tutti i posti son buoni per rubare o rigirare la sera. Fili elettrici sibilano, Aida siamo noi, energia che viaggia nell’aria, che sfrigola nelle arterie di rame. Artificiale energia, falsa energia, mortale energia, battono i cavi al vento come denti posticci. Ululano angoli di muri imbrattati d’escrementi, Aida siamo noi. L’avete capito? L’ululo echeggia per le grondaie, gallerie senza sbocco, per finestre chiuse e tremanti nel vento. Ubriaco, o ladro e poveraccio, o cantastorie, ascoltano, tra cielo, luna e stelle, non hanno voce nelle voci del vento, né posto nel mondo.
Anche i gatti inselvatichiti. Anche i randagi non hanno posto, pelo irto, e muso in alto a fiutare. Tutti i posti son buoni se si caccia e si mangia. La loro voce stride e rimbalza da uno all’altro, richiamo di guerra, o d’amore. Sì, ecco Aida, noi vogliamo amare e lottare. Aida, si lamenta la strada trafitta dal maestrale di terre lontane, strada che finalmente ha una voce. Ci abbiamo ragionato su Aida, ci abbiamo battuto questa testa di sasso, scandiscono le pietruzze d’asfalto rotolanti nel vento. Ridono i gatti. Però sembrano neonati che piangono, Aida. I tre uomini della notte sobbalzano, si guardano attorno, ma i gatti hanno imparato a essere invisibili sulla via. Nessun gatto, nessun neonato. Ridono anche i sacchi di plastica e le cartacce, sparpagliati dal vento. Anche l’ortica, accarezzando quei brani d’asfalto. Anche le lattine sfondate nel loro viaggio, anche i bidoni con le loro risate mezzo cupe mezzo squillanti, suoni d’eserciti in armi sventolanti bandiere, sventolanti capelli di plastica e carta sopra il cranio tignoso. Ridono sgangherati, tronfi e vanagloriosi come eserciti in armi. Il maestrale fischia più forte tra un imbuto di tetti. Abbiamo bisogno di ridere, come bisogno di padroni, di guerra e d’amore, sghignazzano i randagi. Aida, eccola, roba usata e gettata, sacchi sfondati, cartacce sporcate, randagi che piangono, ridono. Ridono striduli i randagi, versi di iene e uccelli notturni, scompaiono tra i fantasmi che si porta in giro sul tondo della terra, e ribolle il vento del nord. Troppi fantasmi, troppo pesanti, spingerli in tondo per chilometri. Il maestrale romba più rabbioso tra persiane serrate, vuole stanze calde, letti morbidi, voci umane.
I tre uomini nella notte provano un altro brivido. Che facciamo? Via, via! si dicono tra sé. Soli, o in due, non importa, o in tre, uniti per quel poco d’istinto e senso, che esistono, per l’occasione e la voglia, che esistono, per la necessità, via, via! Se c’è Aida, grassa e puttana, senza difesa, in questo cassone d’immondizie, ne strappiamo un brano di carne, rifiuto, lo conserviamo per mangiarlo quando si ha fame. Ma via, via! Sfilano in fretta nell’ombra. Uno affonda in escrezioni di randagi. Se ne fa una ragione, ubriaco com’è. Un altro scruta nella lampada elettrica come la sfera del destino. Un altro aspetta il buio più buio della notte, l’occasione da rubare. Si dividono, li sfiorano erbacce e carte sporche nel vento, pietruzze perse d’asfalto, e venti del nord, fantasmi del vento. Via, ci sono voci nel vento, Aida.
Ma naturalmente il maestrale è voce di vento, e tutto dissolve la sua memoria d’aria.
(Fine)