«Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo»
(Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline)
Prima venne il muschio, poi la terra e con essa gli alberi e le palme. Il verde era il signore di quel piccolo paesino pieno di vita. Ulivi ed aranceti si alternavano a cipressi ed acacie, tutti sempre rigogliosi e mai con una foglia che fosse gialla o rossa. Una sorta di magia rendeva sempiterna la vita della flora locale. Qual era il segreto di quella vegetazione? Ai margini del villaggio sorgevano le case principali. C’era quella di Aamir, il pastore. La sua abitazione s’affacciava su un cortile sterrato. Spesso accadeva che diversi animali vi transitassero per raggiungere il ruscello che scorreva lì vicino ed il cui rumore riecheggiava nei corridoi della casa. Tante oche, qualche papera ed i rispettivi pulcini, spinte dal richiamo dell’acqua, salutavano con il loro starnazzare il padrone di casa, già sveglio di buon mattino, a causa del cantare del gallo. La casa si sviluppava principalmente in altezza: il tetto a spiovere copriva quelli che presumibilmente sarebbero stati il bagno e la stanza da letto, sotto si trovavano la cucina, la stanza degli ospiti e l’uscio, e più non ci è dato sapere. Amir era uscito con il suo gregge per dirigersi verso la parte più alta del Paese. Le sue cinque pecore, scortate dal suo cane Corso di nome Jabir, seguivano le sue spalle scure, frutto dell’incessante battere del sole sulla sua pelle durante anni e anni di transumanza. Il suo viso era scavato, abbronzato come le spalle, aveva un naso tozzo e le labbra screpolate. Indossava una tunica color senape e dei suoi sandali era rimasto soltanto il nome.
Vicino la casa di Amir si trovava anche un pozzo. Qui, ogni mattina, la bella Zahira prendeva l’acqua con il suo secchio in legno. Pazientemente, con questo ben saldo tra le dita delle mani, si dirigeva successivamente verso il centro del paese. La strada era uguale per tutti, solo che taluni sceglievano di percorrerla sino alla fine, mentre altri si perdevano per i margini, in cerca d’alberi, grotte, pascoli e ruscelli. Figlia del mercante di dromedari, Zahira, era tra le donne più belle della periferia. Occhi azzurri, capelli neri come il cielo notturno e goti leggermente arrossate. Vicino al pozzo, due palme offrivano riparo ai pellegrini che si ritrovavano a passare in quelle zone. Qualcuno racconta di aver visto anche animali non proprio tipici di quelle zone fermarsi per rinfrescarsi all’ombra delle grandi foglie e rifocillarsi con i datteri caduti. Con loro, tanti altri seguivano la strada e altrettanti si piazzavano ai suoi margini per provare a giocare d’anticipo sul mercato centrale e vendere qualcosa ai viandanti.
Da un lato c’era il venditore di caldarroste, con il suo grembiule bianco, sporco di cenere, con la maglia azzurra e la pelle scura. Non avevo un prezzo fisso, ma offriva un prodotto unico, che sembrava – tra l’altro – essere a sua disposizione in quantità infinita. Chissà dove andava rifornirsi puntualmente. Il fumo del suo braciere arrivava alto in cielo, vedendolo in lontananza, qualcuno avrebbe potuto pensare ad un incendio. Dall’altro lato della via, qualche metro più avanti, si trovava il pescivendolo: aveva un vistoso turbante in testa e la barba più lunga del coltello con cui sfilettava il pesce. Il suo banco in legno sembrava reggere a malapena, eppure ogni anno lui era sempre lì, e con lui il suo banco. Aveva il vizio d’urlare il nome di ogni singolo pesce come se fosse al centro del mercato e dovesse distinguersi dagli altri. Poco prima, sulla loro strada, era passato Karim, uno dei tanti contadini delle campagne limitrofe. Aveva sulle spalle una cesta di vimini, cola di uova delle sue galline e ortaggi di vario genere; indossava un cappello di paglia, una canotta usurata, un tempo bianca, adesso leggermente marroncina, e dei calzoni che gli arrivavano al di sotto del ginocchio. Anche lui non era diretto al centro, ma – come Amir – verso la parte più alta del paese. Ma perché tutti andavano verso l’altura della grotta? Perché un paese intero lasciava il proprio lavoro e partiva alla volta della buia spelonca armato di doni e curiosità?
I passi dei villani intanto si mischiavano a quelli d’altri animali. La terra risultava infatti essere stata scavata da zoccoli di provenienza non equina. Su delle gobbe itineranti, tre uomini avevano anticipato il paese intero e stavano per raggiungere la grotta appena menzionata. Avevano nomi nobili, così come altrettanto nobili erano i loro abiti, i loro turbanti ed i loro gioielli. Ognuno d’essi aveva il proprio cammello e portava con sé un dono, che custodiva gelosamente. Venivano da Oriente e tutti li chiamavano magi, non perché bravi nelle oscure arti, bensì perché competenti in materia d’astri. Il primo, di carnagione chiara e lunghi capelli bianchi, si chiamava Melchiorre e portava in dono un cofanetto pieno d’oro; il secondo, dalla pelle color ebano, si chiamava Baldassarre e portava in dono un cofanetto colmo d’incenso, il terzo, dalla pelle olivastra e dalla folta barba, si chiamava Gaspare e portava in dono un cofanetto traboccante di mirra. Cercavano un bambino, un bambino da incoronare come re, e a guidarli sin da dove erano partiti non era stato altro che un astro come tanti.
La notizia del loro passaggio si era già sparsa per il paese: ecco allora perché tutti accorrevano alla grotta tanto cercato dai magi e nessuno di questi partiva dalla propria casa o postazione di lavoro a mani vuote. Mentre suonatori di flauti allietavano una già movimentata notte, una giovane coppia si apprestava a sistemarsi nei pressi della grotta. Un falegname e la moglie in dolce attesa, ormai prossima al parto, avevano colto l’occasione di riposo offertagli dalla grotta, per trovare ristoro dopo un lungo viaggio. I due si schierarono alla destra e alla sinistra di una mangiatoia adibita a culla. A riscaldarli c’erano solo gli aneliti di un bue e d’un asino e poi nulla più. Avevano sentito anche loro che gli abitanti del villaggio erano in fermento, ma non riuscivano ad immaginarne il motivo. Il centro del paese non era più il mercato, ma quella piccola grotta. L’unica strada adesso portava magicamente solo lì. Adesso anche il fornaio si era unito ai suoi paesani, con una teglia di pane caldo riempiva l’aria di profumi caldi ed intensi.
A ben vedere questa scena, però, nessuno di questi parlava o si muoveva realmente, dato che la pasta di sale e la ceramica non hanno né il dono della parola, né quello del moto. Si trattava solo di pura fantasia, la stessa di chi, ormai rimasto più solo di quanto fosse stato in anni precedenti, si dilettava a costruire storie, non sempre e per forza solamente con le parole. E così il gallo non cantava, il ruscello non scorreva ed i flauti non suonavano, ma restavano – così come gli altri protagonisti – immobili, vivendo il giorno in funzione dell’accensione o meno d’una lampadina ed aspettando la notte in cui quel quadro sarebbe stato completato, con il collocamento del bambino appena nato nella sua mangiatoia. E così ogni anno, fino a quando anche il loro autore sarebbe morto, lasciandoli in dono ad altri, che avrebbero poi avuto il compito di scegliere se continuare ad alimentarli con la fantasia o lasciarli in qualche scatola ad accumulare polvere ed anni.
Francesco Ragùni