Sui rapporti fra reportage di viaggio e letteratura, i critici dibattono e si scontrano da tempo, allo stesso modo di chi esalta lo scrittore giornalista da un lato, e chi denigra il giornalista scrittore dall’altro. Non è questa la sede per un così complesso discorso, ma una lancia a favore di una stretta relazione fra i due tipi di scrittura può venire da una citazione che fa al caso nostro.
Tema caro alla letteratura, che è nemica dell’attualità che definisce “cronaca”, pretendendo di dare a quest’ultimo significante un marchio d’infamia. Affari loro diremo, con riferimento al conflitto mai sopito tra cronaca e letteratura, appunto. Eppure, a farci caso col senno del poi, si dovrebbe poter dire che la cronaca è la vinaccia e la letteratura la grappa. Non ci sarebbe tutta la seconda se non ci fosse la prima. Una questione di distillati. [1]
Nei tanti articoli e racconti di viaggio scritti per vari giornali italiani e che ora sono raccolti ne La lente scura [2], Anna Maria Ortese da’ prova ancora una volta della sua straordinaria qualità di scrittrice espressionista e visionaria, quale appare nei romanzi e nei racconti che l’hanno resa famosa [3]. Da uno scritto giornalistico, ci si aspetta chiarezza, cronaca della realtà dei fatti e dei luoghi, rispetto delle categorie di spazio e tempo reali. Eppure, la scrittura della Ortese reporter è ambigua, allucinata, sempre filtrata da una soggettività fin troppo presente.
Gli occhiali del racconto [4] con cui inizia Il mare non bagna Napoli, sono la lente scura attraverso cui la Ortese guarda la realtà. Quel paio di occhiali da ottomila lire che hanno permesso alla piccola Eugenia, mezza cecata, di vedere il quartiere napoletano nella sua straripante e misera realtà, hanno permesso alla Ortese giornalista di scrivere sempre “attraverso la Lente scura di una giovinezza trascorsa nel confino di classe (…), cosa difficile quando chi paga, e rende possibile il vivere, predilige le Lenti Rosa, o di altro chiaro colore.” [5]
Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciano a contorcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. [6]
Si confronti la “scoperta” del cortile da parte di Eugenia, una volta indossati gli occhiali, con il reportage che la Ortese scrive sulla Napoli antica:
E bottegucce animarsi di nascoste lampade, di sguardi pazienti, di sorrisi dolorosi. Dai portoni scivolare minute figure di «monache di casa», di ragazze invecchiate, di storpi, di derelitti, di «assistiti»: mentre un odore di caffè, di muffa, di incenso, di bucato, di olio fritto, di pomodoro, di pane, vi trasporta come una nube. [7]
La stessa Napoli viene fuori dalle pagine della Ortese scrittrice e della Ortese giornalista, una città già povera prima della guerra e altrettanto misera all’indomani della liberazione. Protagonista per eccellenza fra tutte le città viste e vissute dalla Ortese, Napoli è quella che più si presta a simbolo dell’universale condizione umana, per via della sua peculiare mescolanza di opposti: le case ammassate e buie dei quartieri spagnoli e le ville luminose di Posillipo, i giardini silenziosi di Foria e la rumorosa via Toledo, il pianoforte di Scarlatti e la radio di Funiculì Funiculà.
La Napoli della Ortese reporter, quella del Mare non bagna Napoli e quella dei reportage scritti negli anni ’50 e contenuti nella Lente scura [8], è una Napoli letteraria vestita a mezzo lutto, dove gli edifici, i vicoli, gli interni delle case, i rumori, gli odori e i silenzi assumono il valore altamente simbolico di una degradazione non solo fisica, ma soprattutto morale, parola quest’ultima che racchiude per la scrittrice “il vivere con pietà e amore in mezzo agli altri” [9] lì dove con altri identifica la terra stessa, la natura, e l’umana natura.
Il progresso, quella febbre di costruzione che ha invaso il capoluogo campano nel dopoguerra, ha reso la città scialba, grigia, rassegnata: la nuova stazione di Napoli, con la sua mostruosa forma di gigantesca lisca di pesce sospesa in aria, è l’emblema del delirio di modernità che ha trasformato il vecchio in un ammasso di “ossa di un animale antidiluviano stipate in un negozio di nuvole” [10]. La levità reale della nuova struttura architettonica è trasformata, attraverso la lente scura della reporter, nella causa della comparsa di un’immensa piazza cinerea, come cinerea è la nebbiolina di quella mattina a Napoli, e come cinereo è il Vesuvio descritto poco dopo. Quel colore persistente che caratterizza l’aria di Napoli, e potrebbe spiegarsi per il pulviscolo vulcanico presente nell’atmosfera, diventa invece simbolo della città: il grigio, colore neutro, uniforme, né caldo né freddo, che tende ad assumere le sfumature dei colori che vi si accostano, è il colore della monotonia, della rassegnazione, dell’apatia. Come il mare che non è realmente blu o azzurro, ma prende di volta in volta i colori delle nuvole, degli astri, del cielo, così “i troppi colori, il cielo azzurro di Napoli, si rivelano (…) mutevoli e falsi; il grigio, e il meno grigio, che talvolta dà sangue, autentici, eterni.” [11]
Non che la Ortese fosse contro il progresso, ma che avesse paura che Napoli sparisse “nella guaina di cellofane di una città moderna” [12], con le sue case-alveari, le fabbriche che anneriscono edifici e persone, le strade stracolme di veicoli, è evidente in molte pagine della Lente scura, così come nel Mare non bagna Napoli, o nel Porto di Toledo.
Le case-alveari ricorrono spesso nella scrittura della Ortese, sia giornalistica che narrativa. Viste e descritte dal basso dei cortili e delle stanze dei portinai, verso l’alto degli appartamenti dei benestanti, esse rappresentano un piccolo microcosmo dove ad ogni piano corrisponde un diverso ceto sociale. Se la famiglia della piccola Eugenia [13] (come la Ortese bambina) vive nell’unica stanza a pianterreno, quasi una grotta tra ragnatele penzolanti e “scarafoni”, le sorelle Greborio che possono permettersi una serva e il cavaliere Amodio vivono al primo piano, gettando polvere e immondizia nel cortile dove gioca la bimba. E naturalmente, all’ultimo piano, vi è la residenza della proprietaria del palazzo, la religiosa Marchesa che elargisce vestiti rattoppati e libri di santi in cambio di lavori a costo zero.
La stessa prospettiva verticale è utilizzata nel reportage La città involontaria [14], quasi un’inchiesta giornalistica sulle condizioni di vita dei napoletani più poveri, quelli che vivono ai Granili, come termiti in una montagna cava, in una sorta di casermone di cemento armato più alto che largo. Anche tra poveri c’è infatti chi lo è un po’ di meno solo perché ha una radio, vetri alle finestre, lampade più potenti e qualche chicco di caffè. Il riscatto sociale e umano è impossibile, e se un cambiamento può esserci, è solo verso il piano inferiore.
Non risaliva più nessuno, da giù. Non era facile risalire quei gradini in apparenza piani e comodissimi. C’era qualcosa che chiamava, da giù, e chi cominciava a scendere era perduto, ma non se ne accorgeva che alla fine. [15]
Persino in un articolo [16] sui comizi precedenti le elezioni del sindaco di Napoli nel 1952, elezioni che videro la vincita del fascista Achille Lauro, la reporter non può fare a meno di sottolineare la disposizione degli elettori in ascolto al Teatro Politeama: dai palchi, freddi e indifferenti signori e signore della Napoli bene si affacciano sulla platea semilluminata, dove uomini del ceto medio appassionati e entusiasti hanno gli occhi lucidi; più in là, vicino all’uscita del teatro, i popolani con negli occhi “un che d’idolatra e triste”[17] gridano rozzamente auspicando la vittoria del nuovo partito missino-monarchico.
La Napoli della Ortese reporter è descritta anche attraverso un altro procedimento letterario che potremmo definire verticale: il passaggio da un’ottica generale, di vista dall’alto o da lontano – da una collina, dal litorale – ad una visuale dal basso, nei dettagli delle strade, delle persone e degli interni delle case. In Queste colline [18] e in Veduta di Napoli [19], la descrizione panoramica della città vista dalla costa prima e dal balcone del Vomero poi, dà a Napoli un profilo di donna di mezz’età ancora bella e sensuale ma già sazia della vita, come nel primo caso, o quello di una sgargiante farfalla caduta in mare “con l’ali aperte, morente di gioia, di luce, d’amore” [20]. Immagini di trasognata agonia, dolce passività e tenera rassegnazione caratterizzano la geografia di Napoli vista nel suo insieme, perché solo a quel livello si può amare la città a tal punto da giustificare e perdonare le sue miserie e ferite.
Qui si paga con la moneta della pazienza e dell’indifferenza, della vergogna e della malinconia, l’ingresso a un paradiso più bello di quello di Dio, più vicino al nostro sangue, e che non stanca mai. [21]
Aumentando la scala della rappresentazione, il paradiso assume però i caratteri del purgatorio, in cui anime sofferenti patiscono la propria condizione, come il “signore-che-vende spilli dorati” che non compra nessuno, con la sua voce che pare venga dall’oltretomba a gridare aiuto, o la vecchia centenaria che urla spaventata al gesto di elemosina di un passante, tanto è rara la bontà di quei tempi [22]. Eppure, come nel purgatorio, tutti questi poveri, emarginati, diseredati, sanno sorridere e coprire i mantelli dei loro santi di mille banconote per ricevere il perdono dei peccati.
E come Dante, anche la Ortese attraversa la città, tra partecipazione e distacco, guardando tutte quelle anime in pena come fossero fantasmi di una Napoli “trasognata, dormiente” [23], i cui rumori continui, latenti, come le note di un basso in un’orchestra, sono il segno di un profondo silenzio, un vuoto, o al massimo il lamento di un sonno agitato.
(…) zitti e stanchi, passavano lungo i muri, con le loro facce irregolari e pallide, illuminate da occhi troppo grandi, come in una caricatura, e cerchiati, la pelle mal lavata e coperta di tele scolorite dall’uso e indurite dalla polvere. Non avresti detto che fossero svegli, ma che in un sogno oscuro si agitassero. [24]
Lo stesso stato di sospensione tra rumore e silenzio, realtà e sogno, vita e morte contraddistingue anche le esistenze dei benestanti, gli abitanti della Napoli bagnata dal mare. Anche in loro,
Non c’è alcuna rumorosità, giovanile esplosione, gioia: ma una quasi costante, quasi dolente felicità della pelle, sottratta alla morte, e offerta alla vita, uscita dalle macerie, dai vicoli, dai tuguri (…) [25]
Nella Napoli del dopoguerra, nella miseria delle donne-bestia come nell’apatia delle donne-ciliegia ortesiane, vige un’unica verità: l’immobilismo nel movimento, “come se il tempo si fosse messo a correre in modo da confondersi con l’immobilità” [26], il silenzio della ragione che spegne ogni tentativo di rivolta all’orrore, e una paura atavica che lega tutti, ricchi e poveri, in un unico flusso, come una colata lavica indistinta e informe che divora la città, o come un unico grigio mare che s’infila e scorre tanto più veloce quanto più stretti si fanno i vicoli di Napoli.
L’immagine della folla di Napoli come mare, fiume, serpe, lava, è una costante “ossessiva” della scrittura ortesiana, e nei romanzi come Il Porto di Toledo e nei racconti dell’Infanta sepolta, e negli articoli analizzati in questo saggio, a conferma non solo di un troppo marcato soggettivismo, ma anche di una manipolazione letteraria della realtà che non permettono di tracciare confini netti tra la Ortese narratrice e la Ortese reporter.
*(Questo brano è un estratto di un saggio in progress)
Note:
[1] M. Grasso, Sul pettinare code, in “Lunarionuovo”, n.38/53 nuova serie, gennaio 2011. (online www.lunarionuovo.it)
[2] L’edizione di riferimento è A.M. Ortese, La lente scura, Adelphi, Milano 2004. (1° edizione: La lente scura. Scritti di viaggio, Marcos y Marcos, Milano 1991.)
[3] Per una bibliografia completa delle opere in volume della Ortese, vedi L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano 2002, pp. 704-716.
[4] A. M. Ortese, Un paio di occhiali, in Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano 2008 (1° edizione: Adelphi, Milano, 1994).
[5] A. M. Ortese, Prefazione, in Id., La lente scura, cit, pp. 15-16.
[6] Id., Un paio di occhiali, cit, p. 33.
[7] Id., Tuona a Napoli, in Id., La lente scura, cit., p. 214.
[8] Gli articoli-reportage esaminati, contenuti in A. M. Ortese, La lente scura, cit., sono i seguenti (con indicazione di pagina): Tuona a Napoli (203-215), I megafoni del Viceré (253-260), Queste colline (393-395), Napoli straordinaria (401-405), Il mare non bagna Napoli (406-410), Veduta di Napoli (411-414), Ho conquistato una casa! (415-420), Il grigio: autentico, eterno (444-445).
[9] Id., Corpo celeste, Adelphi, Milano 2008 (1° edizione: 1997).
[10] Id., Tuona a Napoli, cit., p. 207.
[11] Id., Il grigio: autentico, eterno, in Id., La lente scura, cit., p.445.
[12] Id., Veduta di Napoli, ivi, p. 413.
[13] Id., Un paio di occhiali, in Id., Il mare non bagna Napoli, cit.
[14] Id., La città involontaria, in Id., Il mare non bagna Napoli, cit., pp. 73-97.
[15] Ivi, p. 88.
[16] Id., I megafoni del Viceré, in Id., La lente scura, cit., pp. 255-260.
[17] Ivi, p. 258.
[18] Id., Queste colline, ivi, pp. 393-395.
[19] Id., Veduta di Napoli, cit., pp. 411-414.
[20] Ivi, p. 412.
[21] Id., Queste colline, cit., p. 395.
[22] Id., Tuona a Napoli, cit., p. 213.
[23] Id., Ho conquistato una casa!, p. 416.
[24] Id., Il silenzio della ragione, in Il mare non bagna Napoli, cit., p. 134.
[25] Id., Tuona a Napoli, cit. p. 210.
[26] Ivi, p. 212.