“Non ho niente da dire, non sono nessuno e anche se ti sembrerà incredibile cercavo il bagno e non ho visto niente!” le scanalature gelide del muro premevano contro la mia schiena mentre mani nerborute schiacciavano le costole quasi fino a togliermi il fiato. Il mio interlocutore/compressore portava bermuda giallo safari troppo stretti per contenerlo e troppo corti per le temperature che c’erano lì sotto. Potevo vedere le scarpe e terribili calzini-spugna bianchi che fermavano con un elastico la foresta di peli dei polpacci; altro non mi era concesso, qualcosa mi premeva contro la testa costringendomi con il mento parallelo al busto. La vista del viso era interdetta ma le parole e i punti interrogativi mi cadevano addosso con un ritmo rotto dalle ripetizioni e anche senza vederlo del tutto, anche con il fiato che quasi non bastava più ho creduto di sorridere della delicatezza della sua balbuzie.

“Pe pe perché sei venuta

(quaggiù?)

c’è una signora, gonna al ginocchio grigio scuro e calze color carne carotene; la borsa tenuta per darsi la spinta con un piede puntato e la gamba distesa, brandita in avanti, neanche fosse innaffiata da Rodriguez in persona. Ha occhi corvini con cui scruta i rifiuti e quando ne trova di interessanti li esamina con la sua gamba bastone, si piega sull’altra e rigira lattine cercando da bere o soltanto uno specchio che deformandola la renda uguale di nuovo. Nessuno conosce il suo nome, per questo ha smesso di credere che in un’altra epoca avrebbe potuto almeno far ridere fino al soffitto. Solo una volta una ragazza di corsa si è fermata a guardare l’evoluzione della sua gamba, ipnotizzata più dalle cuffie che dagli occhi e rivolgendosi all’arto ha detto:

(‘Ma voi come state?’)

ho chiesto sommessamente ai due spiriti safari davanti. ‘Noi bene’ hanno risposto quelli senza specificare chi non stesse bene; ho pensato di prendermela per l’allusione o spaventarmi per altre presenze. Però. L’uniformità del loro giallo era un’ipnosi da sottoscala anche con la macchina sparaviola spenta, che io la sapevo essere una fregatura: mostrava spiriti dove non ce ne erano affatto, solo macchie viola informi e

(senza faccia)

questo mi ricordo di lui. Potrei descriverti le ombre che le vene gonfie nelle giornate aride lasciavano sulla sua mano, la distanza esatta tra l’alluce e la cicatrice di quando bambino ha sfidato una piuma perdendo in discesa. Potrei dirti le ginocchia e la pelle ruvida del suo fianco sinistro, la sua mano destra che toglieva la mia per pudore e la portava all’indietro, iniziando a ballare come sciatori di fondo. Le spalle, le costole, i peli contati a metà una sera d’ossessione mentre dormiva. Tutto oltre il collo. Ho dimenticato il resto come non fosse mai realmente

(successo)

di pubblico per l’ultima incredibile opera del regista Polletti, gli spettatori erano troppi e si è deciso di farli sedere a due o a tre ma l’affluenza ha costretto quelli sotto a prenderne sulle spalle altri e questi a loro volta altri. All’inizio della proiezione la sala era piena in tutte le direzione con i primi schiacciati faccia al pavimento e gli ultimi faccia al soffitto. Quelli in mezzo se la sono cavata con qualche compressione vertebrale. Dato il numero di persone e l’ingombro si è deciso di alzare il volume per permettere a quelli dietro almeno di sentire i dialoghi (gli altoparlanti erano solo vicino allo schermo); lesione di timpani di quelli davanti. Nessuno ha visto il film in modo completo ma si è battuto il record di incassi. Assolutamente da non perdere!

Claudia Mariotti

E' nata a Foligno(PG), dove lavora attualmente come medico veterinario. Vittima di studi esageratamente scientifici la sua mente si rifugia nella letteratura quando e come può.