SUL SAGRATO
in un bozzolo di sudore e di afasia
Sicilia mia. Disperato dolore
si rinnova per te nella memoria
IBN AMDÎS
(versione poetica di Toti Scialoja,
traduzione filologica dall’arabo
di Francesca Maria Corrao)
Sono sicuro ci intenderemo
siccome vi mostro un sussulto
questa è opera che scende
dalla piccola spola allo scandaglio
preparata con il calcare
e qualche traccia di colore
conformata con il legno e con la pietra
con parole di fuoco
che lo sguardo curva una dopo l’altra
c’è della musica che ci sfida
e quanti passi e quanta pazienza
sono necessari per stendere un drappo
tra queste nuvole e questo sottosuolo
che ora più che mai posso dire d’ignorare
I
Sul sagrato della Chiesa
Madre di Sortino
letto sventrato dal sonno
riconoscermi tra questi ciottoli levigati
dal torrente Guccione
è disincanto e fatica
svaniscono così
senza fretta
le geometrie di questo mosaico
come il suono della voce
del banditore di lupini
che si allontana
memorabile vancale
di cui non rimane altro che
uno sfigurato ordito
balza colma di luce
che sorprende sempre
dove bello era perdersi
giocare a palla avvelenata
II
Nello stesso fiume donne operose
sciacquano i loro panni
si logorano nell’anima e nel corpo
corrose come ossa dalle intemperie
nelle loro immagini alterate
tra capelli raccolti e scarmigliati
si agita il mistero
che vive nella loro carne
che è nei grani di questo rosario
deposto ai piedi della croce più alta
III
È una frattura scomposta
questa piazza di selci
scheggiate nere e bianche
dove sbocciano
appartati fiorellini gialli
e chiazze d’erba
non si presta a così tanto dolore
chi non possiede un segreto
IV
Mi punge il cuore un sentimento
un’ape versa a goccia a goccia
nell’anima che si tinge
delle calde sfumature del miele di timo
ogni suo dubbio
il mio cuore semplice
stringe distanze difficili da colmare
una misura frantumata dall’abitudine
incoerenze di questo luogo offeso
una misura incline alle vertigini
è il mio cuore
vivo lampi di autentica solitudine
V
Un venticello gelido inventa adesso
un sipario di nuvole rossastre
nel cielo sgombro da pensieri
dilaga un tramestio di sentimenti
impasto di chiacchere
e zucchero a velo
e intanto io pure
annego nell’acqua sporca
VI
La verità si assenta
tra ombre che dileguano e spazi vuoti
sul portale di questa fabbrica
giallo paglierino
grinzosa e a me così tanto cara
sospende il ritmo della narrazione
mi osserva e mi interpella
con la pazienza del padre misericordioso
attende il proprio momento
trattengono il fiato
l’uva rampante i pampini lucenti
foglie d’acanto merlature
cornucopie ghirlande
e scolpisce un varco il silenzio
le colonne tortili si direbbe
allunghino infine al cielo
impietrita selva di braccia
capovolte cantilene
VII
All’alba del venerdì Santo
sciamano curiosi
storditi dalla veglia a schiere
a fughe solitarie a file spezzate
scrutano sagome feline
profili umani austeri e filiformi
imbastiti da un refolo
e prontamente disfatti
frugano tra gli sguardi
di perfetti sconosciuti e di conoscenti
svagati accennano a un saluto
hanno negli occhi la luce dei falò
qualcuno si accorge di un ciottolo disperso
intanto Cristo alla colonna
attraversa come uno squarcio
all’alba del venerdì Santo
il sagrato della Chiesa
Madre di Sortino
VIII
E stridono i miei passi stridono
sull’acciottolato scivoloso
come cristalli di ghiaccio
danzano a ritroso nel tempo
la pioggia d’agosto leggera
disperde in mille rivoli
l’odore della siccità
vita che si disfa
in un bozzolo di sudore e di afasia
IX
Nell’utero tagliato del sagrato
della Chiesa Madre di Sortino
divampano segreti
la cripta umida dal suo interno
effonde miasmi e sentimenti tormentosi
non passa mai del tutto l’innocenza
non si consuma inutilmente
cinque sei gradini sette
oltre il margine
a sollevare il velo della capiente curiosità
possiedono genio inflessibile
don Andrea Gurciullo
l’abate Gentile
muscoli per tenderlo
possiedono ali vigorose
che generano vortici
X
ascoltando i Notturni di Chopin
Ma è situata altrove la mia casa
la mia dimora dalle foglie larghe e sottili
dove soffia il vento e la vita si accende
ci conduce la sete
all’altro capo della matassa
la mia casa permeabile al dolore
la mia impervia residenza
è affollata da uomini e cavallette
né peggiori né migliori
da come li ha fatti fin qui
la mia indulgenza
è popolato dalla musica
il mio alloggio tutto nuovo
dove dentro è fuori
e dove fuori è dentro
da interminabili spazi vuoti
è popolato il mio rifugio
da lunghi sguardi interdetti
terra incognita
dove la parola si confonde
con il passo di danza
e io farò in modo che una
di queste pietre inutili
finisca nelle mie tasche sbrindellate
vivrò come sono vissuto fino a oggi
amerò come nell’ora del bisogno
la mia casa situata altrove
amerò con il coraggio di amare
la mia dimora di luce
nella mia residenza ci sono
lunghe oasi d’ombra
amerò così come ho amato
quello che non conoscevo
oltre la mia casa
oltre la mia dimora
dalle foglie larghe e sottili
dove il vento soffia
e una di queste pietre inutili
riempirà le mie tasche.