Al momento stai visualizzando La rivincita

L’automobile giunta a F. nella piazzuola davanti all’ingresso di uno di quegli albergucci di provincia, decorosi e puliti anche se non lussuosi, tipici dell’interno della Sicilia, era una vecchia, rumorosa vettura sportiva a quattro posti, decappottabile, un po’ sporca di polvere ma, a osservarne la carrozzeria, ancora in buone condizioni. Ne scese un uomo sui cinquant’anni, ben vestito, alto e snello, grigio di capelli, pallido nel volto quasi emaciato, scattante e deciso nei movimenti. Abbassò e bloccò la copertura a soffietto, tirò fuori dal vano bagagli una media valigia di cuoio, chiuse la portiera a chiave e si avviò rapidamente verso l’albergo, come vi fosse aspettato da tempo.

Il suo arrivo non passò inosservato. I due ragazzi che lì sostavano senza far niente, in quell’ora del pomeriggio in cui il sole batte con furia minore, ma tiene ancora sospese le decisioni della sera in attesa che l’aria diventi più fresca, notarono subito la vettura e il suo conducente.

«Un forestiero» disse uno.

«Una macchina come questa viene da Palermo, o da Catania, o dal Continente» disse l’altro.

«E che ci fa con l’ombrello?» aggiunse il primo.

«Qui non piove quasi mai!»

«Che marca è? … Straniera? … Straniera dev’essere…» continuò il compagno, lasciando che il nuovo arrivato sparisse nell’androne dell’albergo. Poi lentamente si mise a girare intorno all’automobile con la curiosità degli sfaccendati. Era un vecchio cabriolet targato Milano.

La cittadina di F., nel pieno di quell’estate straordinariamente calda, sembrava addormentata. Le case tenevano le persiane chiuse, gli scuri abbassati, le tende distese a fare ombra, a mitigare l’afa che toglieva il respiro e le forze. Le strade erano pressoché deserte; solo qua e là, l’animazione di qualche bar, di qualche ritrovo al chiuso, rinfrescato da enormi ventilatori pendenti dal soffitto.

Pur non sembrando del posto, il forestiero doveva conoscere bene F., che pure negli ultimi anni era cresciuta considerevolmente, estendendosi fino a comprendere senza interruzione le non poche frazioni della campagna più vicina. Erano state soprattutto le rimesse degli emigrati all’estero ad alimentare i cantieri edili: case e casette, interi condomini, magari non finiti in ogni parte, si alzavano ai lati di nuovi tracciati stradali, di nuovi slarghi che aspiravano a divenire, col tempo e coi denari, piazze e giardinetti pubblici.

Nonostante ciò, la parte antica della cittadina, considerata “storica”, e perciò intoccabile, restava quella di sempre: un dedalo di viuzze dal selciato in basalto, con palazzi di non più di tre o quattro piani, raramente restaurati all’esterno, di stile misto tra barocco e umbertino, con qualche ammodernamento novecentesco. La vita, al riparo dalla calura esterna, era in pratica tutta lì. Il forestiero lo sapeva bene. Per questo, preso alloggio all’albergo, rinfrescato e cambiato d’abito, si diresse a piedi in centro. Entrò in un bar, ordinò un caffè corretto con fernet.

Nel caffè, ristrettissimo, il barista, da dietro il bancone, versò due sole gocce di liquore.

«Via, non faccia come se fosse lei il padrone» disse il forestiero. «Ne metta ancora un poco.»

«Ma io sono il padrone!» protestò risoluto il barista.

«Allora sia più generoso» suggerì prontamente il forestiero «ne metta un altro po’!».

Il barista restò un attimo interdetto, la bottiglia ancora in mano, poi scoppiò in una risata.

«Ma tu sei Nino Cimino!» esclamò riconoscendolo di colpo.

«E tu non sei Salvo Mancuso?» domandò Nino chiamandolo anche lui per nome e cognome, come a sottolinearne la precisa identificazione. «Sei sempre il solito spilorcio, eh! Neanche con i vecchi compagni di scuola rinunci al risparmio!»

Era vero, verissimo. Sempre stato così, quel Salvo Mancuso, fin da ragazzo. Per questo, probabilmente, non aveva avuto bisogno di emigrare al Nord, o in chissà quale altra parte del mondo, come tanti suoi compagni di scuola che, dopo gli studi, avevano dovuto cercarsi un lavoro altrove. Ereditato quel piccolo bar dal nonno materno, era riuscito a tenerlo su lesinando sulle consumazioni e sulle dieci lire.

«E la famiglia? …. Tutti bene a casa?» s’informava Nino.

«Benissimo, benissimo. Ma tu, come mai qui, al paese? Vivi a Milano, se non sbaglio… Da quanti anni non venivi a rivedere gli amici?»

Quanti anni? Quindici? Venti? Bisognava farne il conto. Insomma, il tempo di dimenticarselo, il paese natale, e poi, a partire da una certa età, una volta trovata una sistemazione e messa su famiglia, cominciare a ricostruirselo lentamente, nella memoria, come attraverso gli occhi di un altro.

«Ti fermi molto?» domandò Salvo Mancuso.

«Non so ancora. Dipende da un mucchio di cose…»

L’altro lo guardava con aria interrogativa, aspettando di ritirare la tazza vuota del caffè, nel quale, in una pausa della degustazione, per un soprassalto di generosità aveva finito col versare una nuova ancorché scarsa misura di fernet.

«Dovrei regolare alcune questioni di proprietà… Non ho più nessuno qui, a parte qualche cugino. E, non so, vorrei vendere quel pezzo di terra che mi hanno lasciato i miei…»

«Già, i tuoi!» sospirò alzando gli occhi al cielo Salvo Mancuso, sinceramente compreso nel ricordo dei genitori di Nino, morti non molti anni dopo la partenza del figlio per Milano, l’uno appresso all’altro, come per una strana comunanza di destini. «Però» aggiunse subito «un po’ di tempo per una puntatina al Circolo, lo devi trovare…»

«Ah! Il Circolo!» fece mente locale Nino. «C’è ancora?»

«E come no?»

«Si gioca sempre?»

«Tutte le sere, tutti i santi giorni dell’anno.»

«E chi ci gioca?»

«Tutti.»

Certo, bisognava andarci a dare un’occhiata. E poi quel “tutti” significava che, fatte le debite esclusioni per impedimenti fisici o finanziari, tutti i cittadini maschi di F., dai diciotto anni in su, finivano col passare le serate al Circolo Culturale e Sportivo “Giuseppe Garibaldi”. In un paio di sere avrebbe rivisto quanti dei suoi vecchi compagni erano rimasti al paese e quanti vi erano ritornati per passarvi le ferie estive, come anche a lui era accaduto, tutti gli anni, finché erano stati vivi i suoi genitori. E avrebbe potuto così salutare gli antichi amici di famiglia, i conoscenti e i parenti. Soprattutto questi ultimi, senza dover passare a salutarli di casa in casa, famiglia per famiglia.

«Allora ci vieni stasera?» domandò Salvo Mancuso.

«E perché no?» disse Nino. «Lo chemin de fer è stato sempre la mia passione.»

Il Circolo aveva sede al pian terreno di una delle più ampie e più antiche costruzioni della cittadina. Negli altri piani trovavano spazio gli uffici del Comune e della Pretura. Poiché questi funzionavano in pratica solo durante la prima metà della giornata, mentre le attività del Circolo si svolgevano nella seconda, mai vi era stata frizione fra i due livelli del palazzo. Anche quando in una delle sale superiori aveva luogo, in ore serali e notturne, la seduta del consiglio comunale, le voci e le grida dei pubblici amministratori non arrivavano a turbare la soffice confusione del Circolo che, anche nei momenti di massima tensione dei giocatori, non riusciva a intaccare, dal suo canto, l’espressione della superiore passione politica.

Il palazzo sorgeva solitario in fondo a una vasta piazza semicircolare, al termine della quale si apriva il corso principale del paese, contornato ai due lati dalle case del centro storico. Su quella piazza si davano convegno i paesani a tutte le ore del giorno, lì si disponevano ogni martedì le bancarelle del mercato all’aperto, lì si celebravano i comizi elettorali. Ne fossero sorte a decine, nella parte nuova del paese, di piazze più grandi e più attrezzate, nessuna avrebbe potuto prendere il posto di quella, che costituiva il cuore antico di F., il punto di riferimento assoluto.

Dedicato a Garibaldi in memoria dell’impresa dei Mille, il Circolo era, di quella piazza, la calamita maggiore: era nato come circolo culturale e sportivo, ma, come può accadere nei centri di provincia, alla nobile intenzione di congiungere la sanità della mente a quella del corpo era andato sostituendosi il molto più banale conseguimento dell’utile unito al dilettevole per mezzo dell’antica, inesauribile passione del gioco d’azzardo. Nelle sue sale i cittadini di F. avevano trascorso la maggior parte delle ore serali e notturne consumando patrimoni, divorando risparmi, rovinando famiglie, e alimentando naturalmente quel pettegolezzo senza il quale un paese sembra destinato al silenzio eterno. Circolo privato, beninteso, senza scopi di lucro, come recitava il documento istitutivo, la cui copia faceva mostra di sé all’interno di una scoloratissima bacheca della sala principale. E così ben tenuto, per altro, grazie alle quote annuali dei soci, tanto che la suppellettile era sempre in ordine, i locali puliti, i servizi igienici perfino deodorati.

Doveva essere luogo di riunioni e dibattiti, di conferenze e letture; ma un libro che fosse uno, non vi era mai stato introdotto e, se qualche pubblicazione vi circolava, altro non era che il giornale del capoluogo o qualche gazzetta sportiva. Invece, nei pomeriggi faceva da ritrovo agli sfaccendati e ai pensionati in vena di partitelle a briscola, a scopa o a tressette, e la sera diventava il regno incontrastato dello chemin de fer, del baccarà, del trente et quarante, a seconda degli umori e delle sale. La febbre del gioco durava tutto l’anno ma saliva di parecchi gradi a ridosso delle feste di Natale, Capodanno e Carnevale. D’estate, no: il caldo eccessivo, probabilmente o il pensiero di altri svaghi nei locali notturni della costa non troppo distante abbassavano il ritmo ma non la frequenza dei giocatori.

Quando vi giunse, dopo cena, la sera stessa del suo arrivo a F., Nino fu accolto a braccia aperte. Gli amici si erano dati la voce: fra battute sulla giovinezza che passa e informazioni sulla famiglia, avevano preso posto al tavolo più grande della sala principale.

Oltre a Salvo Mancuso, che al bancone del bar si era fatto sostituire dalla moglie, Nino poté osservare molti dei suoi vecchi compagni: Peppino Cataudella, già stempiato e un po’ ingobbito; Giovanni Mezzasalma, grasso e basso; Vittorio Olivieri, baffuto e imponente; Riccardo Ferrara, sempre così mingherlino… Basta! A passarli in rassegna tutti, quanti ricordi e quante malinconie! … Ne vedeva le facce invecchiate e, come lui le andava osservando, capiva che quelle medesime facce non gli levavano gli occhi di dosso. Quindici o venti anni bastano certo a modificare molti tratti del viso. Ma non la fisionomia d’una persona, non il carattere che quella fisionomia riesce a esprimere. Così, per esempio, la faccia scavata di Riccardo, i suoi occhi piccoli e tristi, che cosa potevano significare? Riccardo era sempre stato così: tenace, implacabile, cattivo senza darlo a vedere… E Salvo? Con quella barbetta rada, la faccia gonfia sul collo corto, le grandi orecchie a sventola? A volte era indecifrabile: la sua avarizia, nota a ognuno, non gli impediva di puntare anche somme considerevoli al gioco, e magari perderle…

Chemin de fer, dunque. Il gioco ebbe inizio e tra alti e bassi si condusse fin verso la mezzanotte, quando il banco toccò a Nino. E per una di quelle incredibili combinazioni fortunate delle carte, Nino cominciò a vincere. Era abituato a tali esiti del gioco. Certi sabati pomeriggio, da Milano imboccava l’Autostrada dei Laghi, e via di corsa fino ai tavoli da gioco del Casinò di Campione d’Italia. Non ne era mai uscito con le ossa rotte. Sapeva bene quando tirare o restare con le carte, soprattutto se era lui a far da banchiere. Adesso, però, era il trionfo della straordinarietà. Vincendo molti colpi successivi e così raddoppiando ogni volta la somma messa in banco, Nino cominciò a inebriarsi della sua buona sorte, a invocare la fortuna come a spingerla a stare ancora al suo gioco, a non piantarlo sul più bello. E la dea bendata gli stette al fianco per tutta la notte, fin quando, alle prime luci dell’alba, il custode del Circolo, che faceva pure da croupier, dovette far vuotare il tavolo dopo un suo ultimo colpo fortunato, fra i lazzi e le imprecazioni degli altri giocatori, equamente ripartiti all’indirizzo della fortuna o della scalogna.

La giornata si annunciava, mentre impallidivano le ultime stelle, splendida ma caldissima, come la precedente. Nino si ritirò nella sua camera d’albergo per una doccia e qualche ora di sonno. Ma già all’ora del pranzo era in giro a cercare qualche amico con cui desinare in trattoria, scambiare quattro chiacchiere, informarsi su chi avrebbe potuto acquistare quel pezzo di terra che era venuto a vendere. Proprio pensando di riuscire a concludere l’affare nel giro di pochi giorni, non si era portato dietro la moglie e i due figli, ancora piccoli, lasciati a passare le vacanze in una pensioncina della costa ligure.

Che cosa rappresentava per lui, ormai, quella terra? Nino se lo era domandato spesso negli ultimi tempi: per anni non se n’era fatto un problema. A occuparsene, senza nulla dare e nulla chiedere, era stato un suo lontano cugino che, ormai troppo anziano, non voleva più saperne. Non restava dunque che venderla. I suoi interessi, pensava Nino, erano tutti a Milano, dove stava percorrendo senza difficoltà i gradi di un’agiata carriera nell’industria. Lì aveva casa e famiglia, lì si era fatto nuovi amici, lì i suoi figli sarebbero cresciuti… Che senso aveva ora quella terra al paese?

Bighellonò qua e là, sotto la vampa del sole, ma senza profitto. Per strada c’erano i soliti ragazzi sfaccendati: non incontrò nessuno che potesse essergli utile, né ebbe voglia di andare a cercare qualcuno direttamente a casa. L’unica cosa che gli dava una certa soddisfazione era la vincita strepitosa della notte precedente. Più ci pensava e più gli veniva da ridere. Aveva ripulito le tasche a tutti, indistintamente, e ricordava benissimo, soprattutto, la faccia di Salvo quando questi aveva puntato l’ultimo consistente assegno, subito perso, gridando come un matto uno delle sue abituali invocazioni: «Carte, belle carte, venite dalla mia parte!».

La sfida restava aperta, e la sera, ormai prossima, era pronta a chiuderla o a rinnovarne l’esaltazione vittoriosa. Quando Nino si presentò al Circolo, dopo cena, erano già tutti lì ad aspettarlo, riforaggiati e pronti a dar battaglia. Ma per lui dovevano essere nottate specialissime, se anche in quella continuò a vincere fin dalle prime battute, tanto che verso mezzanotte, nella stizza generale, il tavolo dovette liberarsi per assoluta insolvibilità dei concorrenti. Successe il finimondo: urla, grida, bestemmie s’incrociavano con le voci degli spettatori non partecipanti che si congratulavano col vincitore, gli auguravano altre e più formidabili vincite ai tavoli dei casinò internazionali…

Alla rabbia seguì la malinconia. Usciti a passeggiare nella piazza, dapprima fecero capannelli a tre, quattro persone, dopo cominciarono a diradarsi, a passeggiare su e giù come pecore sperse, per poi nuovamente riunirsi a gruppetti senza un vero motivo, senza alcuna intenzione attiva. Provavano scorno, ma non potevano avercela con Nino, che si era limitato a fare il suo gioco. Chiunque altro si sarebbe comportato nella sua stessa maniera.

Le ore passavano senza che nessuno si decidesse a tornare a casa. Del resto l’aria dell’estate, con quel minimo refrigerio che portava, induceva a restare all’aperto. Ma il rodìo interno non si placava, i musi restavano duri, i visi lunghi, le spalle cascanti fra un andar su e giù per il selciato, con qualche rinnovata esclamazione di disappunto. Nino se ne stava nel gruppo di chi meno aveva perso, ma anche lui cominciava ad avvertire una punta d’insoddisfazione che veniva a turbare la gioia di quella nuova vincita. Non era pietà verso i perdenti. Anche lui, quando gli era accaduto di perdere, aveva provato quegli stessi sentimenti. Ciò che gli dava fastidio era invece l’interruzione del gioco, il non poter più giocare almeno fino a quando le riserve in denaro non fossero state rimpiazzate. Ma per quella notte, e chissà per quante altre ancora, vista l’entità di quel repulisti, non c’era niente da fare. Bisognava rassegnarsi e basta. Si mise a passeggiare su e giù da solo, senza dar retta a chi gli si avvicinava. Poi, tutt’a un tratto, prese la decisione che nessuno si aspettava.

Cominciò a chiamare i compagni e a far cenno d’entrare al Circolo. Nel misto d’incredulità, meraviglia e sollievo generali, prese a restituire i guadagni della serata ai perdenti.

«E così giochiamo!» gridò mentre cominciava a dare le carte.

La ressa degli spettatori ai tavoli si fece allora più intensa, da una sala all’altra si spostavano i perditempo, i tira tardi, gli insonni, ma tutti pian piano finirono col confluire al tavolo di Nino. Si spintonavano, commentavano a frizzi e battutacce le varie uscite, non potevano fare a meno di restare lì come stregati, mentre Nino riprendeva a vincere e ad abbassare le speranze degli altri. Ne ebbe ancora per un’ora; ma poi, come sempre accade nelle cose del gioco, d’improvviso la fortuna gli voltò le spalle. Si rendeva conto che, prima o poi, ciò doveva accadere, e rimase al suo posto ubbidendo al gioco e alle sue spire volubili. Era ormai alle strette e aveva perso quasi tutto, quando con un colpo a sorpresa volle mettere in gioco il terreno di sua proprietà, stimato, seduta stante, per molto meno di quel che valeva.

Che senso poteva avere per lui quel gesto? Freddamente era in grado di sentirlo come una sfida, un mettere a repentaglio qualcosa di sé che non aveva prezzo, che mai avrebbe potuto averne, a considerare il lato sentimentale. Eppure era questo che Nino adesso voleva: sfidare la sua terra per esserne a sua volta sfidato. Come a dire: «Se mi vuoi, non mi lasciare… Se vuoi che io torni ancora qui, non cambiare padrone…».

Era anche una maniera per chiarire a se stesso perché mai fosse venuto, quell’estate, in Sicilia: forse, non per vendere la sua terra, ma per riamarla dal momento che avrebbe potuto perderla per sempre. E nel repentino silenzio che seguì all’operazione, mentre la parola era affidata alle sole carte, accadde propriamente ciò che lui aveva messo in conto: la perdita della terra. A beneficiarne era Salvo, che adesso lo guardava con un sorriso ironico, appena dissimulato dalla barbetta ispida.

«Mi dispiace» borbottò questi come a dire che lui, quanto a un’eventuale restituzione, non possedeva la medesima generosità di Nino.

La sfida dunque terminava così. Adesso, però, che la terra passava in mano d’altri, il tormento della perdita cominciava a superare quello della sconfitta. Nino si alzò di scatto, nel silenzio incredibile non solo di quella ma di ogni altra sala, e senza emozione alcuna rispose:

«Domani, quando vuoi, dal notaio!».

Si avviò all’uscita, ma giunto in mezzo al vano della porta si girò per un saluto collettivo:

«Domani stesso parto. All’anno prossimo, dunque! Adesso, come vedete, ho un motivo in più per tornare».

Poi, rivolto nuovamente a Salvo:

«Sai bene: non c’è gioco senza rivincita!».

L’improvviso acquazzone estivo dal quale, appena in piazza, fu investito, gli parve, ed era, straordinario. Ma non volle aprire l’ombrello che, in quegli andirivieni, non aveva smesso di portarsi dietro. Fu felice di lasciarsi bagnare, soprattutto in faccia, dirigendosi lentamente a piedi verso l’albergo e alzando di tanto in tanto gli occhi all’acqua che veniva giù con furia avversa ma gradita.

Angelo Maugeri