Al momento stai visualizzando Intervista al poeta prof. Domenico Pisana, autore del libro di poesia “Tra speranza e naufragio”.

pisanaAbituati a individuare in Domenico Pisana la figura del saggista autore di analisi critiche nonché operatore culturale in qualità di benemerito  direttore del Centro Quasimodo di Modica, può sfuggire il tener conto della sua eccellente produzione poetica. Socio effettivo del Gruppo C.I.A.I. quindi nostro sodale e collaboratore, Pisana ha accettato di rispondere ad alcune domande inerenti proprio le sue scritture creative e segnatamente in merito al suo recente nuovo libro “Tra speranza e naufragio” (Europa Edizioni, 2014).

Stefania Calabrò

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D.- C’è stato un momento in cui lei ha scoperto o capito che doveva scrivere poesia, questo sicuramente, ed è di questo momento che le chiedo di parlare. Quando è stato, come è stato vissuto.

R.- La sua domanda apre nella memoria momenti legati alla mia adolescenza. E’ fra i banchi di scuola dello storico  Liceo Classico “T. Campailla” di Modica che ho cominciato a scriversi versi. L’input, in quel periodo (eravamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70), mi nacque dal mio docente di Lettere, ancora oggi vivente, che era un fine poeta. Le sue lezioni di letteratura, la lettura  dei versi di autori della letteratura italiana e latina, che egli faceva con grande pathos interiore, suscitavano in me un fasciano ed una attrazione forte. E’ sin dalla mia vita scolastica, insomma,  che è nato l’amore per la poesia.    

D – Le chiedo una sua definizione del concetto di Poesia. So bene che non è possibile definire questo concetto come se fosse un teorema, piuttosto come un momento del mondo interiore che chiede di esprimersi, e proprio per questo le domando una definizione di questo momento come lei lo sente e lo attua attraverso la scrittura.

R – Come bene dice, la poesia , nonostante i tentativi che la storia letteraria ha fatto per definirla,  non si può racchiudere  in un concetto, come in un assioma geometrico: io non le  so dire  che cos’è la poesia, ma so che la poesia vive e canta dentro di me. Il poeta può non sapere che cosa è la poesia, ma sa che egli è abitato dalla poesia, che la poesia lo cerca. “…La poesia – diceva Neruda – venne a cercarmi. Non so dove/ sia uscita, da inverno o fiume…” La poesia  io la sento come una “dilatazione ontologica” del mio essere ,  una dilatazione dell’essenza più profonda di  me stesso che si porta all’esterno come  voce di canto:  “nescit vox missa reverti”, diceva  Catone,  cioè una voce di canto che, una volta emessa, non può più tornare indietro.

Sono fermamente convinto   che nell’attuale civiltà consumistica, nella civiltà dell’uomo robot la poesia  non potrà mai essere devastata da tempeste e che resisterà al tempo. La poesia  non è una entità astratta e priva di radicamento nella storia, né  il frutto  autocompiacente dell’esibizione di  meri sentimenti; il poeta  non è  un ingenuo sognatore, un romantico della bellezza, un declamatore di cose irreali, ma un costruttore di bellezza e di civiltà.     

La storia ha avuto bisogno e avrà bisogno sempre di poeti,  perché la poesia non è una merce deperibile, un prodotto di mercato che il tempo usura; la poesia è un atto dello spirito  e la sua voce  un messaggio di riflessione dal quale nascono domande che il poeta  pone anzitutto a se stesso, e, quindi, a tutti; potranno essere anche oscure le domande che egli fa risalire dall’abisso , ma indipendentemente  dal fatto di essere comprese, non smettono di esercitare una forte influenza nella vita sociale.  Insomma, io credo nella funzione “salvifica e  ri-costruttrice” della poesia , perché questa mira ad aiutare l’uomo ad intus-legere, cioè a leggere dal di dentro se stesso, i suoi rapporti con l’altro, con la società: la poesia deve –  e mi avvalgo delle parole di Quasimodo “rifare l’uomo dentro”: questo è il problema capitale!.

La poesia è, dunque,   un evento creativo, un movimento del cuore e della mente mediante il quale un sentimento, un oggetto, una percezione, una visione, un sussurro, una lacrima, una sofferenza, un naufragio, una speranza e quant’altro la vita offre all’uomo possono giungere dal non essere all’essere; è mettere in libertà il proprio bisogno di comunicare, al fine di porre se  stessi e la realtà di fronte alle verità più nascoste.

D –  Leggendo la recente silloge edita da Europa edizioni, intitolata “Tra naufragio e speranza”, si può arguire che lei si ispira a principi fondamentalmente cristiani.  Può confermarcelo? 

libro pisana R – “Tra naufragio e speranza” è sicuramente un testo epistemologico, un testo che cerca di leggere la crisi dell’uomo contemporaneo nel passaggio dalla modernità alla post modernità. E in questo quadro di lettura, è assolutamente vero che  si ispira al valore della Trascendenza presente in ogni uomo, ma che in me assume una connotazione più ampia, non meramente filosofica, ma teologico-cristiana.

Se guardo oggi il mio tempo, mi accorgo che esso presenta, al di là di tante  positività, parecchie  caratteristiche negative che, nella mia poesia, faccio convergere nella metafora del naufragio. Quello che viviamo, infatti, è il tempo dell’individualismo: non c’è capacità di stare insieme, lavorare insieme  per il bene comune , valorizzare l’alterità, riconoscere l’altro come portatore di ricchezza; la società sembra essere una sorta di  “olimpo degli dei”, dove ognuno è diventato il  dio di se stesso. Quello di oggi è il tempo del nichilismo: tutto è relativo, tutto è un fluire mutevole, non ci sono valori uguali per tutti, paletti di riferimento ; c’è una disgregazione valoriale e culturale che ha messo in discussione la ricerca della verità; non c’è più una moralità oggettiva, ma ognuno ha la sua verità, la sua idea di morale in base alla quale il bene e il male sono divenuti interscambiabili.  E’ ancora  il tempo della frammentazione e della segmentazione: tutto è frammento, segmento; se tutto è frammento, segmento, non serve più la storia, il passato, la memoria; vale solo l’attimo che puoi cogliere, il segmento esistenziale che può darti la gioia del momento, che può soddisfare la tua voglia di effimero. Quando tutto diventa segmento, immediatezza, non serve più domandarsi chi sono, da dove vengo, chi era mio nonno, cosa faceva, dove vado,  ci sarà un futuro, come sarà, cosa posso fare per renderlo migliore, per quali idealità devo impegnare la mia vita.

Insomma, quello di oggi, è il tempo del naufragio: naufragano le relazioni tra uomo e donna, tra genitori e figli, tra marito e moglie; tra giovani e adulti; tra datori di lavoro ed operai. E’ il tempo del naufragio delle istituzioni: politica, aggregazioni sociali, culturali, sindacali, partiti, scuola;  è il tempo del naufragio delle  motivazioni: perché devo impegnarmi, chi me lo fa fare, non cambia nulla. E’ ancora  il tempo del naufragio dei sentimenti nel quale si avverte malessere, conflitto, mancanza di pace interiore;  è il tempo del naufragio della  coesione sociale: viviamo di conflitti, scontri, polemiche, insulti, aggressioni verbali, fisiche. E’ il tempo dei vaffa…

E allora  nei versi di questo mio libro mi domando: perché tutto questo? Dove è da ricercare la causa di questo naufragio spirituale, relazionale, sociale.  Il lettore vi troverà più che delle risposte, delle domande di senso, degli interrogativi che si ispirano, senza alcun dubbio, a principi fondamentali cristiani.

Questa silloge  ha infatti una collocazione giovannea, basata sull’ossimoro buio-luce. Ogni verso  sfugge all’intimismo per diventare “exemplum mirabile” di una riflessione universale. Una silloge in cui le figure retoriche sono funzionali al discorso e il ricorso all’enjambement produce la sensazione del ritmo franto che efficacemente esprime la frammentazione dell’io e dei valori. Ma  tutto è proteso verso l’unica speranza, quella di un vero itinerarium mentis in Deum, in cui si fa strada il canto dell’Amore.

D – Una delle caratterizzazione stilistiche che ci sembra di poter trovare in questa sua recente opera è quella di affidare al verso un suo senso compiuto, diremmo che se si dovesse proporre un esempio del detto dannunziano “Il verso è tutto”, si potrebbe ricorrere proprio a certi forti momenti di questo suo stile. Lei cosa dice in merito?

 R  La caratterizzazione stilistica del mio libro è attraversata sicuramente da alcuni stilemi che sono quasi – come bene dice la prof.ssa Corsinovi dell’Università di Genova che ha fatto la prefazione al testo – “spie segnaletiche” della densità del mio  vissuto  che, non a caso, si affida anche a figure retoriche particolarmente efficaci, come l’iterazione, la geminazione (“conoscibili inconoscibili” ─ “ammalia ammaliando” ─ “sogno sognato”) e la costruzione denominale, che puntano  decisamente al rafforzamento emotivo e concettuale. Il mio intento è proprio quello di imprimere nel lettore,  con perentoria incisività,  immagini difficilmente dimenticabili: “mani di arroganza” ─ “le orecchie stuprate di piacere” ─ “Il mare in tempesta ha vomitato i resti di pochi valori usciti indenni dalle acque” ─ “La risacca ha inghiottito i sentimenti” ─ “ci ha ridotti a moderni aguzzini di una nuova macelleria sociale” ─ “l’aria respira veleni spacciati per odorose essenze di democrazia” ─ “Come vorrei denudare il volto di questo ladro di menti” ─ “Il tempo non ha arrugginito questo chiodo inossidabile alla tua calamita”.

Insomma, nel verso “tutto si compie”, quasi a voler  indicare che ogni parola “dice quel che è”, della realtà, dell’uomo, delle cose, degli oggetti, dell’esistente, senza sovrastrutture.

 D.- Si insiste a sostenere che la Poesia può salvare il mondo, convinzione che contrasta con altra interpretazione quando sostiene che la poesia tende a idealizzare e a proporre l’irrealizzabile, il sogno, l’utopia. Il Poeta in realtà è un creatore di idee che non sempre si legano al mondo reale. Ebbene, secondo lei, come salvare il mondo della realtà con la ricetta del sogno?

R – L’utopia non è, a mio avviso, qualcosa di irrealizzabile, ma qualcosa che si spera si realizzi nel tempo. Il poeta parla non solo per sé ma per tutti, e anche quando dà la sensazione di scavare nel segreto più profondo della sua coscienza, anche quando si rinchiude nel privato dei suoi sentimenti, c è nella sua poesia una forza sintagmatica che si snoda con un respiro universale ed originale.

La poesia è salvifica non perché offre una ricetta, ma perché offre un salvagente  per capire  il senso della vita e della morte, la speranza e il  destino dell’uomo, la caducità dell’essere, il futuro e il valore del tempo, la solitudine e il dolore, l’incapacità di amare e di comunicare. Illuminati sono in tal senso le parole poetiche di  Kahlil Gibran : La poesia è il salvagente /cui mi aggrappo /quando tutto sembra svanire. Quando il mio cuore gronda / per lo strazio delle parole che feriscono,/ dei silenzi che trascinano verso il precipizio. /Quando sono diventato così impenetrabile che neanche l’aria /riesce a passare.”

 La poesia è la liberazione della vita vissuta e sognata  che riesce a rivestirsi di  una forza quasi magmatica, dove c’è l’eruzione   della scrittura che crea, provoca, divelle, placa, denuncia, conforta. Il poeta non è uno che gioca con le parole;  egli usa la penna  non come semplice strumento per scrivere, ma per offrire a chi lo ascolta un’ancora cui aggrapparsi per riflettere, per staccarsi dalla massa, per cogliere il senso critico e più profondo delle cose: insomma il poeta quando scrive, lascia sempre, bene o male,  un “segno” nel lettore, nella società, nella vita di un popolo.

Già nel mondo latino autori come Quintiliano e Prudenzio  facevano ricorso a strumenti per elaborare una metafora della scrittura, usando le espressioni arare in ceram, arare campum cereum, per indicare che la scrittura è incisione, proprio come lo stilo incide la cera e l’aratro incide un campo. Il latino scribere sta  proprio ad indicare un  “incidere”, incidere con una punta aguzza”, mentre il  greco graphô, indica il concetto di “graffiare”.

Il poeta non è un mero idealista, ma uno che “incide e graffia”,  disegnando le coordinate di una umanità incapace di comunicare, di esprimersi, di cantare, di cogliere la diversità, di una umanità  che spesso vive in un appiattimento desolante e privo di novità.  Dalla  penna del poeta  scaturiscono , è vero, sogni e costruzioni di mondi che possono sembrare irrealizzabili , ma i suoi versi possono diventare  una lama a doppio taglio. 

Il sogno non è la contrapposizione al  realismo , e nei miei versi io ritengo di essere un  realista che  apre la parola alla storia, alla società, all’uomo che vive la sua quotidianità esistenziale, dando all’ eloquio lirico un tono di riflessione civile; la poesia, a mio avviso, diventa salvifica quando  sfugge alle alchimie concettuali fini a se stesse, per trasformarsi, invece, in poesia che si fa canto, che si fa “urlo” , “spia” capace di “rivelare l’etre”, cioè l’essere e la condizione dell’interiorità umana, sia a livello universale che sul piano personale.

 D.- Concludo con una domanda che torna alla linea di fede nella speranza che caratterizza questo suo nuovo e più recente libro, cioè a quella che lei definisce ansia di infinito e che altrove, nella lirica di pag. 40 dichiara: “Nell’istante di un sorriso muta l’amore, / si fa strada la pace sognata nei tramonti /scende la magia della fiaba che fa sognare, / s’accende  il cuore di nuove speranze.” Concetti bellissimi ma ideali che subito cozzano con la realtà quotidiana della vita che esige almeno la necessità di procurarsi il cibo, e non dico se frattanto un terremoto ha squarciato un lembo di terra uccidendo migliaia di persone, come recentemente nel Nepal, ma proprio come necessità di alimentarsi per sopravvivere biologicamente. Questo per dire che la sua Poesia ha il fascino della vita ideale e del sogno, momenti dolcissimi, incantevoli ma fuori dalla realtà in cui l’uomo vive immerso. Su questo aspetto lei, da Poeta e da Teologo può dirci molto.

 R – In un tempo come il nostro caratterizzato da urla, frastuono, sospetto, violenza, finzione, corruzione, lamentazioni, miseria, povertà che alimentano   una sorta di “coscienza collettiva” al negativo  ove bene e male diventano interscambiabili, il mio volume “Tra naufragio e speranza” va colto come un invito, specie a quanti si definiscono cristiani,  a saper riscoprire e rileggere  la propria  coscienza  – direbbe Platone nel suo dialogo Teeteto – in chiave di “dialogo interno dell’anima con se stessa” o,   direbbe   S. Agostino, come  luogo di ricerca della dimensione veritativa: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità”(De vera religione, 39). 

Purtroppo nella post modernità  anche i cristiani, spesso, interpretano il senso della  loro coscienza non in termini di “ dialogica morale interiore”, ma esclusivamente conoscitiva e applicativa: la coscienza si è trasformata in un rapporto fra il nostro essere e l’essere delle cose. A ciò ha contribuito sicuramente uno dei più grandi filosofi del nostro novecento , Heidegger (1889-1976), il quale ha cancellato la nozione di coscienza, tant’è che al declino di essa  ha progressivamente corrisposto un’ accentuazione del ruolo sociale e politico delle “masse” e della “gente” nel cui anonimato si è finito per giustificare tutto: giudizi , comportamenti, scelte, discriminazioni, razzismo, aggressioni, sull’onda di una coscienza dominante collettiva che non solo stabilisce  buoni e cattivi, onesti e disonesti, giusto  e sbagliato, bene e male, ma che  divide in innocentisti e colpevolisti, in essere superiori ed inferiori, in intellettuali ed ignoranti,  con il conseguente offuscamento di quella coscienza personale che i padri del Concilio Vaticano II  hanno definito “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo”. Alla  radice del naufragi della post modernità c’è sicuramente lo smarrimento del valore e del ruolo della coscienza personale e collettiva.

Mi permetto, pertanto, di precisare, rispetto alla sua domanda, che nella mia silloge non c’è  un disancoramento dalla realtà; anzi, al contrario, c’è il richiamo ad una vita umana in cui la grossa questione è quella del rapporto fra coscienza personale e coscienza collettiva.

Oggi, sul palcoscenico delle giornate, sfilano, quasi sempre, volti stanchi, abbuiati, tristi, poiché i problemi sono tanti, la vita è irta di difficoltà, il lavoro stanca, i rapporti sociali sono complessi, tesi e conflittuali. Quotidianamente succede di imbattersi nel disoccupato in cerca di lavoro, nell’anziano che vive nella solitudine, nel bambino privo di affetto che gioca sul selciato della strada, nel povero senza pane e senza casa, nel barbone e nell’emarginato o  nell’immigrato che smercia fazzoletti, immaginette e oggetti vari.

Quanti volti! Ognuno con la sua storia, i suoi problemi, le sue fatiche, le sue ansie e le sue speranze. Sono volti che ci incrociano e provocano i nostri volti, cioè  le nostre coscienze.

E allora due domande. La prima: la coscienza del poeta è una maschera dietro cui, come in windows, apre mille files e non sa quale di questi vada per primo approfondito, affrontato, chiuso, eliminato o ancora non utilizzato?  Oppure, seconda domanda,  la coscienza del poeta , è l’incarnazione del suo sentimento d’identità?

Se dovessimo  far tesoro solo della grande lezione di Pirandello,  non ci resterebbe che concludere che la coscienza  esiste se non come maschera che, più o meno consapevolmente, ciascun individuo sceglie di indossare; e quando l’immagine che ciascuno ha di se stesso non coincide con quella che gli altri hanno di lui, l’inganno cade, e l’esistenza umana si mostra in tutta la sua miseria, sospesa nell’inconciliabilità tra vita e forma, tra essere e divenire. Emerge così tutto il malessere dell’uomo moderno condannato alla solitudine e all’incomprensione con l’altro, e destinato a rassegnarsi  ad essere “Uno, nessuno e centomila”, cercando di trarre beneficio dalla maschera che gli altri gli forgiano addosso (vedi Rosario Chiàrchiaro, in La patente), oppure rifiutando la propria identità socialmente connotata e avviandosi in solitudine verso l’inevitabile follia ( vedi l’Enrico IV).

Questo è Pirandello, ma per la coscienza dei credenti il maestro non può essere lui, perché  la  Teologia ci porta invece su altri piani che sicuramente possano dare alla coscienza umana una identità di bellezza: “Guardate al Signore e i vostri volti diventeranno raggianti”. Nella Bibbia pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste un concetto di coscienza legato al valore del   “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri, delle emozioni e del giudizio morale, quindi della coscienza. Il credente cristiano sa che Dio ha scritto la sua legge “nel cuore dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez 14,1-3 e 36,26); sa che Dio “scruta il cuore” e la mente, e loda e biasima gli atti  che lui compie(Gb 27,6).

Nel mio volume la poesia si veste di teologia, indicando il segnale di ripresa e di risalita dal naufragio “nell’aurora e nella speranza”, intesi come ricomprensione dell’alterità, come riscoperta del volto dell’altro. Se un uomo scope l’Altro, scoprirà, pur tra le sue contraddizioni, anche l’altro, con il quale potrà decidere, liberamente, di camminare insieme per costruire la civiltà dell’amore: “Si fa strada il canto dell’Amore”, dico nei miei versi.   

Aurora significa la ricerca di segnali d’attesa, di una nuova inquietudine, di una possibile ricerca del senso perduto. Non è tanto una nostalgia del passato, quanto un aprirsi a qualche possibilità nuova, inesplorata, a un nuovo avvento, ad un nuovo possibile orizzonte di senso. Per me un segnale di aurora è senza dubbio il coraggio di incamminarsi sulla “strada dell’alterità” che deve portare a comprendere  la relazione con l’altro, il tu, il volto d’altri. Da qui il passaggio alla speranza, che  è l’ossigeno della nostra esistenza, e chi non spera non vive: vegeta. Le nubi a volte nascondono le stelle, ma le stelle sono sempre lì che brillano per noi. Basta aspettare che passi il temporale. Ecco perché ho scelto come epigrafe della terza parte del mio volume un testo di Bernanos: “la speranza è una virtù, una determinazione eroica dell’anima. La più alta forma della speranza è la disperazione vinta”. Ed io, come dico nell’ultimo verso del mio libro, cerco la speranza.

 

Stefania Calabrò

E' nata a Milano nel 1985 ma da alcuni anni risiede a Lentini (SR). Laureata in giurisprudenza nell’Università di Catania, collabora alla pagina culturale di un noto quotidiano. È tra i componenti del Comitato interno di redazione di Lunarionuovo.