Al momento stai visualizzando Tra arance e caciocavallo. Inchiesta di una “mosca”

Misi piede per la prima volta a Villalba circa un mese e mezzo fa e notai come in quella circostanza molti manifestassero a gran voce solidarietà per il compaesano che così tenacemente aveva saputo tener testa ai Big della malavita. Ma tra contingenze e non, ascoltai con piacere quanto in particolare disse l’attuale assessore alla cultura: raccontò come spesso sentisse dire di Villalba che fosse “il paese di don Calogero Vizzini”, a tutti lui risponde sempre con orgoglio “No, è il paese di Michele Pantaleone”.

Mi piace iniziare proprio con queste parole il mio intervento, che vuole assumere stesso spirito, stesso intento, nel dare giusto valore alle persone, nello sfatare miti e sottrarre dall’occultamento e dall’oblio proprio quelle fonti per noi vitali, dispensatrici di libertà dalle catene culturali che pure sono espressione solo di parte di un mondo che non potrà mai essere semplificato in quattro categorie giustapposte. Oggi sempre meno si conosce la storia. A maggior ragione perché pecca di relativa vicinanza cronologica, tutto quanto concerne mafia, politica, economia, si è meno propensi a ricordarlo, anche in settori che apparentemente sarebbero esenti da tale tendenza omettente, come la letteratura. Basti pensare ad un episodio che Mario Grasso ricorda in Michele Pantaleone personaggio scomodo. Tutt’oggi ci sono ancora cose che non si devono sapere, mentre molto viene preso come assunto di base. Ma dobbiamo leggere oltre e dobbiamo leggere di più. Si dice che la Storia sia scritta dai vincitori, ma non mancano altre fonti per capire cosa è stato. L’intensa attività di Pantaleone che collima in quello che oggi ci resta di lui ne è la prova.

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Schermata 2015-05-28 alle 12.52.02Il mio personale contributo vuol approfondire una pubblicazione risalente al 1966 edita da quello stesso che fu poi coinvolto, insieme all’Autore, in un processo con accusa di diffamazione, Giulio Einaudi. L’opera di Pantaleone è Mafia e droga, libro-inchiesta dove ancora una volta “la mosca infastidisce gli elefanti”.

Lo storico che è in Pantaleone, con precisione e oggettività, inizia non senza porre le basi affinché il lettore abbia ben chiara la natura del fenomeno mafia, a partire dal legittimato potere feudale, passando per la sua eliminazione male accolta e contrastata con le cosiddette “compagnie d’armi” a difesa della “roba” (con apposito appalto), senza tralasciare i moti del ’48 che preoccuparono i “signori” non poco. Passa poi alle inchieste parlamentari che fanno emergere l’spetto più moderno, ovvero quello dell’accaparramento elettorale al fine di assicurarsi la rappresentanza negli “amici degli amici”. Ripercorre le tappe evolutive del potere mafioso, passando per le “lettere di scrocco” sino alla prima grande migrazione italiana verso gli Stati Uniti d’America, partita già negli anni ’90 dell’Ottocento. Fu allora che nacque la Mano Nera, alias Cosa Nostra.

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Michele Pantaleone compie lunghe e travagliate indagini, supportate da sopralluoghi e da fitte ricerche bibliografiche e non solo. Uno stile fluido si accompagna ad atteggiamento professionale, senza sconfinare in opinionismi. Ci racconta come le nomine dei capi di Cosa Nostra avvenissero a tavolino, durante convegni appositi, e come fossero frutto di calcoli e strategie, coalizioni, giochi di potere, isolamenti (un po’ come nella politica!). Ma già in occasione del convegno del 1928, tenutosi a Cleveland in pieno periodo proibizionista, l’Ordine del Giorno più importante era il seguente: come gestire tutti insieme il contrabbando di alcool, droga e tabacco. Nel frattempo accadde di tutto. Pantaleone scrive: «Benito Mussolini, per conquistare il potere, in un momento aveva chiesto e ottenuto l’aiuto politico, elettorale e finanziario della mafia», «don Calò Vizzini […] aveva contribuito alla marcia su Roma con una somma considerevole». Il cambio d’avviso di un Mussolini dal potere ormai consolidato aveva poi portato alla seconda ondata migratoria, ma si dovette aspettare il 1940 per avere ufficializzati gli accordi che avrebbero infittito il contrabbando. A New Jersey – gangster a convegno – don Calogero Vizzini e Lucky Luciano, che aveva il controllo assoluto sul porto di New York e dunque sul traffico illecito, strinsero un sodalizio che avrebbe dato i suoi frutti tre anni dopo con lo sbarco anglo-americano sull’Isola (è ormai Storia come il noto boss abbia collaborato con la Naval Intelligence Service nello spianare la strada e con il controspionaggio italiano), destinando già allora Castallemmare del Golfo al ruolo di centro direttivo del contrabbando.

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Quale fu l’episodio decisivo che portò polizia americana e italiana a collaborare e a scoprire altra porzione d’ice-berg? L’Autore ci racconta con accuratezza di cosa portò una delle “coppole storte”, Joe Appalachi, a vuotare il sacco, nel 1963, anno in cui fu instaurata la commissione antimafia. Appalachi fece una clamorosa deposizione che durò circa due mesi e fu trasmessa dalla TV americana. Scrisse poi un “libro di memorie, i Valachi papers, che divenne famoso best-seller”, ebbe a sua protezione duecento sceriffi, veniva continuamente spostato, alloggiava in un bunker (Poma, Perrone, 1971). Valachi svelò genesi, struttura, evoluzione, procedure, amministrazione, riti d’iniziazione tra punciuta e scelta del padrino. Molto interessante risulta però essere quanto riguarda proprio il traffico illecito, rotte, trucchi, reti che collegano Estremo Oriente, Medio Oriente, Sicilia, Francia, America, che scambiano materie prime (oppio), mezze raffinate (morfina) e prodotti finiti (eroina). Pantaleone ci spiega come si svolgono gli scambi e quali sono i mezzi per sdoganizzare la merce, tra i più coloriti e insospettabili. Vale la pena ricordarne alcuni. Avvolti accuratamente pochi grammi in involucro impermeabile, venivano abilmente camuffati in merce comune. Alle volte degli USA partivano forme di caciocavallo (fin dall’inizio lavorate direttamente sul pacchettino) o del canestrato pecorino, scatole di acciughe, olio, marmellate, tonno, conserve, persino biancheria. Eclatante fu l’episodio della fabbrica di confetti che vedeva in società don Calò Vizzini e Lucky Luciano, stanziata a Palermo e chiusa in una notte in fretta e furia. Cosa c’era nel confetto al posto della mandorla? Si seppe anche questo. Alle volte di altri paesi europei partivano invece spesso cassette di arance tra le quali ne erano camuffate alcune, molto ben fatte, di cera, ripiene di pacchetti di droga indirizzati al “fruttivendolo di fiducia”. Gli spacciatori «erano in grado di procurarsi […] speciali lasciapassare e licenze del commercio estero o dell’assessorato del commercio» scriveva Pantaleone. Altro stratagemma erano gli ignari emigranti, spesso rintracciati appositamente alla stazione, a cui si consegnavano “doni” da consegnare ad amici o parenti. Il Nord Africa vedeva la sua attività fiorire prevalentemente attraverso aggancio di pescatori agli armatori tunisini. Ma c’erano poi anche altre tattiche, che interessavano un po’ tutti i Paesi, come quella dei fidanzamenti e dei “matrimoni per procura”. Si giunge addirittura all’instaurazione di comitati di beneficenza per raccogliere somme da spedire agli emigrati in difficoltà o con la destinazione alle opere pubbliche come la costruzione di ospedali e orfanotrofi. Molti in morte di don Calò espressero rammarico per il benefattore “gentiluomo” (come lo definirono in un elogio funebre) ignorando cosa potesse celarsi dietro quelle attività e cosa lo stesso Pantaleone scriveva già allora.

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Una notevole amputazione derivò dalla commissione antimafia e da tutto quanto ne seguì, tra provvedimenti legislativi e amministrativi, tra rastrellamenti e operazioni di polizia. Nel 1965 scatta l’operazione antidroga e con essa gli arresti. Tutto ciò passò però per lunghe indagini, fatte di appostamenti e intercettazioni telefoniche (riportate, parola per parola, dal nostro “personaggio scomodo”), ci si servì persino di una spia della Narcotics Bureau spacciatasi per trafficante. Pantaleone a questo punto non esita a fare nomi, cognomi e soprannomi, anche di chi è ancora in vita, passa in rassegna le biografie dei più terribili “pezzi da novanta” approfondendone fedine penali e segnalando persino numeri di telefono, targa della macchina fino all’indirizzo dell’abitazione di Santo Sorge, e sorvoliamo sulle numerose cariche politiche ricoperte, e tutte menzionate, da Giuseppe Genco Russo, successore di don Calò e punto di riferimento in Sicilia per il traffico di droga, mentre «capo del traffico degli stupefacenti al livello mondiale» era Lucky Luciano. Tutti chiamati all’appello, gli arrestati come i latitanti, come pure coloro cha la burocrazia non permetteva di rimpatriare.

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All’epoca in cui scrisse Michele Pantaleone, molti legami ed invischiamenti tra politica  mafia, scrive, non sono ancora stati accertati o non sono emersi. Oggi noi studiamo le sue opere con il senno di poi, alla luce dei trascorsi di mezzo secolo, e non ci risulta difficile trarre riflessioni sgradevoli su quanto è cambiato e quanto no. «L’eliminazione degli aspetti più appariscenti del fenomeno criminale non significa ancora l’eliminazione della mafia» scriveva la “mosca” (che tale era percepita anche dal di allora contesto socio-politico a causa della successiva “morte civile” per accusa di insanità mentale). Ma notasi l’eleganza con cui esplicita l’indignazione e la rabbia propria e di tutti i siciliani che intuiscono e non approvano, comprendono e sopportano la generalizzazione dello stereotipo che da troppo tempo ormai ci accompagna. Pantaleone scriveva «I siciliani […] sono perplessi e preoccupati». Ciò però non va a discapito della sua praticità, che ancora una volta si manifesta con conclusive proposte indirizzate alla commissione antimafia e in generale a tutte le sezioni preposte alla lotta alla criminalità organizzata, denunciando falle nel loro funzionamento.
Ma è occulto il connubio mafia-politica, che è oggetto d’altra trattazione e che però rappresenta quanto di più pericoloso proprio perché quanto di meno visibile possa esserci. E oggi più di ieri soprattutto in ciò sopravvive la mafia, lì dove è brava a nascondersi e “sdoganizzarsi” come le arance e il caciocavallo.

Giulia Letizia Sottile

Giulia Sottile è nata e vive a Catania, dove ha compiuto gli studi e ha conseguito la maturità classica. Laureata in Psicologia e abilitata alla professione di psicologo, non ha mai abbandonato l’impegno in ambito letterario. Ha esordito nella narrativa nel 2013 con la silloge di racconti intitolata “Albero di mele” (ed. Prova d'Autore, con prefazione di Mario Grasso). Seguono il racconto in formato mini “Xocò-atl”, in omaggio al cioccolato di Modica; il saggio di psicologia “Il fallimento adottivo: cause, conseguenze, prevenzione” (2014); le poesie di “Per non scavalcare il cielo” (2016, con prefazione di Laura Rizzo); il romanzo “Es-Glasnost” (2017, con prefazione di Angelo Maugeri). Sue poesie sono state accolte in antologie nazionali tra cui “PanePoesia” (2015, New Press Edizioni, a cura di V. Guarracino e M. Molteni) e “Il fiore della poesia italiana. Tomo II – I contemporanei” (2016, edizioni puntoacapo, a cura di M. Ferrari, V. Guarracino, E. Spano), oltre che nell’iniziativa tutta siciliana di “POETI IN e DI SICILIA. Crestomazia di opere letterarie edite e inedite tra fine secolo e primi decenni del terzo millennio” (2018, ed. Prova d’Autore). Recentissimo il saggio a orientamento psicoanalitico intitolato “Sul confine: il personaggio e la poesia di Alda Merini” (2018). Ha partecipato a diverse opere collettanee di saggistica con contributi critici, tra cui “Su Pietro Barcellona, ovvero Riverberi del meno” (2015) e, di recente, “Altro su Sciascia” (2019). Dal 2014 ricopre la carica elettiva di presidente coordinatore del gruppo C.I.A.I. (Convergenze Intellettuali e Artistiche Italiane); dal 2015 è condirettore, con Mario Grasso, della rivista di rassegna letteraria on-line Lunarionuovo. Collabora con la pagina culturale del quotidiano La Sicilia.