E’ inutile negarlo: il grande pubblico conosce poco di Michele Pantaleone, sociologo, scrittore e giornalista. Conosce poco (o quasi niente) delle sue inchieste, della sua persona, della sua attività. Condannato all’oblio e alla morte civile, senza nessuna possibilità di riscatto, ancora oggi è difficile trovare qualcuno (al di fuori della cerchia degli studiosi più o meno interessati alla sua figura) che conosca il suo nome. O almeno il nome di qualche suo libro-inchiesta. Non si parlerà, in questo articolo, di nessuno dei suoi libri e non ci si soffermerà sulla sua figura tragica. Non si analizzeranno i tentativi di screditarlo agli occhi dei contemporanei e dei posteri. Piuttosto, ci si soffermerà ad analizzare l’unico film realizzato tratto da un suo libro. Si tratta dell’opera “Il sasso in bocca”, film di Giuseppe Ferrara del 1970 e tratto dall’omonimo libro di Pantaleone, uscito quello stesso anno. Anche questo film, purtroppo, resta quasi sconosciuto al grande pubblico. Eppure lo scrittore di Villalba, accreditato nei titoli come consulente storico e curatore dei dialoghi, partecipò attivamente alla realizzazione della pellicola, apparendo anche come comparsa nei panni del barone Tasca. Film d’esordio del regista toscano (prima si era dedicato soltanto alla produzione di qualche corto e di documentari), è una coraggiosa docu-inchiesta e forse uno dei primissimi film di denuncia della criminalità mafiosa in Sicilia e nel mondo. Non stupisce questo esordio col botto di Giuseppe Ferrara per il grande schermo: quasi tutta la sua filmografia, infatti, è costituita da docu-fiction che cercano di raccontare gli intrighi e le vicende dei più grandi casi di cronaca nera in Italia. Così come recita già il titolo stesso del libro, il “Sasso in bocca” è un’opera fortemente simbolica. La pellicola si apre con una specie di prologo, in cui vengono indicati e spiegati i significati precisi di alcuni simboli riscontrati nei delitti attribuiti a Cosa Nostra: la moneta attaccata al petto, che indica la morte di un delatore, una foglia di ficodindia, invece, sta ad indicare l’appropriazione di denaro indebito, mentre i genitali tagliati erano lo sfregio di chi aveva offeso l’onore di una donna. Particolarmente macabro il ritrovamento del corpo con gli occhi strappati e messi in mano al cadavere: l’uomo, in questo caso, aveva visto qualcosa che non doveva vedere. E infine, il simbolo che dà anche il titolo al film: il sasso in bocca, trovato nel corpo di un uomo che ha infranto la legge dell’omertà. Punizioni e simboli da contrappasso dantesco, rituali arcaici e quasi metafisici ma che riuscivano bene nell’intento di essere facilmente comprensibili da tutti, compresa la popolazione locale. Subito dopo il prologo, il film mostra il rituale della “santina”: quando viene affiliato un uomo a Cosa Nostra, viene fatta bruciare una santina nelle mani di quest’ultimo, mentre si pronunciano le parole rituali. Tale scena, tra l’altro, verrà ripresa in un film più noto di Ferrara, quel “Giovanni Falcone” del 1993 girato a caldo subito dopo la morte del magistrato, anche se utilizzata in un contesto completamente diverso: mentre l’uomo brucia la santina pronunciando il suo giuramento a Cosa Nostra, il montaggio parallelo ci mostra il giuramento del magistrato Falcone. Anche in America, inoltre, i mafiosi italo-americani giurano allo stesso modo: il registra ci mostra come avviene il rituale della santina, bagnata col sangue prima di essere bruciata. Il film, dunque, ci dà subito l’idea di ciò che il regista vuole trasmettere: il parallelismo e la stretta connessione fra Cosa Nostra siciliana e Cosa Nostra italo-americana. Assistiamo, dunque, alla presa di potere di Don Calò Vizzini, personaggio chiave della vita e della produzione di Pantaleone: anche in questo caso, la scena è ricca di simbolismo. Il prete non può seppellire il precedente capo, già sistemato nella bara da due giorni, nonostante l’odore della decomposizione e le mosche ronzanti perché non è stato ancora effettuato il “passaggio delle consegne”. Don Calò arriva e mette una mano sul cuore del morto: in questo modo la consegna avviene “ufficialmente”, in presenza di tutti. Il film prosegue mostrando riti e giuramenti che (c’informa il narratore) ormai sono stati abbandonati e abbraccia una tesi sicuramente rivoluzionaria e coraggiosa per un film concepito negli anni ’70: Cosa Nostra non è altro che il braccio armato del capitalismo, la sua forma più violenta e aveva lo scopo di tenere i contadini in condizioni medievali. Stessa cosa stava facendo Cosa Nostra americana: servendosi delle borse e operando in un contesto principalmente metropolitano, il suo scopo era quello di insediarsi in tutti gli affari clandestini dell’epoca, dal gioco d’azzardo al traffico di droga alla prostituzione. Inoltre, i gangster Costello e Luciano, proprio perché “la mafia non perde mai”, appoggiano entrambi i candidati alla Casa Bianca. Interessante la ricostruzione della mafia ai tempi del fascismo: mentre il regime faceva volare i soliti stracci, utilizzando anche metodi di repressione brutali, la mafia che conta si iscrive al partito. Ma è con la figura chiave di Vito Genovese, gangster americano, che mafia e fascismo si alleano. Nel frattempo, Luciano viene condannato per incitamento alla prostituzione in America e condannato dai 30 ai 50 anni. La sua figura, proprio in questo periodo, diventa cruciale: prima con l’operazione Brooklyn e poi favorendo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. E si arriva, forse, al momento clou dell’intera vicenda per comprendere ciò che è stato il rapporto fra mafia e Alleati in quel periodo storico: il lancio dell’oggetto misterioso a Villalba, ovvero la famosa bandiera gialla con la “L” impressa, recapitata a Don Calò che, dopo poco, riceve un carro armato americano nella propria cittadina-feudo mostrando di aver ricevuto il “dono”. Da questo momento, gli Alleati nominato sindaci mafiosi in diverse zone chiave dell’Isola. Subito dopo la fine della guerra, tutto cambia per restare uguale: Lucky Luciano viene scarcerato per i servigi “resi” all’America, nasce il movimento separatista siciliano e il bandito Giuliano diventa un “contatto” della mafia. Unica nota stridente in un quadro dove tutto sembra già definito, è il comizio del sindacalista Li Causi che si becca una sparatoria perché aveva infranto per la prima volta un tabù: parlare al pubblico di mafia. In questa fase del film, però, l’uomo più importante è Salvatore Giuliano. Arruolato insieme a Gaspare Pisciotta come forza armata del separatismo, gli viene proposto l’assalto a Portella della Ginestra in cambio dell’amnistia. Inizialmente, però, Giuliano rifiuta. Poi, invece, il braccio armato esegue. Un paio di considerazioni sulla figura di Giuliano nel film di Ferrara: in questa pellicola (il registra, tra l’altro, utilizza materiale proveniente dal più noto film “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi), il bandito è rappresentato come una figura tragica, quasi vittima di un sistema più grande di lui. Nulla a che vedere con la figura misteriosa del film di Rosi: in quella pellicola, invece, Giuliano viene mostrato quasi sempre di spalle e resta figura arcana e imperscrutabile, lasciando allo spettatore un senso di incertezza che invita a sospendere il giudizio. Tornando al film di Ferrara, assistiamo successivamente al “cambio di casacca” di Giuliano: non avendo ottenuto nulla da quella infamante strage, il bandito si mostra sempre più insofferente e comincia a farsi terra bruciata intorno non rendendosi conto di avere una spia della mafia nel suo gruppo che gli evita di far uccidere i pezzi da novanta. Una sera, tradito dallo stesso Pisciotta che gli mette del sonnifero nel vino, l’uomo viene ucciso e consegnato alla polizia facendo credere che in paese ci fosse stato un conflitto a fuoco. Rimase famoso il titolo del giornalista Tommaso Besozzi sull’Europeo: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Una sorte altrettanto misteriosa toccherà a Gaspare Pisciotta. Al processo, afferma di far sapere a tutti chi erano i mandanti della strage di Portella. Morirà avvelenato nella sua cella. Intanto, l’onorevole Mario Scelba in parlamento dichiara che la strage di Portella non è stato un delitto politico…
Anche la mafia si evolve e cambia metodo in quegli anni: la morte di Navarra, attribuita a Luciano Liggio, segna lo spostamento degli interessi di Cosa Nostra dalla campagna alla città. Nonostante vi sia una vera e propria guerra di mafia in corso e l’esplosione di decine di Giuliette imbottite di tritolo, si deve arrivare alla strage di Ciaculli perché il problema diventi di interesse nazionale. Viene istituita la commissione parlamentare anti-mafia. Ma questo approdo, non è certo una vittoria. Il film, infatti, si chiude parlando di uno dei delitti più nebulosi della storia italiana: il caso Mattei. Secondo quanto ricostruito, infatti, la morte di Mattei non sarebbe stata un incidente, piuttosto un delitto di mafia avvenuto per conto di alcune compagnie petrolifere statunitensi. Il film si chiude con una nota assolutamente pessimistica: “Distruggere la mafia vuol dire isolarla. Isolarla è impossibile”. Nonostante si tratti di un film coraggioso che si dipana attraverso un arco temporale sorprendentemente lungo, rimane comunque un’opera con diversi limiti: la parlata italo-americana oggi ci fa sorridere, si cede troppo spesso al semplice fatto di cronaca nera e si presuppone che lo spettatore conosca molti dei retroscena narrati nel film. Non è certamente un’opera di facile comprensione e godimento. Non consigliato a chi ama i cinepanettoni, gli effetti speciali o il cinema in 3D. Resta comunque il fatto che la tesi portata avanti dal regista rimane una delle più interessanti e, soprattutto, rimane un tentativo forse unico nella storia del cinema di denuncia: raccontare, grazie anche ad un montaggio tutto sommato ordinato, una storia complicatissima di intrighi e misteri ancora oggi non del tutto risolti e non pacificamente accettati.