Ogni uomo (o donna) ha più anime. Non pirandellianamente. Piuttosto, come un prisma, che riflette a seconda di come e dove batte la luce. Non sempre è possibile conciliarle, ma quasi sempre hanno redini tenute dalla stessa mano.
Forse questo problema si è posto Erri De Luca quando negli anni ‘80 ha cominciato a scrivere. Quando a vent’anni di distanza si è curata la riedizione del suo primo libro edito, il romanzo “Non ora, non qui” (1989), lo scrittore napoletano ha aperto la questione identitaria, non solo nel condividere in premessa la propria concezione di scrittura e di scrittore, ma anche nel declinare il proprio particolare modo di esserlo. Ciò non costituisce fattore ovviabile per chi ha reso lo scrivere un mestiere dopo essere passato da ben altro modo di porsi dinnanzi al mondo e alla vita, quello della politica.
De Luca è passato dal grido al mutismo, a partire dalla reticenza in risposta alle pressanti domande in aula di corte d’assise. Solo col tempo riprende la parola, e lo fa attraverso la scrittura, paragonandosi a chi esce di prigione e deve, con passi stentati, re-imparare a camminare dritto senza voltarsi in faccia al muro dell’ora d’aria. Ma se la scrittura gli ridà la parola, l’uomo che vi si scorgerà in trasparenza non è lo stesso. È un’altra faccia di Erri, quella che intrattiene un serrato dialogo col proprio mondo interiore e già da tempo aveva cominciato a sentire il bisogno di ricucire qualcosa che nel tempo si era strappato, di fare i conti col profondo.
Il bisogno di scrivere è una reazione vitale, una risposta all’alienazione a cui costringeva quello che lui definisce il mestiere più antico del mondo, la controparte maschile della prostituta: l’operaio. Nei ritagli di tempo, comincia una “risalita all’origine di una educazione sentimentale nella città schiacciante”. Queste poche parole, sue, sono la formula più compiuta e definitoria per descrivere questo romanzo d’esordio.
Da allora il suo ruolo si è sempre più chiarito ai propri occhi: quello di redattore di storie tolte al campo delle vite, “un racimolatore, uno che passa dietro i mietitori. Raccolgo il tralasciato, lo macino e ne faccio libri smilzi, poco lievito, azzimi all’incirca”. Definizione che – a testimoniarne l’umiltà costante – si aggiunge all’aneddoto dei fotografi che gli chiedono di assumere una posa pensosa, magari con la testa poggiata s’una mano, a cui lui rispondeva “a me la capa non pesa”.
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Il romanzo – nato, come si è detto, da sfogo serrato e pressante – comincia con una finzione letteraria che ha del surreale: tra le fotografie conservate dal padre, il protagonista (Erri) trova uno scatto che cattura l’istante in cui la madre, scendendo dall’autobus, si volta verso l’obiettivo. Da qui, immagina un viaggio temporale e virtuale che gli permette, da adulto, di andare a trovare la madre proprio in quell’attimo passato, ancora giovane, per dirle tutto ciò che in vita non aveva potuto/saputo.
L’ambientazione è… Napoli? Sarebbe più corretto rispondere: la memoria. Uno spazio senza tempo, dove le leggi della fisica sono sospese, dove solo l’io è regista e può far muovere personaggi e scene a proprio piacimento, ma non come in uno spettacolo definitivo, bensì come in una prova tra le tante in cui si cerca di capire come meglio incastrare le sequenze.
Questo slittamento trasversale, con l’intercalarsi tra identità bambina e sé maturo, consente di e approfitta per agganciarsi alle questioni lasciate in sospeso nella propria gioventù. Non si tratta, tuttavia, di semplice rievocazione di accadimenti. È, piuttosto, una rivivificazione di sensazioni e sentimenti connessi agli accadimenti, punto di partenza per la maturazione di una coscienza civile e per una costruzione identitaria.
È interessante notare come l’Autore riflette sulla concezione del tempo così come viene percepito nelle diverse età evolutive, dal tempo fermo degli adolescenti di allora, nella perenne attesa di un domani in cui sarebbe accaduto tutto, alla circoscrizione degli orizzonti temporali del bambino che li racchiude nelle 24 ore d’un sol giorno. Un tempo lento che a tratti cede il passo alla velocità (e il ritmo della stessa narrazione è sintonizzato su queste frequenze, cadenzato e diretto dallo scorrere delle vicende).
Questo particolare contribuisce ad aggiungere quote di soggettività a un racconto che già programmaticamente e intrinsecamente sembra costituire un sogno. Oltre a connotare con tinte personalissime le percezioni, attribuendo alle cose le proprie sfumature di senso, la scelta delle parole, d’altronde, è sovversiva nei confronti del sistema linguistico di riferimento (come ogni poesia che si rispetti).
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“Non ora, non qui”, era solita dire la mamma ai figli, per richiamarli all’ordine o bloccare sul nascere un comportamento sconveniente. Non c’era abbastanza tempo per obbedire, la spontaneità di un bambino non ne prevede abbastanza. “Non l’ho fatto apposta”.
Queste battute sintetizzano il rapporto madre-figlio sino all’età adulta. Un’immagine che riesce meglio a spiegare i sentimenti del protagonista è però quella della diade Gesù-Maria, la probabile ragione per cui – scrive Erri De Luca – “sono rimasto cattolico”. In quella diade vi scorgeva un rapporto molto simile a quello che aveva con la propria madre: “una madre dolorosa e rivendicativa e un figlio che ha creduto silenziosamente di essere stato mandato e scordato dal padre”. La madre del romanzo è dolorosa nel mettere il figlio a parte dei mali del mondo, di quanto di terribile accadeva agli altri bambini; ma, se Cristo poté intervenire a sanare i mali e Maria glielo concesse, anche a costo di metterla da parte come figura genitoriale, diventandone però la risposta, il protagonista non poté mai agire, si assunse un crescente senso di responsabilità e impotenza, “eco e spreco di un padre troppo lontano”.
Viene dipinta un’infanzia all’insegna della mancanza e della perdita. Mancanza di riparazione, innanzitutto. Episodi come le derisioni a scuola a causa della balbuzie, la morte accidentale del migliore amico, gli sfoghi della madre, il cambiamento di abitazione e di quartiere. Quest’ultimo, poi, ha rappresentato un cambiamento della vita stessa, in un passaggio da un contesto iscritto nell’assenza (per il degrado economico e sociale), in cui poter immaginare e creare, a un contesto di agi in cui rinnegare se stessi e non avere nemmeno il tempo di desiderare. Il trasloco e il lutto insieme, nell’incontrare ostacoli alla loro elaborazione, alla loro iscrizione in una cornice di senso, sono ricaduti nella pentola a pressione del non-detto, vuoti d’aria nelle relazioni. Era forse per questa ragione che da bambino rompeva i giocattoli? La morte del giocattolo come proiezione di un’altra fine, altra perdita, in una ripetuta (e dunque illusoriamente controllata) messa in scena dello stesso tema?
Nell’auto-riflessione del protagonista: “per vedere l’attimo in cui era di colpo disfatto (…). Dura poco il gioco. Sapevo che durava quanto l’attimo in cui si sarebbe rotto, o quell’attimo valeva tutta la sua durata precedente. Solo allora il gioco era di chi l’aveva avuto in mano (…) Solo in morte la vita è completamente di chi l’ha vissuta. (…) E’ mia la vita che mi desti? Stasera sì, è mia del tutto”.
E quest’ultima constatazione apre – e al contempo è la conseguenza di quanto sopra – a una comprensione della conclusione del romanzo (che è racchiusa in una scena simbolica, surreale e di grande impatto emotivo, e che naturalmente in questa sede verrà omessa). Se la riappropriazione di qualcosa avviene con la sua morte (e forse con riappropriazione si può allora intendere agenticità, capacità e possibilità di porsi attivamente nei confronti di ciò che ci sovrasta), ci si riappropria di una parte di sé nel momento in cui essa muore, quando giunge, cioè, alla sua fine (morte del giocattolo = fine del suo utilizzo), quando, dunque, la questione si è “risolta” e un ciclo vitale si è concluso. La distanza, che un tempo, marcata dal silenzio (“Novvoglio parole”), viene colmata, “io” cede il passo a “insieme”. La mamma – o meglio, l’immagine muta e sorda raffigurata dalla fotografia – può voltarsi dall’altra parte e riprendere la propria strada verso casa, il tempo può ricominciare a scorrere.
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Note di stile: la scrittura di Erri De Luca a tratti somiglia già in “Non ora, non qui” a una prosa lirica. È una narrazione sintetica, asciutta, un linguaggio ridotto all’osso, quasi minimalista. Forse anche per questa ragione ogni parola è un sasso. Affascinano le immagini con cui permette di entrare nei sentimenti, o meglio: affascina la nitidezza di tali immagini. A ciò si aggiunge l’uso libero dei significanti – a cui si è accennato – a dar voce a coloriture altrimenti inespresse.
Per portare qualche esempio, la casa della prima infanzia stava in un buio viottolo in fondo a “scalini guasti”; quando da piccolo restava solo nella stanza, “la palla mi saltava addosso per la gioia e giocava a non farsi acchiappare. D’improvviso mia madre gridava di smetterla e la palla finiva sotto il letto per la paura”; “gli scoppi improvvisi di risate di chi in classe mi guardava in bocca”, per dire di chi identificava con la balbuzie la intera sua persona; per descrivere la morte dell’amico in mare, per embolia: “scese per scendere, come un’ancora senza catene (…) il mare si accumulava in alto”, e più avanti: “il sole si spegneva dentro il mare. A volte il viola delle nuvole lo spezzava e lo disfaceva prima che toccasse l’orizzonte”, ed è commovente la descrizione del senso di orrore dinnanzi all’insensatezza della perdita.
Ancora: “nuvole confondevano il vento, smembrandosi in corsa e il vento correva e ringhiava da cane pastore per tenerle unite in branco. Verso sera tutte le forme possibili si placavano in linee di rosso dove il sole scendeva e chiamava tutto il cielo a rompere e a sparire”.
Gli occhi azzurri di una bambina: “contro il cielo la sua testa bionda mi guardava con due fessure vuote. Mi parve avesse in faccia due buchi attraverso i quali si poteva vedere il cielo. Forse attraverso i miei si poteva vedere la terra”.
Sono poi rintracciabili frasi che impongono pause, frecce potenti, che restano e possono costituire veri e propri aforismi: “Il possibile è il limite mobile di ciò che uno è disposto ad ammettere”; “Se tu sarai capace di stare senza attesa, vedrai cose che gli altri non vedono (…) quello a cui tieni, quello che ti capiterà, non verrà con un’attesa”; “Molti particolari non formano un ricordo, molti ricordi non costituiscono un passato”; “Essere al mondo, per quello che ho potuto capire, è quando ti è affidata una persona e tu ne sei responsabile e allo stesso tempo tu sei affidato a quella persona ed essa è responsabile per te”.
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Erri De Luca si affacciava nel 1989 al panorama letterario nazionale con una personalità propria, da meridionale che trova spazio espressivo nella formula del romanzo moderno, unendo anche in questo connubio – meridionalità e indagine del profondo – le molteplici facce del suo spirito, che più avanti si declinerà anche col duplice impegno pubblico e privato, attraverso lo strumento della penna.
Giulia Sottile