«All’anima importa l’armonia
e lo stesso fa il mio spirito: danza»
(Luigia “Pathos” Ferro, Micropsichia)
È così che voglio pensare a Luigia Ferro. Come una ballerina. Non so se abbia mai danzato col corpo, di certo lo ha fatto con il suo mondo interiore.
Non ho mai avuto modo di conoscerla bene e poche sono state le occasioni per scambiare due chiacchiere. Solo questo avevo capito quella volta: c’era una ragazza che non stava ferma un attimo, racchiudeva un’officina ad orario continuato e da fuori si potevano vedere le scintille. Non scenderò nell’enumerazione dei suoi talenti, duttile ed eclettica quale era, perché a questo ci penserà chi l’ha conosciuta davvero. Ho invece provato a supplire al vuoto accedendo per altra porta, quella che notoriamente vela e svela: la poesia. Conscia del fatto che non può che trattarsi, anche questo, di un frammento, ne adotto la prospettiva, partendo alla ricerca di Luigia tra le pagine della sua silloge poetica, pubblicata tre anni fa. E lo farò parlando al presente perché si rende tale attraverso le sue parole.
Come una ballerina che si rispetti, non si separa dalla sua musica, con tutte le parti che la compongono dal ritmo al suono, tra assonanze e allitterazioni. Ma è anche un’equilibrista, in un circo fatto di facce a volte distratte a volte no, concentrata nell’esecuzione di «giochi fatti col fato/ per asciugare le ali/ o per morire». Un equilibrista che si rispetti va in cerca del suo equilibrio, per non cadere, soppesando i piatti della bilancia e sanando conflitti, in un mondo che allatta e al contempo cerca di cambiarti, dove «non è lecito godere». Tema spinoso, questo. Soprattutto per un equilibrista. Si pensi per il poeta! Smettendo di scegliere da dove pendere, la contrazione fa filare dritti coscienti di farlo. Ma al poeta non si può tappare la bocca, l’aria uscirebbe dal naso, dalle orecchie. Il poeta ha l’ultima parola sempre e comunque, perché guarda dove nessuno penserebbe mai di andare a sbirciare. Lui vi arriva dritto con sicurezza. Così Luigia scrive «del piacere (…) temo la gratitudine», «salgo sui cristalli delle tue risa», fissando nell’aria, come fotografia ad alta definizione, «un’esplosione di talco». Anche questi sono frammenti, schegge di rame, come sottotitola e dichiara programmaticamente in una nota al testo, nell’ottica di assecondare la frammentazione dei tempi moderni, che ostacola la possibilità di cogliere ogni cosa, persino se stessi, nella propria interezza; ma rappresenta anche un antidoto allo sbigottimento, al senso di smarrimento e al rischio di intolleranza dinnanzi alla portata dell’intero. È «un invito a riflettere sulla propria sfera emotiva e le sue parti più piccole», scrive Luigia Ferro, e da qui il titolo che sta per “colei dai bassi sentimenti”, «in quanto non v’è modo di rendere l’emotività “minima” se non isolando i particolari». Come dire di potercela fare, ma a piccole dosi per favore. A schegge.
E con questo spirito si va incontro alla propria essenza, alla maturazione e alla propria femminilità. La donna e il femminile fanno compagnia volentieri al nostro amico sul filo, in Micropsichia, passando per il corpo a riposo o trasfigurato tra crepe e fossi, mai egocentrico (nel senso di egocentrato) bensì perennemente in relazione. L’altro diviene termometro, specchio, in cui riconoscere i segni degli anni e di quegli stessi sentimenti racchiusi in schegge per poter essere contenuti. D’altronde, lei stessa dice di sé di essere una «meteora empatica», e la meteora cos’è se non una scheggia? E di empatico ha tutto. Innanzitutto la spinta verso. È lei che fa sempre il primo passo, è lei che fa le domande, espone richieste, tende l’orecchio. Lei è protesa. Cerca l’Altro, ma cerca anche sé attraverso l’Altro. «In te mi sdoppio (…) mi rincorro. (…) Non mi so riconoscere,/ temo e svanisco». Ma non si ferma. Ricomincia. «Lo sgranare volti/ come rosari/ è, per me, vita./ Moltiplicando/ i miei occhi a ogni riflesso». Ogni ballerina ha il suo specchio.
In fondo, la soluzione ce l’ha. «Potrò superare ogni specchio/ se, nei riflessi opachi/ dei miei nomi sulle vostre bocche,/ mi darete una casa. (…) Potrò ridere d’ogni crollo/ se nella viva morte/ dei vostri pensieri o sogni/ sarò eterna». Mi sento ridicola nell’aggiungere parole alle sue. Aggiungere parole alle poesie è ridicolo. Ma come non dire, a costo di sembrare banali, che in questi versi, e nell’intera silloge, è racchiusa una richiesta d’amore? In realtà ce lo conferma poi lei stessa, nel modo caro alla poesia che, come già detto, vela e svela, celando la simbologia in un elemento posato lì quasi incomprensibilmente. Perché schegge di rame? Perché il rame ci riporta, da bravi alchimisti, al pianeta Venere, associato alle emozioni e all’amore. E tutto torna. Torna la richiesta di abbracci, di amare i difetti («bacia ogni urlo/ che se soffro del tuo soffrire/ non ti è lecito biasimarmi»), di non mentirle a costo di piangere, torna lo spirito femmineo che sfocia nel desiderio di maternità, che prima d’ogni altra cosa è desiderio e in quanto tale motore generatore, in una fase della vita in cui la ballerina sta ancora provando la coreografia da portare sul palco per lo spettacolo finale. Così «Ho lo stesso nome su scarpe più alte/ ma non mi sento donna (…) Ti chiedo giungesse mia madre/ ti chiedo: quand’è che sarò madre?», «Godo del travaglio/ chiamato speranza», desiderio che cova all’ombra di un senso di mancata corresponsione, su quello stesso filo teso tra desiderio e incontro («Chiedo, ancora: “Quando?”/ ma taci e non mi vedi»). Desiderio e senso di colpa nel desiderare (ancora l’illecito godere), come l’aver voluto sfidare gli Dei, la «mal celata invidia dell’Universo», peccando di tracotanza, con l’aggravante che «non v’è un Dio che non ami,/ per questo cadrò», noi aggiungiamo per mano di un «amore/ andato a male».
Resta, tuttavia, instancabile il protendersi verso, anche nel buio, che non è mai fine a se stesso, ma si fa preludio. L’uomo è fatto di notte, scrive, è contenitore buio, ma «per miracoli iridescenti»; e «tra gli intestini tuoi/ oculari, tumori di buio rappreso» scorge «scaglie di sole». A conferma delle perenni contraddizioni presenti nella poetessa, alle quali si aggiunge il «demone interno/ il Demiurgo», che è scintilla di vita? Motore rigenerante, nucleo in potenza, ideale allevato, ennesimo frammento da integrare nel complicato puzzle? Non importa quale sia la risposta. L’uomo è una passeggera contingenza, un «varco», una «soglia».
«Non vi è che Fede/ nel decidere un saluto».