Al momento stai visualizzando La solitudine dei “numeri meno”

Mai come in questi anni l’imperativo “pensa positivo!” è stato usato tanto e inopportunamente.

A quanti di noi non è successo di sentir dire “Pensa positivo” e quante altre volte “pensa a chi sta peggio di te”…

Certo al mondo ci sarà pure una persona che oltre ad essere depressa, è stata lasciata dalla compagna, licenziata, affetta da male incurabile… ma non è sulla possibilità di stare peggio che vanno inoltrate le riflessioni sul perché si stia male bensì sull’attualità della sofferenza. Non sempre bisogna spostare lo sguardo dalle ferite per stare meglio. Anzi. Osservando la ferita si può meglio capire quanto sia profonda e come intervenire. E allora, perché se si è giù di morale, non bisogna pensare al perché si è giù di morale? Perché bisogna volgere lo sguardo altrove? Probabilmente perché se si poggiasse lo sguardo su una ferita, potrebbe fare impressione, o ritornare il ricordo della caduta. E se la ferita è narcisistica è peggio ancora: il non guardare diventa una modalità difensiva strategica che salva (apparentemente) dalla percezione del dolore interno, attraverso una sorta di autoinganno che ritroviamo nell’antico detto “occhio che non vede, cuore che non duole”. Meglio voltare lo sguardo altrove e non fermarsi ad osservare. Meglio intraprendere frenetiche corse.

Che il cuore non faccia male, però, è un falso. Già Freud nel 1915 scriveva che “la pulsione non può essere vinta con la fuga”[1] ed oggi, nonostante i costanti moniti che ci invitano a moderare le frenetiche corse quotidiane, il fare è diventato una difesa costante e condivisa che si ricostituisce ogni qualvolta si ripresenti la possibilità del dolore.

La verità è che più si agisce, meno si pensa.

L’agito è diventato una difesa contro l’insorgere di un sentimento ostile che ha a che fare con la negazione dell’invidia.

Più è forte il bisogno di fuggire dal dolore, più si agisce. La violenza, la rabbia, a cui assistiamo quotidianamente, sono esplosioni di agiti dettati da pulsioni che hanno trovato un destino “nell’attacco distruttivo dell’altro”.

Questo è quanto deve essere accaduto a quel gruppo di minori che a Napoli non ha esitato a colpire un ragazzo, con le catene, all’uscita della metropolitana, pur di impossessarsi del suo cellulare. O a tutti quegli uomini che perseguitano le loro ex compagne colpevoli di essersi sottratte allo schema vittima-persecutore.

Senza voler escludere dall’analisi dei fatti il degrado delle periferie e i molteplici fattori socio-culturali sottostanti, potrebbe essere d’ausilio leggere queste violenze come “attacchi ad oggetti” dettati da una forte componente invidiosa, da una furia cieca diretta alla distruzione di quanto fortemente invidiato. Come se, eliminando dal campo visivo l’oggetto desiderato, si potesse eliminare la fonte della rabbia, un’invidia non riconosciuta, per il cellulare nel primo caso, per la libertà nel secondo.

Entrambi i fatti nascono dalla difficoltà nel guardare “oggetti dotati di buone qualità” non possedute e dalla difficoltà nel riconoscere quanto si sia invidiosi.

L’invidia è un sentimento costituzionale, primitivo che nasce con l’uomo, dentro l’uomo e si evolve con esso. Presente nella storia della letteratura, come solo pochi sentimenti.

Faticosa e pretenziosa la ricostruzione storica degli scritti (Aristotele, la Bibbia, Dante). Mi rivolgerò pertanto ad altre fonti, forse meno importanti ma altrettanto efficaci: Cenerentola, alternando citazioni ora dalla fiaba originale ora dal cartone di Walt Disney.

Sappiamo tutti che Cenerentola era una giovane e bella fanciulla costretta ai lavori più umili dalla matrigna e dalle sorellastre che invece erano – Belle e bianche di viso ma brutte e nere di cuore[2] -. Erano solite mischiare nel piatto del pranzo di Cenerentola ceneri e lenticchie cosicché prima di poter mangiare la giovane ragazza doveva sceverare le prime dalle seconde, il cibo dalla sporcizia, ovvero il buono dal cattivo. Ben le ha rese nel suo cartone Walt Disney dove le sorellastre, Genoveffa e Anastasia gareggiavano tra loro per accaparrarsi il primato della goffaggine. E a nulla bastavano gli sforzi della madre nel tentativo di educarle all’amore per la musica: le loro esercitazioni disturbano anche il buon Tobia, il cane del palazzo.

La matrigna, non potendo tollerare il confronto tra le sue figlie e Cenerentola, relega quest’ultima nelle cucine, la veste di stracci, la costringe a vivere in una stanzetta in cima alla torre del palazzo, escludendola da un contesto di relazioni nel quale avrebbe potuto insidiare l’ascesa sociale delle figlie, il loro fidanzamento. Nonostante l’isolamento a cui è costretta Cenerentola, sono le sorellastre, però, che ci appaiono come figure pateticamente sole. Mentre le due non fanno altro che battibeccarsi, Cenerentola intreccia relazioni con topi, galline, uccellini e in genere con ogni creatura vivente nel palazzo, con una buona disinvoltura, creando relazioni, legami, scambi.

Dalla favola originale dei fratelli Grimm:

“una volta il padre, prima di andare alla fiera, chiese alle due figliastre che cosa dovesse portar loro. – Bei vestiti, – disse la prima. Perle e gemme, – disse la seconda. – e tu Cenerentola, – egli chiese, – che vuoi? – Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno, coglietelo per me”[3].

E il padre portò dalla fiera perle, gemme, vestiti ma ben sappiamo che questi doni non bastarono a colmare la bramosia o l’avidità delle sorellastre perché non sempre il possesso di un oggetto, per quanto prezioso sia, aggiunge prestigio alla persona che lo possiede. Perché il possesso di un oggetto prezioso non comporta il transito delle qualità preziose dell’oggetto al possessore che molto verosimilmente, rimane quello che era prima. Semmai si potrebbe affermare che l’acquisto di un oggetto prezioso potrebbe nascere “dal bisogno di doversi sentire” come l’oggetto, cioè prezioso. E, comunque, le sorellastre rimasero sempre quelle che erano, misere e invidiose perché il possesso di gemme e perle non risolse il sentimento invidioso, lo sedò.

Cenerentola, invece, dopo aver ringraziato il padre, si recò sulla tomba della madre e vi piantò il ramo di nocciolo che si trasformò in una “bella pianta”. Senza dilungarsi in superflue spiegazioni sulla differenza tra i due stili di relazione, si può affermare che mentre le sorellastre erano disposte all’accumulo, alla bramosia, all’avidità, (succedanei dell’invidia), Cenerentola si dispone al dare. Le prime si legano alle cose; la seconda alle persone: al padre, al ricordo della madre.

Poco sappiamo della vera madre di Cenerentola ma Disney ci regala, attraverso la fata Smemorina, un ritratto di sostituto materno, generoso nelle forme e nel cuore, che realizza i desideri della giovane fanciulla trasformando topi in baldi destrieri, la zucca in carrozza, così come una mamma sufficientemente buona trasforma con il latte e con le sue cure l’incubo della fame in beata pace.

Della matrigna sappiamo, invece, che era una donna incline al comando, furba, astuta, cattiva che, incapace di guardare Cenerentola come figlia, sorella, donna, la spoglia del suo status e la segrega fuori dalle “stanze ufficiali” del palazzo. La verità è che “non la poteva vedere”.

Perché se la fortuna è cieca, l’invidia è accecante.

Il vocabolario Treccani[4] definisce il termine invidia come un sentimento spiacevole e acrimonioso verso chi possiede un bene o una qualità che si vorrebbero per sé, deriva dal latino invidere, composto da in negativo e videre = guardare, cioè guadare male.

Infatti, sia nella fiaba originale dei fratelli Grimm che nel cartone di W. Disney, Cenerentola, al ballo, non viene riconosciuta né dalla matrigna né dalle sorellastre pur… “avendo un’aria vagamente familiare”.

Il pensiero che, dietro quella bella fanciulla potesse celarsi Cenerentola, per la matrigna era un “pensiero impensabile” che ne incupisce il volto e ne riempie gli occhi di livore, rimane cioè sensazione, accede al corpo come un segnale di pericolo ma non alla mente, alla piena consapevolezza.

Nell’invidioso, la sola percezione di una qualità nell’altro produce una frustrazione, un rancore che può esprimersi o nella forte squalifica dell’oggetto – l’uva acerba – o anche alla distruzione dell’oggetto,

– Cenerentola-. In entrambi i casi, la mente invidiosa è costretta ad una rimodulazione cognitiva dell’esperienza nel tentativo di illudersi che “se l’occhio non vede, il cuore non duole”. Oggi, ben sappiamo, però, che quand’anche il cuore non dovesse far male, un’ulcera è sempre pronta dietro l’angolo!

 

In psicoanalisi, il concetto di invidia è stato introdotto da Freud con la sua tanto discussa “invidia del pene” che insorge con l’Edipo e fonda lo sviluppo psicosessuale. E’ stato un concetto duramente attaccato dal movimento femminista negli anni 60 e 70. Oggi, molti autori sono concordi nel ritenere che dietro l’invidia del pene sia giusto scorgervi l’invidia nei confronti del potere, del potere maschile e della capacità dell’uomo di incidere, con la propria forza e virilità in ambiti privati e sociali. Freud, comunque, rimane il primo ad aver capito che dietro grandi idealizzazioni si nascondono grandi invidie trasformate nel loro contrario.

Melanie Klein, psicoanalista postfreudiana, considera l’invidia come un sentimento primario e costituzionale capace di sfociare in quadri patologici importanti, qualora l’ambiente non ne consenta una sana e giusta evoluzione; viene descritto come un sentimento di rabbia nei confronti di una persona che possiede ciò che altri non possiedono; in genere implica un rapporto con una sola persona ed è riconducibile al rapporto con la madre, o meglio con il seno materno.

Il primo oggetto con cui il neonato stabilisce una relazione è il “seno materno che nutre” per cui appare ovvio come, per il piccolo bambino sia “l’oggetto di primaria importanza”, attraverso e con il quale sperimentare, contenere e veicolare percezioni, emozioni, fantasie e affetti che con l’esperienza verranno introiettate. Per “introiezione del seno” si intende, infatti, l’appropriazione di uno schema di relazioni che si esporterà in giro per il mondo e per tutto il resto della vita.

Il seno che nutre è portatore di ricchezza, di bontà e di fiducia. Il seno che non nutre (la mamma assente) é denominato cattivo perché trattiene qualcosa per sé, priva il neonato di qualcosa, di una gratificazione, di un appagamento e lo espone alla frustrazione. La privazione dalla bontà genera il primo sentimento di invidia che potrà essere rivolta al seno-mamma attaccandolo, rifiutandolo.

Il seno, per la Klein, è un contenitore di simboli che si organizzano grazie all’esperienza con la madre e con l’ambiente. Se buono, fornisce al bimbo la chiave di accesso alla creazione di relazioni, al sapore della bontà e della gratitudine “per essere stato appagato”. Se cattivo, assente, di contro, fornirà la base per l’odio, la cattiveria, l’invidia “per essere stato privato”.

 

Nella vita dell’invidioso, e nel suo campo visivo, ci sarà sempre un altro che possiede ciò che lui non ha (come se

Melanie Klein (1882-1960)

fosse “il seno fuori che si ripete nell’altro). Sarà quest’altro che diventerà “l’oggetto dell’attacco”, l’oggetto designato per la proiezione della rabbia derivante dall’esperienza privativa antica, dalla frustrazione per l’esperienza di non essere stato accolto da quel seno al tempo assente, periferico o distratto.

Maggiore é lo scarto tra quello che l’invidioso non ha e quello che l’invidiato ha, più feroci saranno gli attacchi verso quest’ultimo.

Nei casi più gravi l’altro viene spogliato anche della dignità di “altro soggetto” per diventare “oggetto”, cioè quello che non ho: come nel sogno, l’altro diventa portatore di plurimi significati condensati in una rappresentazione; e non è più percepito “persona/altro diverso da me”, bensì “una parte di un qualcosa mai avuto, rabbiosamente mai avuto”.

Per cui più si guarda fuori, meno si guarda dentro.

E’ sempre più facile identificarsi con Cenerentola piuttosto che con le sorellastre!

 

Se l’invidia è costituzionale, affermare di non essere invidiosi equivale a dire una bugia, eretta come bastione difensivo per arginare l’irruzione del pensiero vero “sono invidioso e non sono capace di guardare la mia mancanza dentro”.

Bion (psicoanalista nato in India ma di adozione britannica) scrive in “Attenzione e interpretazione” che il ricorso alla bugia ostacola e distrugge ogni forma di legame e di relazione in quanto si interpone tra le persone proprio come una parete divisoria, per provocare, accusare, falsificare e mistificare la vera realtà. Il bugiardo, costretto alla costruzione del falso, non potrà mai essere un uomo libero perché sarà sempre perseguitato dal bisogno di nascondere la verità, dalla cui aperta manifestazione dovrà sempre difendersi perché sentita fortemente minacciante. Allo stesso modo, l’invidioso non sarà capace di relazioni dirette e franche perché perseguitato dal bisogno di celare la sua invidia (o attaccando o idealizzando), perché incapace di esprimersi per quello che è. Potremmo quindi considerare l’invidia come l’espressione di un deficit dell’esperienza dell’essere Sé [5]al mondo, di uno statuto identitario fragile.

Se uno non ha nulla, non è nulla”[6].

Erich Fromm, già nel 1976, in “Avere o essere” scriveva che il concetto di identità non si sviluppa più lungo l’asse della promozione dell’esistenza di un’attività interiore (essere, essere consapevoli) bensì lungo l’asse dell’accumulo di oggetti (avere, possedere).

Con circa 40 anni di anticipo, coglieva uno dei nodi principali del disagio attuale, ovvero di quel vuoto identitario, di quella fragilità data dal fraintendimento voluto e alimentato dalla società consumistica per la quale il soggetto viene identificato con quello che ha.

Nel saggio il consumatore viene definito “un lattante che strilla per avere sempre il biberon”, biberon prontamente offerto proprio per incrementare i consumi e creare bisogni, per lo più falsi. Sono tanti, oggi, i tipi biberon ai quali il consumatore si attacca. Uno di questi è il centro commerciale: grande, luccicante tanto attraente quanto spersonalizzante, la folla si attacca ad esso con la stessa costanza con la quale il neonato richiede il latte e con lo stesso moto con il quale le sorellastre di Cenerentola chiedevano al padre perle e gemme. E quando il consumatore, dopo un estenuante pomeriggio trascorso dentro il centro commerciale, scopre che il “latte venduto” altro non è che un brutto surrogato del vero latte, dallo scarso valore nutritivo, gli si prospettano due alternative: la prima, riflettere sul protrarsi della sensazione di fame nonostante gli acquisti; la seconda, ritornare al centro commerciale e acquistare un nuovo oggetto, reiterando l’inganno. E rimettendosi in moto.

Nel cartone di Walt Disney, alla notizia che il messo del re busserà ad ogni porta per ritrovare la giovane fanciulla che calzi la scarpetta di cristallo, le due sorellastre, che stavano dormendo, si producono in un fare tanto agitato quanto scomposto perché sollecitate dalla madre a prepararsi e vestirsi in attesa dell’arrivo del gran duca Monocolao.

Nessuna delle due si dimostra capace di un movimento profondamente autonomo e organizzato; sono costrette a rivolgersi a Cenerentola per potersi vestire, agghindare in tempo. Il ritratto che il cartone ci fornisce è quello impietoso di due ragazze sgraziate, emanazioni della volontà materna, a cui le due si rivolgono nel bisogno in una costante “relazione di utilizzo dell’altro”.

Se Fromm scriveva che se uno non ha nulla non è nulla, oggi si potrebbe scrivere che se uno non fa nulla non è nulla.

L’agire è una difesa contro la sensazione di annichilimento che si percepirebbe qualora si iniziasse una riflessione “sui personali segni meno”.

Il fare compulsivo annulla l’introspezione, l’osservazione del mondo dentro e del mondo fuori. E’ parente del precedente “pensa positivo” perché deviante rispetto alla vera e profonda esigenza del “pensare e basta” perché spinge e sposta la riflessione verso il fraintendimento. Nega il pensiero, la riflessione sul bisogno e sulle mancanze vere.

 

  • Il gruppo di ragazzi di Napoli aggredisce il ragazzo con il cellulare perché “il non avere” sancisce “la presenza di una mancanza intollerabile”

 

  • Lo stalker aggredisce l’ex compagna perché la “di lei assenza” sancisce una “di lui mancanza”

 

L’agito violento sancisce una presunta supremazia sull’oggetto invidiato e il presunto risanamento di una ferita narcisistica (io non sono niente, io non valgo niente), trasformando, illusoriamente, il segno meno in più.

 

Il pensiero invidioso non è un pensiero libero perché centrato sull’inseguimento della ricchezza altrui ed è costantemente proteso al controllo dell’altro.

Riuscire a dire “io sono invidioso” equivale a tradire il mandato della società attuale che vuole l’uomo felice per l’ultimo acquisto al centro commerciale, svelarne l’inganno.

 

Negli stessi anni in cui Fromm scriveva Essere o Avere, Giorgio Gaber cantava:

nel dubbio mi compro una moto

   Telaio e manubrio cromato

   Con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani

    Far finta di essere sani

   Far finta di essere insieme a una donna normale

   Che riesce anche ad esser fedele

   Comprando sottane, collane, creme per mani

   Far finta di essere sani

 

E del resto, non è molto più conveniente indirizzare l’invidia delle nuove generazioni verso ultimo modello di cellulare piuttosto che verso il sistema scolastico dei paesi scandinavi?

Quando stavano per esser celebrate le nozze, arrivarono le sorellastre, che volevano ingraziarsi cenerentola e partecipare alla sua fortuna. E mentre gli sposi andavano in chiesa, la maggiore era a destra, la minore a sinistra di Cenerentola; e le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi all’uscita, la maggiore era a sinistra e la minore a destra; e le colombe cavarono a ciascuna l’altro occhio. Così furono punite con la cecità di tutta la vita, perché erano state false e malvagie…

Anna La Rosa

 

Bion W. R., Attenzione e interpretazione, Armando, 1982

Freud S.(1917), Opere, vol. VIII, Boringhieri, 2003

Fromm E., Avere o essere, Mondadori, 2001

Grimm Jacob e Wilhelm, Fiabe, Einaudi, 1983

Klein M., Invidia e gratitudine, Giunti, 2017

Scoppola L. L’esperienza di essere Sé, Franco Angeli, Milano, 2004

[1] Freud S., (1917): OSF, 1915, 8, pag. 15

[2]  Grimm J. e W., Fiabe, pag. 21

[3]  J.e W. Grimm, op. cit., pag  21

[4]  Vocabolario  Treccani, www.treccani.it

[5]  Scoppola L., L’esperienza di essere Sé,

[6]  Fromm E., Avere o essere, Mondadori, Milano, 2001