Letture utili per saperne di più
Brent Staples l’ha ricostruita in un lungo articolo sul New York Times. Ed è una storia che, man mano, ha assunto tutte le sembianze del razzismo violento per porre un argine all’ondata d’emigrazione dall’Europa. Gli italiani ne furono, per più di quarant’anni, uno dei bersagli principali. Vennero linciati, descritti come “bruni di carnagione”, chiamati Guinea e derisi nelle strade, discriminati nelle scuole, nelle chiese, nei cinema, nelle organizzazioni sindacali. E ritenuti esportatori di mafia. Vennero paragonati ai neri e allo stesso modo trattati.
Quando tutto inizia, l’America è quella del suo primo presidente: George Washington. Il Congresso vuole farne una nazione bianca e culturalmente omogenea. Soltanto i bianchi liberi potevano diventare cittadini americani. Quanto agli africani, erano in maggioranza relegati nella categoria degli schiavi. O dei bruti, dei criminali dalla nascita. Contro cui venivano consentiti sia il linciaggio che la persecuzione e l’omicidio.
La campagna diffamatoria promossa dal New York Times non risparmiava gli italiani. “Da quando New York è stata fondata – si poteva leggere in un editoriale del giornale americano – non c’è mai stata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati che si sono riversati qui come gli italiani del sud che hanno affollato le nostre banchine”.
È ancora in questo clima che, guidato dall’avvocato William Parkerson, avviene l’assalto alla prigione dove sono detenuti undici italiani accusati dell’uccisione del capo della polizia di New Orleans ma assolti per insufficienza di prove. I pescatori siciliani festeggiano pubblicamente l’assoluzione suscitando il furore della folla dei dimostranti che si aspettavano un verdetto di condanna e che, per questo motivo, decidono di vendicarsi barbaramente. Cinquanta di loro, armati di carabine, marciano verso la prigione, ne forzano l’ingresso, e li uccidono tutti. Il Times giustifica la strage avvenuta perché, in fondo, si trattava di “siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini”.
Il governo italiano interruppe le relazioni diplomatiche con gli Usa e mise una nave a disposizione degli italiani disposti a rimpatriare. Relazioni che furono ripristinate quando il presidente americano Harrison decise di risarcire le famiglie delle vittime.
Da quel momento il presidente si appella al Congresso per una maggiore protezione dei cittadini stranieri: l’appello viene accolto e così gli italiani possono godere di un trattamento migliore. Un anno dopo, per porre fine all’indignazione provocata dalla barbara esecuzione nella prigione di New Orleans, una statua di Cristoforo Colombo viene posta all’ingresso del Central Park. E nel 1937 il Columbus Day diventerà festa federale.
Brent Staples è un giornalista di colore – classe 1951 e vincitore l’anno scorso del Premio Pulitzer. Si è occupato di temi come famiglia e identità e di confutare l’opinione diffusa che fa dei neri d’America dei poveri violenti e criminali. Di emigrazione se ne intende non poco, nato in una famiglia che ha lasciato la Virginia rurale per trasferirsi nelle città industriali del nord. Ma per saperne di più sull’argomento si possono leggere Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni di Sergio Romano o libri come Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio oppure come L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Gian Antonio Stella.
Quella di cui parliamo è (ovviamente) l’emigrazione postunitaria. Ma non si può tacere che il fenomeno precede l’unità nazionale. In Egitto – dati tratti dalla Storia d’Italia di Sergio Romano – troviamo seimila italiani nel 1820 e novemila nel 1870, quando la nostra lingua è una delle più usate dalle poste egiziane. Nell’Impero ottomano gli italiani riescono addirittura a migliorare la condizione sociale. Dal 1869 al 1913, esclusi i periodi di flessione, gli emigrati aumentano progressivamente sino a raggiungere un numero superiore a 872 mila. Vanno nei paesi europei, maggiormente in Francia, ma a partire dagli anni ottanta la meta diventa l’America: Argentina, Brasile e soprattutto Stati Uniti. Gli italiani emigrati dalle regioni del nord (piemontesi, veneti) trovano occupazione nell’agricoltura; i meridionali che conoscevano la fatica dei campi guardano con più interesse ai lavori che offrono le città. Perché “la terra – scrive Sergio Romano – è divenuta ai loro occhi sinonimo di miseria e disperazione”. Tenacemente ancorati alle proprie tradizioni, alla propria identità e persino alle proprie superstizioni, costituiscono nelle grandi città in cui vivono delle città proprie: Brooklyn a New York, La Boca a Buenos Aires, Galata a Costantinopoli.
Gli italiani si accorgono dell’esistenza di questi loro connazionali discriminati, uccisi o brutalmente criminalizzati nei rispettivi paesi d’immigrazione, prendono cioè coscienza di questa nazione italiana all’estero, e indifesa, dopo il clamore e l’indignazione suscitati dalla strage di New Orleans e dall’interruzione dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti. Dopo i fatti altrettanto tragici di Aigues-Mortes, in Francia, dell’agosto 1893 – venti gli italiani uccisi secondo il Petit Marseillais; cinquanta secondo il Times di Londra. E anche grazie al romanzo Sull’Oceano di Edmondo De Amicis. Che racconta il viaggio degli emigranti da Genova a Buenos Aires. “Miseria errante del mio paese, povero sangue spillato dalle arterie della mia patria” scrive l’autore di Cuore.
Quella di Aigues-Mortes è una storia, come si dice ai nostri giorni, di penultimi messi contro gli ultimi. E di sfruttamento senza diritti e limiti. Per dei lavori stagionali gli emigrati italiani, probabilmente perché più a basso costo, vengono preferiti ai lavoratori francesi. Di qui la loro violenta rappresaglia, una vera caccia all’uomo nelle vie e nelle case, contro quelli che considerano usurpatori di lavoro. Caccia all’uomo che riprende l’anno dopo, per altri motivi, a Lione. L’anarchico Sante Caserio uccide con un colpo di pugnale Sadi Carnot e la reazione dei francesi costringe più di 2500 italiani, che non c’entravano nulla con l’omicidio, ad abbandonare la città e la Francia. Si diffonde l’opinione dell’italiano provocatore, rissoso e sovversivo. Ma come ben scrivono gli autori di A Documentary History of the Italian Americans, un’antologia sull’emigrazione negli Usa, di violenza nel complesso gli italiani emigrati “ne ebbero una dose sproporzionata”.
Nelle novelle L’altro figlio di Pirandello e La Mèrica di Maria Messina alla pena per chi parte s’accompagna – non meno grande – la tragedia di chi resta. E sono le donne – donne del sud e siciliane segnatamente – a viverla, sino alla pazzia. Madri e giovani mogli con i figli ancora attaccati al seno, spesso dimenticate e destinate ad appassire. Mentre i vecchi si lamentano: perché spetterà a loro, che non hanno più le forze, occuparsi ora dei poderi abbandonati. La notte che precede la partenza dei figli il pianto delle madri si sente dalle case nelle strade. Molte di loro hanno il presentimento, fondato, di non rivederli più. Questo accade alla vecchia Maragrazia nella novella di Pirandello. Per quattordici anni ridotta a un mucchio di cenci, sempre gli stessi, seduta sul proprio gradino di casa o su quello di Ninfarosa, la donna del paese a cui sempre chiede di scriverle una lettera per i figli emigrati che l’hanno dimenticata. Talmente ripetitive e pietose e inutili che, dopo le prime, la donna si fa beffe di lei che non sa leggere, ingannandola: e a partire per l’America sono lettere di soli scarabocchi. Maragrazia ha un altro figlio nel paese. Disposto a darle tutto il conforto necessario. Ma è figlio di una storia – nera, brutta, dolorosa – dei tempi della venuta di Garibaldi in Sicilia e delle conseguenze terribili che lei ne ha patite. Non vuole il suo aiuto e preferisce vivere di povertà, lacrime, sonno e ormai fuori di senno nella disperata attesa d’una risposta dai figli veri e lontani.
“Ci sono riusciti, i birbanti, a ficcartelo in testa! – dice Catena al marito appena sa della sua decisione di emigrare, come gli altri giovani del quartiere.– Ma se proprio ci vuoi andare pensa ch’io non mi sono maritata per restar né vedova né ragazza dopo un anno di matrimonio! (…) Ci vengo. O ci vengo o mi butto dal Castello”. Aveva le labbra pallide, scuoteva la testa, il bimbo addormentato sulle ginocchia e i “grandi occhi neri appassionati e dolorosi”. Che già guardano senza più vedere: guardano nel vuoto della sua vita futura.
“O ci vengo o mi butto dal Castello”. È racconto d’emigrazione, amore, tradimento e follia La Mèrica della scrittrice palermitana Maria Messina.
Il marito ha il suo piano: vuol partire senza di lei. E con la sorellastra di lei, che se l’era “tirato con un fil di seta” mettendogli in mente il pensiero della Mèrica. Il medico che la esamina prima dell’imbarco dice a Catena che ha una malattia degli occhi, e deve curarli. Un mese di cura. E lei torna indietro, al paese, dai suoceri, con il bambino in braccio e la ricetta del medico. La ricetta del medico… Torna indietro disperata, senza alcuna parola di conforto dal marito. Tutti accettati per l’imbarco. Solo lei respinta. E umiliata dalla sorellastra. Che dal vapore le rideva in faccia salutandola.
E si poteva non impazzire? “Gli occhi miei, che sono stati l’invidia di tutti! Gli occhi miei, malati?”– ripeteva.
È la cura, di cui non avevano bisogno, a rovinarglieli davvero. Non aveva mai patito male agli occhi e ora se li sente “pungere da cento spilli”. Poi arriva la lettera del marito. Dice che guadagna bene. E che lì, in America, anche le donne lavorano. Catena diventa nervosa, intrattabile, sempre più chiusa in se stessa. Pensa al marito e alla sorellastra “dal petto procace, il viso olivigno dalle labbra rosse” che gliel’ha rubato. “Stella, tesoro – dice con rabbia al bambino – chiamalo papà, chiamalu ca è luntanu!” Povera Catena. Catena incatenata. La guarigione non arriva, nonostante le preghiere all’altare di Santa Lucia, e lei va fuori di testa. Non si butta dal Castello, ma come la vecchia Maragrazia della novella di Pirandello passa le giornate accoccolata sull’uscio; e a chi le si accosta indica il vapore che lei sola vede, laggiù nel mare grande. “Sono guarita – dice – Parto domani”. È una novella stupenda La Mèrica di Maria Messina e fa parte della raccolta Piccoli gorghi.
Nella prima parte del romanzo breve di Luigi Capuana, Gli “Americani” di Ràbbato”, si assiste al contrasto tra i giovani attratti dall’avventura americana e i vecchi che pensano sia meglio “pane e cipolla nel proprio paese”. Chi torna parla dell’America come di un eldorado. E il denaro americano trasforma a poco a poco l’economia del paese: “Qui Bacareddu mette su un piccolo caffè… Là, la moglie e la figlia di Centonze hanno aperta una bella merceria”. Ma nessuno di quelli che tornavano a Ràbbato diceva che in America “si ammazzava la gente con le bombe perché non voleva pagare”. Pagare il pizzo.
Il vecchio contadino Lamanna vorrebbe opporsi alla partenza dei nipoti. È legato alla terra, a “quei quattro maledetti sassi” come li chiamano i giovani. Parla agli alberi con dolcezza. Pensa che “oggi, chi più chi meno, tutti siamo scontenti di quel che Dio ci dà. Abbiamo troppa fretta di arricchire”. Questo è per lui il male. Questo spinge i figli alla strania (paesi lontani). Ma, sia pure con dolore, lo zi’ Santi Lamanna deve arrendersi; e riconoscere che i giovani partono perché la terra è diventata ingrata. Dei suoi nipoti, uno in America prende però la cattiva strada, attratto dalla malavita, da coloro che chiedevano il pizzo, e finisce in carcere. Gli altri due invece lavorano onestamente: tornano e riscattano l’ipoteca posta sulla vecchia terra, a garanzia dei soldi avuti in prestito per la partenza. Tornano perché la patria è sempre la patria.
Il romanzo di Capuana ha un finale diverso dalla novella di Pirandello e da quella di Maria Messina. E sarebbe un finale quasi lieto se non fosse per quel nipote finito nelle mani della giustizia americana. Ma forse un giorno tornerà anche lui.
Qui alla tragedia di chi resta, mentre i figli partono, viene data la consolazione del loro ritorno. Perché la patria è sempre la patria per Capuana. E “la portiamo nel sangue, nel cuore, nella mente”.
Gaetano Cellura