In una Catania dalle grandi sfaccettature, proiettata verso l’espansione economica e la crescita demografica, una città nel pieno del proprio splendore, quando i mercanti ebrei e valdesi vi si trasferivano dalla Svizzera per crearsi un posto sicuro nell’élite della città; quando gli industriali sfruttavano la ferrovia e il porto per ricevere, lavorare e inviare lo zolfo dal lontano centro della Sicilia; quando i proprietari terrieri, arricchitisi con la produzione di agrumi, si trasferivano in città, dove tutto era fruibile, persino la cultura, in sviluppo anche grazie a scrittori che hanno lasciato il segno nella storia della letteratura italiana; in questa Catania, dove l’eleganza nel vestire era retta da importanti industrie tessili e il denaro non mancava; mentre d’altro canto una grossa fetta della popolazione conosceva solo culture dialettali e atteggiamenti ignoranti e si mostrava priva di interessi per gli aspetti cerebrali di ogni sorta, considerati solo perdite di tempo, compare, molto giovane, Nino Martoglio (1870-1921) che piace alla gente povera della Civita (ormai umile quartiere antico) e dell’attuale centro storico. Era la figura dell’intellettuale che, pur dando voce al dialetto siciliano, faceva sorridere tutti, persino i letterati degli altri paesi.
“Io voglio rispecchiare, con la dovizia che ho di lavori paesani dei più illustri scrittori nostri, tutte le facce del brillante poliedro che è l’anima popolare della nostra gente, e nelle diverse classi e in tutte le gradazioni sociali, soffermandomi d’avvantaggio su tutto quanto vi è in Sicilia di più caratteristico e colorito e unita insieme”.
Era un’epoca in cui a Catania l’opra dei pupi, troppo stretta nella sacralità storica di un repertorio intonso e intoccabile, stava perdendo vigore, tanto che si sentiva l’esigenza di nuove forme d’intrattenimento, lì dove la voce popolare poco era stata rappresentata e ancor meno da opere letterarie (le più importanti: I mafiusi di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca nel 1863, o la Cavalleria Rusticana di Verga nel 1884), un’epoca che vide nuove forme artistiche ergersi, sotto la guida piena di inventiva che aveva il volto e l’anima di Nino Martoglio.
Infatti, uomo di grande personalità, si cimentò con successo in molti campi del teatro dialettale, proprio adesso che l’opra dei pupi cominciava a esser meno frequentata, perché anche i più fedeli, stanchi della sua formula ferma e rigida nei propri canoni, si interessavano ad altro. Dopo aver colpito l’attenzione con il suo settimanale “D’Artagnan”, privo di peli sulla lingua, volle scrivere opere teatrali e incarnarne il ruolo di registra, infatti strappò il puparo Giovanni Grasso dal teatro dei pupi, con l’aiuto morale dello scrittore tragico Ernesto Rossi e del filosofo Vito Fazio Allmayer, per farlo approdare al teatro di attori in carne e ossa. Poi scoprì e portò altri attori al proprio giro non solo in Sicilia, ma anche in Italia e nel mondo, dove vennero sempre applauditi, anche se recitavano in dialetto siciliano.
Nino Martoglio, infatti, di spirito acuto, sapeva scrivere in modo che una commedia dialettale potesse essere compresa anche dal pubblico non siciliano e di questo si assicurava con maestria, usando per esempio, in prevalenza, parole che non si discostavano dall’omonimo italiano. Se proprio stabiliva di usare parole in dialetto stretto, però, si divertiva a divertire il pubblico, facendo persino spiegare ai personaggi il significato della parola con gesti e comportamenti tipici che incuriosivano lo spettatore o addirittura gli insegnavano (vedi: Civitoti in pretura).
In questa espressione di grande intelligenza, volta a divulgare oltre i confini la lingua di confine, Nino Martoglio rappresentò le proprie opere, ma anche quelle, fra gli altri, di Pirandello, di Verga, di Capuana e di Rosso di San Secondo, con la partecipazione dei grandi attori del teatro popolare.
Fu, mentre assisteva all’interpretazione di Malìa scritto da Luigi Capuana, e successivamente della sopracitata I Mafiusi, a Roma, che Nino Martoglio notò l’attore di talento che veniva da una famiglia povera di San Cristoforo (un tristo quartiere di Catania), l’attore Angelo Musco che, come altre ottime figure della tradizione popolare siciliana (vedi Rosa Balistreri), pur di memorizzare i copioni, aveva imparato (non benissimo) molto tardi a leggere e scrivere.
Musco (1871-1937), da bambino, fra un lavoro e un altro, nel tempo libero si era infilato nel teatro di Carmelo Sapienza e lì aveva approcciato con le marionette siciliane, aiutando il puparo a prepararle, a pulirne le armature come le armi e a risistemarle. Dall’età di sedici anni aveva cominciato l’esperienza lavorativa nell’arte dello spettacolo con un exploit a sorpresa di tutti, cantando e ballando per il pubblico del puparo, durante l’intervallo fra una scena e l’altra. Da allora aveva lavorato con successo per i teatri siciliani, fino al 1899, quando era entrato nella compagnia di Giovanni Grasso, dove aveva recitato, incarnando Piripicchio, un personaggio che si alternava alle messe in scena dei versi pubblicati proprio nel “D’Artagnan”. Fu per questo che nel 1902 poté incontrare quest’ultimo, che oltre ad avere avuto l’intuizione di poter plasmare le qualità di questo attore in uno stile più adatto alla perfezione teatrale, in seguito avrebbe scritto per lui San Giovanni Decollato e l’Aria del continente, dirigendone le rappresentazioni in qualità di regista e partecipando così ad accrescere la fama dell’attore, ma anche la stima da parte degli studiosi, poiché la compagnia teatrale poté ascendere ad alti livelli con spettacoli come La lupa, la Cavalleria Rusticana e Caccia al lupo di Verga, Malìa e I cavalieri di Pidagna scritti da Capuana, la versione siciliana di Borgese de La figlia di Iorio ideata da D’Annunzio, Mastru Liberti l’armieri di Marchese, recandosi, oltre che in Europa, perfino in America Meridionale e negli USA.
Avendo fra le proprie mani attori di tale talento (Giovanni Grasso e Angelo Musco), Nino Martoglio provò a plasmarli a proprio impeto, impregnandoli di sé, delle proprie capacità intellettive non comuni, accrescendone come in una scuola le potenzialità artistiche. Ma, mentre Grasso se ne sentì soffocato, a causa di indole autonoma e radicata nelle certezze dell’eredità recitativa acquisita dalla propria famiglia di pupari, Angelo Musco accolse questi suggerimenti, continuando a crescere e diventando stella indiscutibile nel patrimonio teatrale e di pellicola.
Con Grasso, dunque, Martoglio si separò presto, ma consolidò per diversi anni il rapporto con Angelo Musco che poté nel 1908 a Milano partecipare alla rappresentazione di Madre di Pier Maria Rosso di San Secondo.
Intanto, a causa della grande guerra che portava l’Europa a vivere momenti di sconforto, l’estremismo e il grottesco delle espressioni siciliane erano diventati difficili da digerire. Il pubblico cercava qualcosa di più mite, qualcosa che potesse distrarlo dall’odore di morte, qualcosa che potesse far credere che in Sicilia non ci fossero solo personaggi, ma anche persone interessanti anche perché calme e riflessive. Nino Martoglio, dunque, ricercò, in assenza di Giovanni Grasso, che continuava ad essere vivamente espressivo, la rappresentazione di opere, dove il siciliano potesse essere più catartico, e questo fu realizzato grazie alla riuscita collaborazione con Angelo Musco.
Il loro rapporto, però, si deteriorò in seguito, con non pochi crucci, per le lotte di ruolo intraprese da Nino Martoglio insieme a Luigi Pirandello.
Musco da un lato veniva trascinato dal rapporto viscerale e diretto col pubblico di qualunque ceto sociale, dall’altro veniva tirato a sé dalle richieste di importanti scrittori che si attendevano di veder rappresentare da lui le opere scritte, per ottenerne ancora più lustro.
Era su questo che l’attore fondava la propria affermazione di sé, quando si difese, assieme all’intera compagnia, contro Martoglio e Pirandello che lottarono per garantire dignità all’autore a scapito dell’interprete, asserendo che fosse il valore di una commedia a determinarne la fortuna; mentre Musco, invece, sosteneva che fosse la recitazione a garantirne la qualità, perché solo grazie all’arte di chi desse accento teatrale all’opera, questa poteva ergersi a capolavoro e raggiungere i cuori di tutti.
Vero era che Pirandello aveva subito una crisi economica dovuta al fallimento delle zolfare di sua proprietà, vero che avesse tutto l’interesse di spingere Martoglio a scontrarsi per un meritato aumento del compenso, ma questo portò, purtroppo, alla rottura fra Angelo Musco e Nino Martoglio, che dovette sciogliere la compagnia da lui creata per non reggere più un teatro, dove il protagonista, di gran personalità, supportava tutto e non si potevano realizzare opere corali che avrebbero concesso una riduzione delle paghe per gli attori a vantaggio di un corrispettivo aumento per gli autori.
Il mito vuole che, durante la guerra, Angelo Musco fosse a Messina, e poiché i tedeschi invasero l’hotel Excelsior, fu costretto a comprare una villa (oggi villa Musco), per avere alloggio, ma per l’acquisto gli bastò utilizzare un brillante che tempo prima aveva regalato a sua moglie. La storia vuole anche che a Catania Angelo Musco avesse comprato una villa di rara bellezza in stile liberty nel quartiere Barriera. Ecco la differenza fra l’attore e l’autore, il primo esegue con grande maestria, entrando direttamente a contatto con il pubblico, che ha occasione e tutto il tempo per conoscerlo e amarlo profondamente, senza mezzi che uniscono, ma anche separano. Non è narratore che si dà attraverso penna o carta, di cui si sente l’anima a distanza, che si può solo immaginare; è l’amico, il simpatico compagno che fa divertire a solo qualche metro. L’autore, invece, è ideatore, inventore, pensatore. Senza di lui la commedia non esisterebbe. Ma quello che il pubblico vede, quello che il pubblico acclama, quello che il pubblico paga è il viso che si storce, pronunciando sì, le parole dell’autore, ma con propria voce e propria inflessione. Per questo Musco è in grado di comprarsi le ville, mentre Pirandello (fra l’altro tanto valido da essere stato insignito del premio Nobel) chiede elegantemente all’amico Martoglio, spiegando che basterebbero 500 lire da guadagnare con un qualsiasi lavoro di scrittura, un po’ come un venditore ambulante che cerca di proporre i calzini che ha nello zaino. In questo caso, se si paragona il mondo del teatro alla filiera ittica, l’autore si potrebbe assimilare al pescatore, che pesca pesci come idee ed è alla base, alla realizzazione della materia prima, ma resta povero, rispetto al venditore e il ristoratore, che in questo caso sarebbe Martoglio come produttore e regista. Musco sarebbe il cuoco e insieme il servitore che lo offre al cliente.
Resta il grande affetto fra Musco e Martoglio, quello che porta Musco nelle poche ore che può dedicare alla figlia, a chiamarla non col suo nome, ma col nome di una delle opere più significative scritte dall’amico: Nica.
Dunque, nel 1918, assieme a Luigi Pirandello e Pier Maria Rosso di San Secondo (1887-1956), Nino Martoglio fondò senza Musco la Compagnia drammatica del teatro mediterraneo, dove si rappresentavano opere che venivano appositamente create con l’intento di essere corali e di non basarsi su un protagonista mattatore. Gli elementi, che avrebbero dovuto reggere lo spettacolo, avrebbero dovuto essere il dialetto e la musica. Il suo teatro dialettale aveva trovato la fortuna anche grazie all’assenza di capacità artistica nazionale nello stesso ambito; l’altro teatro siciliano, in lingua italiana, aveva trovato la buona sorte nella forza insita dentro i canoni dell’imprinting dialettale e popolare, dal quale prendere comunque linfa, come suggeriva anche Luigi Capuana.
Come Pirandello, infatti, anche Rosso di San Secondo (scrittore in lingua) si mosse in interessanti e contrastati copioni, dove i personaggi duellano con i propri sentimenti e con lati opposti della propria personalità, dove il vivere diventa grottesco.
Ben voluto e portato avanti da Pirandello, Rosso di San Secondo dovette la propria sfortuna, paradossalmente, allo stesso benefattore che, senza volerlo, ne oscurò la figura, perché l’altro fu troppo assimilato a lui per poter diventare stella autonoma.
Ma la critica consenziente per il teatro dialettale non andò più d’accordo con il gusto popolare, che se ne allontanò sempre più, nonostante la qualità e il prestigio di opere artistiche. Dunque questo progetto, pur accompagnato da figure non fallimentari come quelle dei due grandissimi scrittori citati, fallì e Martoglio dovette arrendersi e abbandonare i sogni di gloria legati al teatro.
Sconfitto, aveva pensato di scrivere la storia del proprio vivere il teatro, ma non ne ebbe il tempo, perché morì in circostante misteriose nella tromba dell’ascensore in un’ala in costruzione dell’Ospedale Vittorio Emanuele, dove era andato a trovare suo figlio ricoverato.
Marcella Argento