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Serafina piccola principessa di Puntalazzo

Serafina, nacque a Puntalazzo, frazione di Mascali in provincia di Catania, in una via che portava il suo cognome, Garozzo. La casa arrampicata su una collinetta, un po’ fuori dal paese, si raggiungeva in macchina fino ad un certo punto, dopodiché, bisognava proseguire a piedi per una salita di almeno cinquecento metri di strada acciottolata impraticabile con qualsiasi mezzo, ma ricca di fascino e di sorprese come quella di case abbandonate e diroccate invase da folte vegetazioni. La casa, l’ultima in cima alla via, era una tipica dimora di montagna, con gli ornamenti in pietra lavica. Vi si entrava attraverso un portone di legno che immetteva in un grande atrio aperto. Sulla destra si arrampicavano scale in pietra lavica, per accedere al piano superiore riservato a zona notte. In fondo un grande pollaio, quasi un sito archeologico, per la presenza di bellissime colonne e trogoli (scifi) in pietra lavica scolpiti dallo zio di Serafina, elegantemente disposti a cerchio con all’interno nidi di paglia dove le galline depositavano le uova. Il pollaio limitava con un cancello in ferro battuto, da dove si accedeva e s’intravedeva il bosco vicino, di loro proprietà, con i suoi bei colori cangianti a seconda delle stagioni e col terreno ricoperto di un grosso strato di foglie, che in estate, camminandoci sopra si frantumavano.
Appena entrati quello che colpiva l’attenzione era l’enorme pianta di camelia dai fiori rossi, che d’estate ombreggiava il cortiletto antistante la cucina, accanto alle scale e dove sedevano le donne di casa, in compagnia delle vicine, a raccontarsi storie, commenti e accadimenti, durante il caldo estivo. La zona giorno, d’inverno era riscaldata da un braciere “a conca” di lucente ottone, accesa con “carbone forte” che producevano loro stessi tramite i così detti “fossoni” che approntavano in un appezzamento di bosco, di loro proprietà, in località “Naca” vicino al bosco della “Cerrita”.
I fossoni si creavano accatastando ordinatamente a piramide la legna di ginestra, che veniva ricoperta di terriccio su cui venivano praticati dei fori e attraverso i quali si accendeva il fuoco, i fori servivano anche da sfiatatoio. Lentamente la legna bruciava e si formava il carbone “Forte”. La conca era adagiata dentro un cerchio di legno a larga propaggine, che fungeva da poggiapiedi, e il tutto costituiva l’unica forma, oltre ai focolari della cucina in muratura, che serviva per cucinare, (uniche tecniche di riscaldamento per le abitazioni dell’epoca). Da questa stanza,al pianterreno, limitrofa alla cucina, che restava come locale indipendente, si accedeva tramite una scala di legno al piano superiore, dove vi erano le camere da letto arredate con canterani di pregio intarsiati di noce e ciliegio che conferivano ai mobili sfumature dal giallo al rossiccio, i letti in ferro erano elegantemente dipinti a mano. La scala di legno mi affascinava particolarmente in quanto non in uso nelle nostre zone di mare cui ero abituata. Sul retro di questo splendido locale, poggiato sul pavimento e oramai in disuso, vi era un enorme telaio, consumato dall’uso che sicuramente ne era stato negli anni precedenti quando, nelle case più agiate, le donne filavano la lana e tessevano la propria biancheria per il corredo di nozze.
Serafina, nacque in questo accogliente habitat come una principessa, figlia unica, i genitori possedevano oltre a questa bellissima casa, un palazzo semidiroccato nel quale residuavano e si potevano ancora intravedere stucchi, affreschi e pareti di colore blu oltremare, sbiaditi dal tempo e dalle intemperie, malinconiche testimonianze per la memoria di un tempo scomparso. Tutt’intorno era ricco di edifici, magazzini, palmenti e cantine in ottimo stato, nei quali locali, durante le vendemmie, noi da villeggianti alloggiavamo e ci rimpinzavamo di cibi e delizie edule tipiche delle vendemmie. Questi edifici si trovavano sulla strada che porta a Puntalazzo, dove tutto intorno era vigneto a distesa d’occhio.
Un altro grande vigneto era pure in una località denominata “Vardiula”, vicino al Castagno dei cento cavalli, dove si accedeva attraversando il torrente limitrofo.
Il padre di Serafina, Giovanni, possidente di vigneti, era vinicoltore assieme al fratello, che non essendosi sposato viveva con loro. I due fratelli erano come gemelli, stavano sempre insieme e svolgevano entrambi lo stesso mestiere.
Mamma Rosa, anche lei figlia unica, proveniva da una buona famiglia e da ragazza era vissuta in una casa che si trovava sempre sulla stessa via, un centinaio di metri prima di quella dove andò poi ad abitare da sposa, anche quella una tipica dimora, anche e assai più modesta, con colonne in pietra lavica sul cortile accanto alla cisterna. Anche questa casetta, dove di tanto in tanto usavano riunirsi con l’intera parentela per pranzi dei giorni festivi o altre ricorrenze locali.
Rosa era una brava donna, ma scontenta della vita si presentava lagnosa, sembrava che le amarezze della sua vita le fossero stampate sul viso rotondo e rugoso contornato da folta e lunga peluria bianca sul labbro superiore a guisa di baffi che incuriosivano i bambini.
Don Giovanni Garozzo, il padre, un uomo buono, dall’aspetto imponente e tipico della gente di montagna di allora, vestiva con i pantaloni di velluto a coste, il gilè, anche quello in velluto a righe e la “coppola”, tutto su sfumature di marrone-tabacco, colori della terra. Possedeva un grosso mulo come mezzo di trasporto per sé e per le sue mercanzie e un altro ne aveva il fratello con cui quasi sempre usciva in compagnia.
Serafina era una donna semplice, di piccola statura, il viso acqua e sapone, capelli neri e lisci, senza trucchi e senza creme, sempre sorridente, era stata cresciuta nella bambagia, come si conveniva ad una figlia unica, benestante e isolata dal mondo. Lei viveva nel suo infimo mondo rurale e dorato di Puntalazzo, piccola frazione del comune di Mascali. La domenica scendeva con i genitori verso il centro di Puntalazzo,per andare a messa, nella chiesa che ancora si affaccia sulla piazza principale e da dove si vede anche il mare di Riposto. Per Serafina era una tra le poche occasioni per incontrare amici e conoscenti.
Ma qualcosa ruppe questo incantesimo che la vita, per una buona parte, le aveva riservato.
Accadde che un ardimentoso ammiratore, Gioacchino, giovane di bello aspetto, alto, snello, biondo, occhi verdi come il padre, ottimista e un po’ sognatore, impulsivo e precipitoso, un tantino viziato dai genitori, in quanto ultimo di quattro figli, organizzò una “fuitina” facendo rapire Serafina.
Rosa, Giovanni e il fratello furono presi dallo sconforto di un così imprevisto accadimento, restando impotenti davanti a ciò che la vita loro malgrado gli aveva presentato. Non era certo il futuro che avevano sognato per Serafina!
I “fujuti” stettero via un considerevole e lungo periodo, poi una mattina rientrarono a casa, non so cosa accadde, ma a tutti giungeva il messaggio del grande disappunto da parte dei genitori sia di Serafina che di Gioacchino.
Fina
Oramai non si poteva rimediare nulla, come imponeva il costume dell’epoca, occorreva organizzare subito le nozze riparatrici e a Serafina fu approntato un bellissimo abito lungo di un rosa pallido come le rose del suo giardino, nelle mezze stagioni piovose. Il prete di Puntalazzo, don Santo, cominciò a porre difficoltà di ogni genere e solo grazie all’intervento benevolo di don Angelo Grasso, allora parroco di Scillichenti, si poté celebrare il matrimonio.
In un freddo mattino d’inverno (le nozze dei “fujuti” si celebravano di mattino presto), si celebrarono le nozze e dato che fui scelta come damigella, mia madre mi cucì, per l’occasione un cappotto color bianco panna e un vestitino di panno di lana verde, con bordure tirolesi.
I genitori di Serafina, reduci dell’isolamento in cui erano vissuti, dal resto del paese, comprarono per la figlia una costosa casa in piazza, a Puntalazzo, la fornirono di tutto ciò che potevano per consentirle vita comoda. Serafina cominciò ad adattarsi alle sue nuove condizioni di sposa e poi di madre, non pretendeva nulla da nessuno, ma accettava l’aiuto di chi voleva prestarglielo, accettava i consigli della cognata, di qualche anno più grande di lei, voleva bene a tutti e per lei il male non poteva esistere, nella sua semplicità tutto risultava più semplice, anche quando non lo era. Si accontentava di tutto e il suo animo semplice a volte la faceva appariva inadeguata alle necessità della vita che di norma richiede più intraprendenza. Con Gioacchino ebbero una buona intesa, anche perché per lei andava sempre bene qualsiasi scelta facesse il marito, giusta o sbagliata. Infatti si fidava, non interferiva e come quando era bambina accettava le scelte dei genitori, adesso accettava le scelte di Gioacchino, che non sempre erano le scelte giuste.
Mia madre accolse con gioia questa sua nuova cognata e le regalò un bellissimo scialle istoriato di margherite bianche su uno sfondo verde lavorato appositamente dalla signora “Enna di n’ô Tunnu” con ferri ad anello. Con l’anello si realizzavano le singole margherite, di lana bianca, che successivamente con l’uncinetto e una lana di color verde venivano unite insieme a costituire lo scialle. Serafina apprezzò questo regalo e lo indossava spesso, specie la sera quando si sedeva assieme ai familiari o agli ospiti, sotto la camelia rossa procurando che quei colori dello scialle si inserissero armoniosamente in quel contesto floreale.
Visto che la suocera, per sua natura, conduceva vita ritirata ed evitava qualsiasi iniziativa, anche se necessaria, la cognata Enna, faceva le veci della suocera, infatti si era incaricata persino di comprarle i monili l’oro, come era d’uso locale, che al momento delle nozze, la suocera, assieme al futuro marito, andassero a comprare i regali in oro per la sposa. Enna propose l’acquisto di un medaglione in oro con relativa collana, cosa che diede tanta gioia a Serafina che ricordava sempre a tutti i parenti come la sua cognata Enna aveva proposto per lei un regalo di maggior valore, rispetto a quello che essa aveva avuto in dono alcuni anni prima, in occasione del suo matrimonio con Sebastiano, fratello maggiore di Gioacchino.
Enna, le faceva anche da sorella, era sempre presente quando la cognata ne aveva bisogno, sia in occasione della nascita dei figli, che allora avveniva in casa, con tutta la necessaria energia per poter predisporre l’evento, sia in altre occasioni meno impegnative.
D’estate trascorrevo alcune settimane a casa loro, in una bella casa sulla piazza di Puntalazzo e dal cui retro si poteva osservare il mare in lontananza e con la zia e mia cugina piccola, nel pomeriggio, facevamo belle e lunghe passeggiate; spesso andavamo a trovare i genitori di Serafina che abitavano in quella bella casa sulla collina, appena fuori dal paese. Al rientro prendevamo un cono gelato, nella pasticceria ubicata di fronte la loro casa. Era bello trascorrere le vacanze con loro. Ricordo ancora il bellissimo orologio a cucù che c’era nella stanza da pranzo, che segnava tante ore di felicità e spensieratezza e rapiva la mia fantasia.
La zia Serafina ci invitava, d’estate ad andare in montagna nella località “Naca” dove aveva una proprietà con annessa casa rurale. Per raggiugerla bisognava partire da S. Alfio, caricarci le attrezzature sul mulo e percorrere il greto di un torrente, tutto in salita. Erano diverse ore di cammino ma ci divertivamo tantissimo e c’era una bella compagnia di amici e parenti e tanta allegria.
Arrivati sul luogo cominciavamo a cercare funghi e alla fine raccoglievamo anche le castagne,le nocciole e le mele. Quest’ultime venivano depositate perché acerbe e restavano nel magazzino a maturare; poi mano a mano, con i muli provvedevano a portarli giù fino a Puntalazzo per venderle.
In questo luogo fatato ci fermavamo per una sola notte, ma era bellissimo, si dormiva nel letto costruito con legno di castagno, attrezzato con baldacchino e un grande sacco di juta pieno di paglia e foglie secche, che fungeva da materasso, una sorta di pagliericcio. La notte si sentivano strani fruscii, forse qualche topo o qualche uccello notturno come elfo sul tetto.
Dovevamo portarci un po’ di tutto, ma essenziale, perché in quella casa non c’era nulla, anzi più che casa era un magazzino costruito interamente in pietra lavica, fornito da una attigua cisterna piena d’acqua piovana e una pila-lavatorio scavata nella roccia vulcanica nera attaccata alla cisterna. Nelle vicinanze vi erano le bocche eruttive della colate che nel 1928 avevano annientato Mascali, erano tutte lì, oramai innocue senza segni che manifestassero più la loro pericolosità, il grande fuoco che ne era uscito e la distruzione che avevano causato, erano ormai anfratti ricoperti da muschi e licheni bianchi e secchi.
Durante queste gite di due giorni, mi piaceva fare escursioni, da sola, nel bosco della “Naca” a confine con il bosco della “Cerrita”,andare a trovare l’albero di nocciole abitato dai ghiri, andare a controllare se il fungo porcino avvistato la mattina, fosse cresciuto, come mi aveva insegnato zia Serafina. Non sempre erano esperienze gioiose, una volta mi sono imbattuta in uno scenario sconvolgente. Qualcuno aveva abbandonato un cane lasciandolo legato con una catena ad un albero di mele, sicuramente parecchi mesi prima, visto lo stato di decomposizione in cui si trovava quel povero residuo d’uno scheletro canino, questa immagine di crudeltà si stampò per sempre nei miei occhi e non la più dimenticata.
Le gite alla “Naca” erano divenute una istituzione a volte venivano anche altri cugini per cui si creava un clima giocoso e di spensieratezza.
Ma per Serafina la vita non fu rose e fiori, i tempi in cui dall’agricoltura si poteva trarre sostentamento e addirittura arricchirsi, quando i terreni erano tanti, passarono, con il sopravvento delle bevande gassate, il vino non veniva più richiesto. I lavori nelle vigne costituivano un impegno economico gravoso per cui, mano a mano, tutti quei prosperi vigneti diventarono un ammasso di rovi e di terreni incolti e inevitabilmente furono venduti.
Ma a Serafina la vita aveva riservato una delle prove più dure che si possa sopportare, il figlio più piccolo, Salvatore, a circa quindici anni, venne colpito da una leucemia fulminante che lo portò via in poco tempo, gettando nella disperazione una intera famiglia.
Serafina ci mise parecchio per riprendersi da tale dolore e quando tutto sembrava più sereno anche lei venne a distanza di circa vent’anni, colpita da una leucemia da cui riuscì a guarire, ma poiché bisognava avere parecchie accortezze per sopravvivere, come evitare i contatti con le persone, baci abbracci e questo per lei era inconcepibile, di conseguenza ebbe molte ricadute, seguite da lunghi ricoveri ospedalieri. Gioacchino, anche lui ammalato, con problemi respiratori, addolorato dalle gravi condizioni di salute della moglie, un giorno fu trovato dal figlio,accasciato sul letto oramai morto. Dopo alcuni mesi morì anche Serafina. Avevano chiuso questa breve vita quasi insieme, una vita travagliata difficile e dolorosa.
Alla morte di Gioacchino successe un fatto inspiegabile. Due dei tre figli, sentivano un gran profumo, nei cassetti dove erano conservati gli indumenti del padre e nella casa tutta, un profumo di fiori, piacevole, strano,inspiegabile che li ha sorpresi e stupìti. Dopo qualche giorno dell’evento mi confidarono questo strano avvenimento e mi ponevano delle domande a cui chiaramente non potevo dare risposte. Non è facile dare spiegazioni di questi eventi quando non conosci bene gli interlocutori, ebbi l’accortezza di suggerirgli di chiederlo al prete della loro parrocchia, per avere qualche chiarimento dello strano fenomeno di cui erano stati spettatori.
Questo episodio lo associai a un altro episodio, che loro conoscevano. Alcuni anni prima i miei genitori andarono da Padre Pio assieme ad altri amici e furono testimoni di un simile evento. Sentivano profumo di fiori come di fresie e tuberose, ovunque andavano, ad eccezione del marito di un’amica. Mia madre curiosa, chiese alla proprietaria dell’albergo dove alloggiavano, se per caso nel locale avevano collocato dei deodoranti per ambienti, ma la donna, negò la presenza di deodoranti per ambienti e gli comunicò ciò che i miei genitori non sapevano, ossia che Padre Pio si manifesta a chi ha fede con un profumo. Lo strano evento colpì tutti, soprattutto chi non aveva sentito il profumo che si sentì escluso da questo privilegio.
Dopo la morte degli zii, i figli, alcuni dei quali erano migrati al nord Italia, vendettero le case sulla collina, e fortunatamente trovarono nei nuovi proprietari persone sensibili che ne hanno conservato tipicità e fascino. Il palazzo diroccato con gli annessi palmento e cantine all’ingresso di Puntalazzo fu acquistato dalla cantante catanese, Carmen Consoli, che ne ha fatto una sua residenza, luogo di lavoro e di incontri. Che le abitazioni abbiano continuato la loro vita, siano stati ristrutturati con un impegno conservativo, mi è particolarmente di conforto, perché per me quei luoghi rappresentano i luoghi dell’anima, che sono rimasti impressi nel mio cuore e nella mia immaginazione.
Gli zii Serafina e Gioacchino restano nel mio immaginario come persone semplici, generose; persone a cui la vita, purtroppo, ha riservato prove particolarmente rispetto a quanto, per tutti la sofferenza e la morte sono realtà inoppugnabili e ognuno, chi più ci meno, senza possibilità di scelta, ha la sua storia, la sua vita, la sua sofferenza.