maroccoggi newsletter 08

 

Salima, figlia della sorella di Halima, dopo aver terminato il ciclo della scuola obbligatoria, espresse il desiderio di voler continuare gli studi. Per Shafi questo diveniva un vero problema, perché significava vederla quotidianamente in mezzo alle strade. Sarebbe stato anormale che la madre l’accompagnasse fin là, in Francia. Avrebbe dovuto anche, dopo lo sviluppo fisico, vederla vestirsi per restare quasi nuda come le altre compagne di scuola che portavano di sicuro a mala strada. Lui  semplicemente era dell’avviso che una donna meno sa meglio sta, una donna aveva una sola funzione, quella di sterilizzare il più possibile la casa ed accudire la prole. Salima di questo modo di crescere non ne voleva manco a brodo a forza di udire come vivevano le coetanee e le loro insegnanti. Certe mattine si sentiva quasi il cranio di legno che le lasciava penetrare, assorbire metafore e parabole sparate in aria. Non ce la sapeva a restare muta:
“Sappiate che in questa casa quando parlate sembra che tirate il catarro dai bronchi. Mi sfottono in classe. C’è di meglio, ho anche studiato l’inglese io. C’è di meglio. Se me lo vietate appena maggiorenne cambio Dio, sono stufa del vostro che vieta di manifestarci come se fossimo delle minorate, sempre pronto a rifiutarci il suo giardino. Tu che fai madre mia? Togli la nostra merda. Sempre merda è se vado a togliere quella delle altre persone che mi pagano e rendono libera. A scuola ogni mattina è un martello –Libertà, fraternità, uguaglianza-. Questo voglio.”
“Sei un’illusa. Non è il luogo che fa cambiare le persone. Sono rimasta la stessa io che credi”
“Che ho da dividere con voi? I Francesi ci tengono a tiro semplicemente perché siamo arabi, sicuramente perché risentono il malessere di noi arrivati fin qua e glielo trasmettiamo. Tu resti uguale a prima perché quattro muri sempre sono il tuo percorso. Che fai? Quadrati e sempre quadrati. Che ti credi di fare? Chi vedi? Che vedi? Di che parli? Tu vegeti.”
Halima tremava:
“Maha, la tua vera madre, ci vede dall’alto, è triste del mio operato verso di te sono più che sicura. Mi sento in colpa se ti ho portato verso questo inferno chiamato Francia che obbliga a fare cambiare ogni carne tenera col pretesto di fare studiare. Loro ci prendono e rubano i nostri figli, Shafi. Torniamo in Algeria. Un giorno gli altri diranno che glielo abbiamo permesso perché non l’ho generata io. Già l’altra mia sorella non ha più voluto rivolgermi la parola per averti sposato, lei che abita a quattro passi da qui e mi considera morta.”
Shafi sospirava, sedeva e si alzava da terra in continuazione. Pensava che Salima era di già infelice perché era rimasta orfana. Pensava alla sua ex moglie che ballando, rotonda com’era, spostava l’aria della stanza e cantava:
“E io cambierò, perché adesso sono in Francia e io circolerò scoprendo vesti ancor più belle, e io sarò come non ti aspetti”
Con occhi dolci se la vedeva ancora allegra rotolare nel letto mentre sognava la libertà di poter uscire.
“Salima, io ho il dovere di guidarti. Sono tuo padre e sono più vecchio perché meno è la vista degli occhi più si sviluppa l’allerta.”
A quel momento la figlia si aizzò:
“Specie d’immondizia, quella che raccogli lavorando, perché devi implicitamente accusarmi di essere una poco di buono e non mi dài fiducia? Perché conosci solo il punto di un centro? Chi ti autorizza a offendermi? Appena maggiorenne non mangerò più del tuo pane, finirai di essere un padre per quanto mi riguarda. Hai ridotta questa madre che ho ora a colomba muta”
Halima intervenne:
“Che c’entra lui? La natura mi ha fatto così. E’ un piacere stare muta. E ad ogni uguale ogni cosa è uguale.”
“Lo senti che dici? Ti ascolti mentre parli? Lo capisci che non sai spiegarti e per me non sei altro che quello che ti immagino? Sforzati invece di fare sforzare”                       “Vivere non è superare ma adattarsi, questa è la serenità, il trucco vero e proprio. Che ho da dirti che non sai già? Nella vita bisogna risparmiare fatica. Tuo padre mi ha mai dato uno schiaffo? No, perché io non ho mai fatto rumore né con fatti né con parole. Mi sono saputa accontentare. Ricordati che se hai freddo ai piedi non ti ammali mai. E’ l’unico modo di rispettare la natura di ognuno”
“A che mi servi ormai che so vestirmi e mangiare da sola? Hai fatto male, se così non fosse stato ora mi avresti difesa ma te la fai addosso da sola o in compagnia. Da quando abbiamo imparato a parlare anzi ci hanno insegnato all’asilo a rispondere di più ti sei ammutolita. Nulla di noi ti incuriosiva. Qual è il suono della tua voce allegretta, lo sguardo tuo sognatore? Non siamo bestie, che madre sei?”
Halima sentiva in cuor suo che in quel momento ci sarebbe stato bene un pianto magari, perché le faceva le carni nere con quel dire, erano botte da orbi. Avrebbe voluto piangere ma non ci riusciva neanche a questo era stata ammaestrata da piccola. Shafi che la conosceva abbastanza, per evitare ulteriori problemi accettò di farla studiare ma sempre accompagnata dalla madre fino all’ingresso della scuola. Accompagnarla a qualche metro di distanza. Voleva quella garanzia. Andavano avanti così in quella famiglia. Appena buttato un piede fuori la soglia, ciascuno avanzava come un felino che prevede una grossa buca ad ogni passo. Ciascuno temeva di non potere ritornare indietro per un qualsiasi imprevisto. Risentiva di apparire come non era. Abbassava lo sguardo davanti ad ognuno come se vivesse ogni mattina briciole del giorno precedente. Si ritrovava ad amare ciò che era di già sfuggito. Così si sfilavano i giorni dalla manica fin quando Salima non divenne sensibile ad un marocchino che lei trovava divino, di cui lei si impadroniva delle ali appena lo incontrava:
“Papà, mamma voglio sposarmi. Con un Islamico ma solo per lasciarvi contenti”
La reazione fu spropositata:
“Cosa mi sono allevato una nemica? Vuoi essere massacrata? Non sei tu che devi stabilire quando, con chi e come”
“Addio Algeria papetto. Scordatelo quel modello… Ti ho avvisato, così ho detto e sarà fatto con le buone o con le cattive. Su di me comando io. Ho terminato gli studi di contabile, ho sostenuto il concorso al Comune. L’ho superato. Siamo colleghi ora ma la mia mansione è superiore alla tua. Che concludi a contrariarmi? Levati la benda dell’ignoranza dagli occhi”
Shafi fece dietro front per andare a rinchiudersi nell’altra stanza onde pregare Allah. Da quel giorno cominciò a non salutarla come se per lui fosse diventata trasparente. Questo non scalfì la ribelle. Rammaricata in un bel giorno non soltanto si sposò senza la presenza di genitori e fratelli ma affittò un appartamento al piano di sotto dell’immobile. Per Halima fu un sollievo dato che era, secondo il marito la loro vergogna ed ogni giorno era più grigiastro da vivere. Almeno la poteva vedere dalla finestra giorno per giorno quando il marito dormiva o lavorava. Poi cominciò dall’alto a vederla incinta, mano mano vedeva arrivare i mobili per la cameretta del futuro nascente. Poi sempre da dietro le persiane delle finestre vedeva ingrandire le tre nipotine. Le sarebbe piaciuto sfiorarle, baciarle ma Allah non voleva ed accettava tra lo stupore di tutti. Le vedeva accomodarsi in una macchina lussuosa e ne era fiera di quella loro situazione economica. Il marocchino era un elettricista specializzato della Thomson. Salima si vestiva alla francese, per dare uno schiaffo visibile a suo padre. Solo la religione non ripudiava per rispetto del marito:
“Nessuno di noi deve portare chador, djelaba, chechilla. Il Corano non prevede i vestimenti sono le donne che vogliono imitare la moglie di Maometto e non c’è da coprirsi perché il vero caldo da cui proteggerci qui ce lo sogniamo. In Algeria ciò che scalda il giorno scalda la notte, c’è lana isolante per i più 50 gradi di giorno e meno 50 di notte. Qui si fa la moda. Non voglio che le mie figlie vengano derise dai francesi con la parola – beur- così come noi chiamavamo –pieds noirs- loro”
Per il resto si era anche richiesta la nazionalità francese. Di strano aveva che appena uscita dal lavoro si confinava. Non si occupava neanche di educare le sue figlie.
“Ognuno deve stare dentro le sue scarpe, ricordalo”
Ammoniva a chiunque le ruotasse attorno. Alle vicine di casa  invece rendeva conto perché potessero raccontarlo ai suoi genitori:
“Io e Ibrahim Al-Kafir siamo in perfetto accordo, quasi un solo cuore. Nessuno può macchiare un’anima. Quando rientro dal lavoro impiego il resto della giornata a curarmi il corpo, ad addobbarmelo, a divertirmi curando degli interessi personali per svagarmi. Chi non si scassava i timpani quando lei urlava?:
“Non sono la tua schiava, pago la metà di tutto. Le figlie le abbiamo fatte insieme e tu devi pagarne il prezzo perché sei tu che mi avevi promesso la luna quando ci siamo sposati e invece da anni fai l’eroe ed io sono rimasta sconquassata che non ci può neanche la dieta. Te ne stai sempre a casa per un ginocchio fottuto cadendo sul posto di lavoro. Con il tuo medico del tuo Paese che firma certificati e ogni due anni ti fai operare. Ci vai con le stampelle al controllo e loro ti concedono tre quarti del tuo stipendio. Gli Arabi sono odiati qui. Hanno ragione quando dicono che facciamo quattro figli in media per usufruire della Caf pagandoci il 75 per cento dell’affitto, dandoci la possibilità di comprarci l’arredamento affinchè i bambini stiano bene e non soffrano anche se rimborsiamo solo quel che possiamo mese per mese. Quale Arabo non si ammala ogni sei mesi per vivere della disoccupazione e riprendere di nuovo a lavorare ancora sei mesi? Hai una faccia da intaglio! Mi vergogno, lo capisci che lavoro al Comune? Dove lasci le tue stampelle quando ti carichi sulle spalle un frigorifero raccolto allo sfascio per ripararlo e rivenderlo? Osi riparare le macchine, cercare il ferro nelle spazzature per rivenderlo, fare dei lavori al nero dagli inquilini del palazzo in cui abitiamo… Qui nessuno è cretino! Per questi motivi tutte le ore che io trascorro al Comune lavorando, tu le devi trascorrere a pulire la casa, a cucinare, far fare i compiti e portare a scuola le nostre figlie. Quando le hai messe a letto, dopo, potrai svolazzare per le tue attività al nero, neanche la notte ti potrà scusare.”
Ibhraim non fiatava, pareva un ariete che mirava a farsi attribuire una pensione di invalidità da aggiungere alla pensione ed andare un domani a fare il pascià in Marocco, spassarsela almeno da vecchio senza neanche supporre che la moglie non avrebbe lasciato la Francia. Salima era calma di temperamento quando tutto quadrava a suo piacimento. Era bassina ma era un concentrato d’essere umano, accorreva a tappo ed a tutte le ore per chiunque avesse bisogno nel vicinato.
Purtroppo ebbe un incidente alla guida mentre andava a comprare vestiti nuovi alle figlie. Ebbe dànni alla mano destra, alla schiena, intentò causa al Tribunale ma cercarono tutti i cavilli per fargliela perdere. Si disperava perché era dal lato della ragione e decise di reagire. Andò dal medico di suo marito, a far piovere certificati di malattia, a subire infiltrazioni e controlli dalla Cassa Mutua, a presentarsi davanti la Commissione di controllo ed al Comune i colleghi cominciarono a vederla di malocchio perché increduli ma in effetti lei veramente aveva i suoi disturbi, soffriva e si rammaricava.
“Signora lei e suo marito siete una piaga per i contribuenti che vi vedono vivere tranquillamente e comodamente. Scordatevela la pensione di Invalidità.”
Glielo ripetevano ogni volta che per due settimane si presentava al lavoro dopo il nuovo certificato di malattia. Niente la demoralizzava:
“La Francia è fottuta, ma Fottuta dagli Arabi! Infatti i quattro purosangue francesi sono scappati in Australia”
Shafi che sentiva dai conoscenti riportare questo di sua figlia, si vergognava, lui che era sempre stato così ligio da andare a lavorare anche con la febbre. Ordinava burberamente altri figli di entrare e uscire dal portone senza scommetterne il fiato. Lui invece era un patito di Gratta e Vinci e non si stufava mai di essere un perdente.
E aggiungeva:
“Siete sbandati come se io non fossi mai esistito ma volete ascoltare le mie parole, volete comprendere che vi porto verso il bene? Gratto per il domani di vostra madre appena resterà vedova”
A coro perché se l’erano imparato a memoria e si erano allennati gli rispondevano:
“Viviamo senza mobili. Mangiamo quel che ci porti, sempre uguale e a testa bassa, senza fantasia. Hai voluto il tuo piacere e volere sempre in avanti. Ti sei mai chiesto se hai desiderato la nostra nascita? E’ facile ricordare ma è più facile fingere. Di noi che sai? Ti senti perfetto, noi filiamo per paura del tuo Dio soltanto, te ne sei fatto un complice per partire avvantaggiato davanti ogni innocente appena nato. Questo sei per noi, la paura, soltanto la paura”
Shafi abbassava i lobi degli orecchi come un ippopotamo, invece di rispondere se ne tornava a pregare. Halima allargava le braccia come fa il prete cattolico alla fine della Messa prima di pronunciare:
“Andate, la messa è finita”.

 

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).