Al momento stai visualizzando Pensieri sparsi tratti da una “lezione” di Mario Grasso: la scuola poetica siciliana come prima vera “avanguardia”

 

scuola siciliana

 

«I Siciliani», come li chiamerà compendiosamente il Petrarca nel suo Trionfo d’amore, precisando che «già fur primi», ma facendoli sfilare per ultimi nel corteo dei rimatori, furono i primi trovatori o poeti aulici in volgare di sì. Gli iniziatori di questa forma di poesia erano stati i trovatori in senso stretto, operanti dunque in lingua d’oc. La poesia trobadorica costituì il modello di iniziative analoghe nel corso del secolo: in francese propriamente detto (lingua d’oil), in medio-alto tedesco e nella lingua letteraria nobile della penisola iberica. L’italiano avrebbe seguito solo nel secolo XIII, e neppure prestissimo. La definizione di scuola siciliana, benché oggi usata in senso restrittivo, è consegnata, come altre della nostra letteratura delle origini, alle parole di Dante, il quale, in tal modo, appare il nostro primo critico. Pur abbassando leggermente la data reale, l’autore della Vita nova – dunque poco oltre il 1290 – fa risalire l’arte della lirica provenzale a centocinquanta anni prima: il trovatore più antico che egli conosca è Pietro d’Alvernia. Nel primo libro del De vulgari eloquentia, dopo aver riconosciuto che tutto quanto «gli Italiani compongono in poesia è detto siciliano», Dante rintraccia l’origine di questa abitudine nel fatto che i migliori prodotti poetici dei primi tempi erano venuti alla luce alla corte siciliana di Federico II di Svevia. L’Imperatore ed il suo degno figlio Manfredi, continua Dante, furono principi nobili ed onestissimi, che «vissero da uomini, sdegnando viver da bruti». Così, senza obbedire ad un preciso disegno politico-culturale, ma per moto spontaneo ed irrefrenabile, «chi era nobile di cuore e dotato d’ingegno cercò di adeguarsi alla maestà di siffatti principi, di modo che quanto, nel tempo loro, i migliori fra gli italiani riuscivano a compiere, in primo luogo si manifestava nella reggia di sì grandi sovrani: e poiché la sede regale era la Sicilia, è avvenuto che quanto i nostri predecessori produssero in volgare si chiami siciliano: e questo anche noi teniamo fermo, né i nostri posteri varranno a mutarlo».  Dante attribuisce dunque alla forza catalizzatrice, politica e morale, di Federico II e di Manfredi, la formazione di quel gruppo elitario di intellettuali – composito per provenienza ed interessi, ma unito da una fervida vivacità spirituale e da un intenso  desiderio di sapere – che farà della Sicilia del Duecento, già arricchita dalle secolari influenze arabe, bizantine e normanne, uno dei centri culturali più attivi dell’Occidente. Allettandoli con larghi compensi e con incarichi di rango, l’Imperatore riunisce alla sua corte filosofi, uomini di scienza, naturalisti, matematici, astrologi, medici, traduttori dall’arabo e dal greco; partecipandovi di persona, promuove discussioni scientifiche con dotti stranieri; stimola i contatti e gli scambi con la civiltà orientale; fonda l’Università di Napoli e scrive in latino un trattato sulla falconeria. Inoltre, per quanto fosse più versato nelle scienze esatte, egli, come scrive Salimbene nella sua Cronica, «cantare sciebat, et cantilenas et cantiones invenire»; e di questa sua attività di rimatore qualcosa è giunta fino a noi. Sulle orme del padre, Manfredi continuerà ad attirare attorno a sé i maggiori ingegni del tempo, tanto che il cronista fra Jacopo d’Aqui racconta che alla sua corte «erat schola omnium instrumentorum et cantionum mundi; et iam ipsemet rex Manfredus fuit pulcherrinus et cantor et inventor cantionum; et quia tantum ibi delectabilia abundabant, omnes illuc cucurrebant». Nell’ambito della corte federiciana, nel clima di intenso fervore intellettuale e di apertura cosmopolita che lo caratterizzava, si attua la prima esperienza veramente vitale della tradizione lirica italiana: non un esperimento episodicamente circoscritto, e perciò senza futuro, ma una iniziativa culturalmente piena di forza, ricca di suggestioni e destinata a dare frutti. Sembra certo che la nascita della poesia d’arte siciliana risalga a Giacomo da Lentini, detto per antonomasia “il Notaro”, attivo come funzionario nella corte di Federico II tra il 1233 e il 1240, come dimostrano i documenti da lui redatti o firmati: a questa conclusione inducono sia la parte di caposcuola che Dante gli assegna (come poi a Guittone) nell’episodio di Bonagiunta, ma anche la posizione che egli occupa (cioè quella iniziale) nel più ricco ed autorevole canzoniere dei Siciliani e dei loro successori, quello Vaticano. È dunque Giacomo da Lentini che, utilizzando modi e temi della poesia provenzale, crea una lirica del tutto nuova, dalla tematica aristocraticamente ristretta e dalla struttura esterna controllatissima, che si rivela rispondente a quelle esigenze d’eleganza di forme e di raffinatezza spirituale espresse dalla società colta del tempo. Attorno a lui si schierano subito, con l’Imperatore ed il figlio Enzo, da un lato funzionari imperiali come Jacopo Mostacci o Pier delle Vigne; dall’altro personalità appartenenti a nobili casate, come Rinaldo d’Aquino (se veramente imparentato con San Tommaso) o Percivalle Doria; da un altro ancora, gente di bassa estrazione, talvolta forse appartenente al mondo variopinto ed itinerante dei giullari di professione, come Paganino da Serzana o Cielo d’Alcamo.  La poesia espressa dai “Siciliani” è di stampo rigidamente aristocratico, astratta, intellettualistica e non occasionale. L’amore è il solo campo d’ispirazione, con qualche rara apertura a tematiche morali: si disputa quindi, in termini generici, sulla nobiltà, la virtù, la fortuna, l’amicizia. In una simile poesia non c’è spazio per il contingente, per l’occasionale, e non possono quindi trovarvi posto la storia o la politica, e ciò in netto contrasto con la lirica occitanica che si mischiava anche troppo alle guerre, alle lotte politiche e alle polemiche del quotidiano. L’ideale da raggiungere è il gusto dei trovatori antichi, la loro monocorde – ma sempre altissima – ispirazione amorosa. La poesia provenzale, almeno nel suo filone fondamentale, applica all’amore profano la dottrina cristiana dell’amore mistico ed è insieme poesia di corte, che assimila il servizio amoroso al rapporto feudale. Questo, in buona sostanza, è ciò che della lirica occitanica rimane inalterato nella scuola siciliana. Il valore sostanziale dell’essere amato è totale, quello dell’amante è nullo: la passione si fonda dunque su una sproporzione essenziale, su un assunto temerario temperato dall’abnegazione per cui il volere dell’amante coincide con la volontà dell’amata. La donna, che è sempre sposata (così ancora Beatrice per Dante), occupa il rango del signore feudale, a cui il poeta-vassallo deve obbedienza e fedeltà totali, senza pretendere nulla in cambio. Il giudizio quindi esageratamente negativo che per certi versi ancora grava sulla poesia siciliana, giudicata troppo passiva, pedissequa imitazione della lirica provenzale, non regge di fronte ad un’attenta disamina dei testi: non solo quei nostri primi rimatori sono tonalmente distanti dai modelli – e in più di un caso, dal punto di vista poetico, del tutto originali – perché seppero selezionare della lirica occitanica spiriti, motivi e forme che meglio si adattavano alla loro cultura, al loro gusto e alla loro intelligenza (e già questo, di per sé, significa fare dell’opera una creazione individuale ed autonoma); ma soprattutto, essi si posero in gara con i loro stessi modelli, rafforzando la compagine concettuale della canzone, attraverso la ricerca di immagini inconsuete, di nuovi schemi metrici e di una sintassi più elaborata e subordinante.

Siamo dinnanzi  ad una poesia innovativa, suggestiva, quasi futurista.

Lo giglio quand’è colto tost’è passo,
da poi la sua natura lui no è giunta;
ed io da c’unche son partuto un passo
da voi, mia donna, dolemi ogni giunta.

Per che d’amare ogni amadore passo,
in tante altezze lo mio core giunta:
così mi fere Amor là ’vunque passo,
com’aghila quand’a la caccia è giunta.

Oi lasso me, che nato fui in tal punto,
s’unque no amasse se non voi, chiù gente
(questo saccia madonna da mia parte):

imprima che vi vidi ne fuo’ punto,
servi’vi ed inora’vi a tutta gente,
da voi, bella, lo mio core non parte.

Possiamo parlare di prima vera “avanguardia”?