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NON HO TEMPO DA PERDERE: IL ROMANZO D’ESORDIO DEL MAGISTRATO GIUSEPPE ARTINO INNARIA

“Salvatore si identifica con la propria coscienza: è un singolo che corre seriamente il rischio di rimanere immobilizzato nelle sabbie mobili dei suoi stessi dubbi (…)

 

Giuseppe Artino Innaria ha scritto e poi, successivamente, dato alle stampe un libro dal titolo Non ho tempo da perdere (Prova d’Autore, Catania 2019). Un romanzo, che legittimamente aspira a costituirsi autentica opera letteraria. Un oggetto misterioso, dunque. La letteratura ha in effetti questo di caratteristico: come l’oracolo di Delfi, dice e non dice, senza mai rivelare fino in fondo la verità. Senza che mai si riveli del tutto. Giuseppe Ungaretti in una delle sue memorabili interviste alla Rai — presente tra gli altri il giornalista e critico letterario di origini solarinesi Alfredo Mezio — diceva che la vera poesia porta sempre con sé un segreto. Non importa che all’apparenza sia semplice oppure complessa: nella poesia e nella letteratura in genere è sempre presente un certo margine di mistero. O più correttamente di misteri, al plurale, come i misteri eleusini, i misteri dionisiaci, le religioni di mistero. Nella religione cattolica vengono celebrati i santi misteri, ossia il sacrificio della messa. Ungaretti, da parte sua, cita Mallarmé e Leopardi come esempi di poesia alta, esempi sublimi di complessità e poesia che porta con sé più di un segreto. Poesia, potremmo quindi aggiungere, dei misteri e del sacrificio. Da parte nostra è spontaneo citare il poeta Giorgio Caproni, i cui versi appaiono semplici e addirittura immediati, ma che semplici non sono affatto e ancor meno immediati. Custodiscono invece più di un segreto che emerge da profondità imperscrutabili, in quanto autentica poesia e dunque autentica letteratura: oggetto misterioso sotto molti punti di vista.

È allora opportuno e necessario analizzare, diciamo pure sondare in profondità la scrittura di questo romanzo di Artino Innaria, Non ho tempo da perdere, per capire quali siano i misteri e i segreti che certo l’autore ci fa vedere ma solo in tralice. A cominciare proprio dal linguaggio.

Il linguaggio con cui è stato scritto il romanzo è un linguaggio colto e d’altra parte il taglio che l’autore ha inteso dare alla sua opera è esso stesso colto e raffinato. Il tono è letterario e al tempo stesso pensoso, filosofico, senza risultare tuttavia poco comprensibile o peggio ancora autoreferenziale. Tutt’altro: il testo si legge agevolmente e i capitoli scorrono con semplicità. È appena il caso rilevare che nel romanzo siano presenti diversi livelli di comprensione e che ciascuno si può riconoscere al livello che più gli si attagli, senza nondimeno avvertire la sgradevole sensazione di non averne colto fino in fondo lo spirito. Per fare tra tutti l’esempio più calzante, si legga l’incipit: «Salvatore». È emblematico, poiché ci presenta immediatamente le difficoltà del protagonista del romanzo a venire fuori dall’orto concluso della propria coscienza, della propria soggettività; difficoltà espressa efficacemente proprio attraverso il linguaggio: «Questo è il mio nome. Quattro del mattino. Sveglio». La difficoltà del protagonista può essere colta intuitivamente e può anche essere compresa tenendo conto che l’autore pone a se stesso e ai propri lettori profonde domande filosofiche. La domanda di fondo è questa ed è abbastanza esplicita: cosa dovrà fare Salvatore della propria vita, alla soglia dei quarant’anni? Inizia proprio da qui il dialogo interiore di cui Salvatore è il protagonista assoluto. Sposarsi – non sposarsi, avere figli – non avere figli. La domanda riecheggia sempre uguale a se stessa per tutto il romanzo; le risposte che vengono di volta in volta fornite sono non definitive, ma sempre più pertinenti, e sempre più profonde. Letteratura e filosofia si intrecciano variamente a sostenere Salvatore nella ricerca della verità. Il dubbio diviene sempre più pressante e corrosivo. L’autore finisce per mettere in dubbio se stesso, implicitamente richiamando la lezione del filosofo francese Paul Ricoeur, che ha individuato in Marx, Nietzsche e Freud i maestri del sospetto. Dal profondo della sua soggettività Salvatore osa cioè mettere in dubbio ciò che Cartesio nel lontano XVII secolo aveva salvato e che invece i tre filosofi citati, nell’Ottocento, sospettavano non svolgesse la funzione che da sempre le è stata attribuita, ma potesse piuttosto essere foriera d’inganni. La coscienza. Salvatore si identifica con la propria coscienza: è un singolo che corre seriamente il rischio di rimanere immobilizzato nelle sabbie mobili dei suoi stessi dubbi. A quarant’anni comprende che è arrivato il momento di scegliere, perché in definitiva ha compreso che la vita stessa è fatta di scelte. Dovrà in quindi scegliere tra le infinite opzioni di scelta alle quali la vita immancabilmente ci pone di fronte. Anzitutto, se abbandonare lo status di scapolo impenitente, se cioè abbandonare quella condizione di vita alla quale ha aderito senza scelta: la vita estetica, secondo l’efficace descrizione che ne ha fatta il filosofo danese Søren Kierkegaard. Propendere per una condotta di vita più consona alla sua età e posizione sociale di giudice. La vita etica, se non, addirittura, la vita religiosa. Kierkegaard dice di sé che è uno scrittore religioso. Un filosofo sui generis, come buona parte dei grandi filosofi dell’Ottocento: Marx si occupa di economia, Nietzsche è sostanzialmente un artista, Freud è il padre riconosciuto della psicanalisi.

In questo senso il romanzo Non ho tempo da perdere può essere considerato un romanzo di formazione, poiché Giuseppe Artino Innaria racconta il tentativo del protagonista Salvatore di formarsi un’autentica coscienza di padre. Come il profeta Abramo, Salvatore esce dalla sua terra e va: esce dall’orto concluso della propria coscienza, ma non sappiamo se sarà in grado oppure no di sacrificare il proprio figlio unigenito, la propria idea di figlio solo perché Dio gliel’ha chiesto.

Massimiliano Magnano