La sua più grande e sincera aspirazione era di poter un giorno scrivere prosa nella quale pensiero e musica si congiungessero “come le pieghe della vita nel sonno”. Vladimir Nabokov – l’autore di Lolita, il romanziere russo americano in cui, come dice Martin Amis, talento e genio sono in perfetto equilibrio – aveva tre grandi passioni: la letteratura, le farfalle e gli scacchi, il gioco dove s’odiano due colori. Per genio s’intende la facoltà accordata da Dio di percepire ed esprimere le cose; per talento la tecnica e le qualità incluse in ciò che chiamiamo arte. Voleva sempre rimaner ragazzo. Invecchiare praticando ancora il gioco che gli era più caro nell’infanzia: inseguire con la rete le farfalle. Gioco appreso dal padre, personaggio coltissimo che aveva deciso di opporsi ai bolscevichi e al nuovo corso della storia russa. Quando cercava riposo dalle fatiche letterarie, Nabokov si distendeva sul divano con il corpo in posizione orizzontale. E a occhi chiusi si deliziava con l’immaginazione a formulare “problemi scacchistici”: a comporli e a risolverli. Concepiva in questo modo idee pure, le più pure. Altro che riposo! Era per lui inconcepibile fatica. Sforzi della mente che si aggiungevano alle fatiche letterarie da cui voleva riposarsi. Poi le sue idee, gli intrighi, il mistero della creazione e della soluzione del “problema” prendevano forma sulla scacchiera scintillante di pezzi. Nella “forza rozza” della regina che si trasformava “in un potere raffinato”. Nei cavalli “che avanzavano caracollando alla spagnola”. Nell’ingegnosità delle minacce e delle difese. Negli scacchi matti come “tante pallottole per altrettanti cuori”. Con la stessa forza con cui adorava la letteratura, gli scacchi e le falene sparviero rosa, quelle che gustavano i lillà del giardino di Leshino e che suo padre soleva salutare e inseguire, con la stessa forza, Nabokov odiava e disprezzava Dostoevskij, il corruttore dell’anima russa. L’odio di Nabokov veniva da lontano. Un suo antenato comandava la fortezza di San Pietro e Paolo dove era recluso l’autore dei Demoni; e nutriva la speranza di giustiziarlo. Non potendola soddisfare, la lasciò in eredità ai propri discendenti. E così fu Nabokov a realizzarla. “Giustiziando” – letterariamente – Dostoevskij, come ha scritto Adriano Sofri (Repubblica del 24 aprile 2008). Altri scrittori provarono i suoi stessi sentimenti. Per Kundera il mondo dostoevskijano era repellente: di “gusti eccessivi, di cupi abissi e di sentimentalismo aggressivo”. Per Kazimierz Brandys, scrittore polacco, socialista, Dostoevskij era il principale responsabile del mito della Russia e della sua malata cultura. A Berlino la famiglia di Nabokov emigrò, fu costretta a emigrare per ragioni politiche negli anni venti. E al suo romanzo più bello, Il dono, lo scrittore affida la perfetta descrizione dell’ambiente berlinese degli esuli russi. Era la sua una famiglia decapitata. Del padre, in Russia, si erano perse le tracce. Scomparve un giorno. Pagò con la scomparsa l’opposizione al comunismo. La sua biografia nell’Enciclopedia sovietica terminava con queste parole: “Morto nel 1919”. Morto? Di cosa era morto: malattia, freddo, sete? E in quale luogo? In quale circostanza? Aveva conservato per sé l’ultima sua pallottola o era stato ucciso per mano d’uomo in una “stazioncina dimenticata da Dio”? Era stato fucilato, in qualche orto di notte sotto la luna? Il mistero della morte del padre, il tenerla nascosta a distanza di tanti anni era la fitta più amara, la pena più grave che Lenin, Stalin, la Russia bolscevica, la Storia e il destino potevano infliggere alla sua famiglia. Una pena più forte di quella dell’emigrazione obbligata, dell’esilio. Nabokov aveva quarantuno anni quando, nel 1940, s’imbarcò sul transatlantico Champlain che lo condusse in America. Benché fosse sempre felice di vivere, come tutti gli emigrati portava con sé la nostalgia della sua patria, la Russia perduta, dove ora “tutto era divenuto così scadente, così contorto e grigio”; la nostalgia profonda della splendida casa di Pietroburgo, tra i boschi che l’avvolgevano nella tenuta di Yira. E in più il dolore per la sorte del padre di cui nulla si sapeva e che viveva nel suo ricordo: seduto nel giardino a fumare la pipa dopo l’ora del tè, pronto a dar la caccia alla prima farfalla che avesse visto volare. Alla casa di Pietroburgo, all’eden della sua infanzia, al gioco d’inseguir le farfalle con la rete aperta pensava Nabokov sul transatlantico che solcava l’oceano. Furono per il resto della sua vita in America i luoghi e le situazioni – della nostalgia e del ricordo – a cui tornare e dove spedire Una lettera mai arrivata in Russia (titolo di uno dei suoi primi racconti brevi). Nel 1945 prende la cittadinanza americana e diventa ricercatore entomologo. Per undici anni insegna letteratura russa alla Cornell University di una città che, manco a farlo apposta, si chiama Ithaca. Nel 1955 pubblica il suo romanzo più famoso, Lolita. Favorevolmente recensito da Graham Green sul Sunday Times. Lo stile originale e soprattutto il tema (scandaloso nell’America puritana di quegli anni) della relazione tra un maturo professore e una ragazzina, e il film che poi ne trasse Kubrick sancirono la sua notorietà. Una notorietà che non tardò a infastidirlo e a farlo tornare in Europa. A Montreux, in Svizzera, dove morì nel 1977. Tra i suoi romanzi, Parla, ricordo è forse quello in cui meglio rivive il mito dell’Eden da cui era stato allontanato dalla storia e dal destino. Il mito dell’infanzia. E dell’estasi del gioco da lui preferito: quello di dar la caccia, come faceva il padre, alle farfalle. Gioco che, nel suo voler ostinatamente rimaner bambino, praticò anche in America, da adulto. Gioco che per lui aveva persino qualcosa di sacro. Perché aboliva il tempo e la storia e lo riportava nel luogo dove ogni esiliato, ogni sradicato vuole sempre tornare. Il luogo dove con uno sforzo di sublime universale fantasia, propria soltanto dei grandi scrittori, aveva visto il padre salire il pendio di un monte dopo il temporale, penetrare inconsapevolmente nella base di un arcobaleno, “immerso nell’aria colorata, in un gioco di luce come in paradiso”; e poi fare ancora un passo e uscirne. È l’immagine che riassume l’esistenza d’un grande uomo, della sua famiglia e del figlio scrittore ed entomologo che giocava con le farfalle e che per tutta la vita sperò di ritrovare il paradiso perduto.
(Per scrivere questa nota mi sono servito principalmente del romanzo Il dono e della sintesi di uno scritto di Martin Amis pubblicato su The Times Literary Supplement il 6 gennaio 2012).