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Charles Francois Jalabert, La peste di Tebe

 

Charles Francois Jalabert, La peste di Tebe
Charles Francois Jalabert, La peste di Tebe

 

I giovani e gli amici, durante questo primo plenilunio d’Estate, si sono riuniti sulla terrazza da cui si vede sorgere la luna dal mare Ionio e tramontare dietro il vulcano, per raccontarsi le storie millenarie del Mediterraneo.
Questa sera raccontano la vicenda di Edipo, re di Tebe, che Sofocle inventò circa 450 anni prima di Cristo.
Tebe è afflitta dalla peste, il popolo e il suo re si rivolgono agli dei per trovare il modo di liberarsi da questo male che non perdona, il re è vicino alla sua gente, ha inviato Creonte, fratello della regina Giocasta, a interrogare l’oracolo di Delfi; mentre la folla sosta, afflitta, davanti ai templi e ai santuari da cui si traggono vaticini.
Edipo era stato acclamato re per avere liberato la città di Tebe dal flagello della Sfinge, dopo la morte misteriosa di re Laio. Egli, divenuto re, prese in sposa la regina Giocasta, vedova di Laio.
La popolazione è impotente di fronte alla peste, sa per certo che sono gli dei ad averla scatenata, per punire la città di una colpa di cui il popolo non ha conoscenza.
La peste[i] era, allora, un Male Oscuro, non si sapeva da dove arrivasse, né come, né quando. Uccideva le persone e chi gli viveva accanto, distruggendo affetti e legami, senza alcun rispetto per bambini, fanciulli, giovani e vecchi. Non esisteva cura o rimedio efficace, era una fatalità incombente e imprevedibile che paralizzava la mente della gente. Un gas nervino che uccideva nel sonno e nel buio della notte, capace di penetrare nel chiuso delle mura domestiche.
Per quattromila anni, l’uomo si è interrogato per capire quale fosse la colpa che tanto oltraggio recava alle sue Divinità. La vicenda di Edipo offre una chiave di lettura di questa tormentata relazione, non solo tra l’uomo e gli dei dell’Olimpo, ma tra l’uomo e le sue Divinità di ogni tempo e di ogni religione.
La peste è un ‘male oscuro ’, abbattendosi su una comunità la sconvolge psicologicamente e la distrugge fisicamente. Il Male è ‘oscuro’ perché non sono chiare le sue cause ed è ‘Male’ perché i suoi effetti sono spesso fatali.
Ogni ‘male’ fisico o morale nasce da un’idea errata che conduce ad azioni e a comportamenti che, nel breve o nel lungo termine, producono danno o disaggio a chi le ha attuate.
In questa vicenda, il male si annida nella mente dei tebani, il loro filtro morale lascia passare impuniti tre delitti: l’infanticidio, il parricidio e l’incesto.
L’infanticidio è un delitto contro la società, perché ne mina l’esistenza stessa, più che la fame, la carestia, o la stessa peste. L’incesto è un attentato alla sanità di qualunque popolazione di esseri viventi. Il parricidio è la negazione della morale civile e della pietas. La peste, e prima della peste la Sfinge, sono la rappresentazione simbolica di un’accondiscendenza criminale che conduce alla decadenza.
Questo popolo, spinto dal desiderio di possedere e di apparire, non ha il coraggio di guardarsi dentro e trovare la forza per abbandonare le scorciatoie della sopraffazione violenta, per perseguire il potere, senza pietà né compassione.
La compulsione d’avere giustifica ogni mezzo pur di ottenere. Questa peste del pensiero, distruggendo le coscienze, decima le popolazioni.
Quest’uomo, che non riesce a guardare in faccia la crudeltà dei suoi delitti, è quello che mette i ceppi alle caviglie del proprio figlio, nato da poco, per darlo a un pastore, perché lo porti sul monte Citerone e lì lo abbandoni alla fame degli animali del bosco. Questo perché una diceria malevola aveva insinuato, nella debole mente di un re, che il figlio rappresentava una minaccia al suo potere e alla sua sopravvivenza. Come se ciò non fosse nell’ordine naturale degli eventi !
È questo l’uomo di Tebe, frastornato, che si rivolge agli dei perché vuole capire, vuole sapere per quale colpa la peste minaccia la sua sopravvivenza. Egli volge la mente a un ordine di pensieri diverso da quello con cui gli dei dell’Olimpo guardano le sue vicende di uomo comune.
Loro, gli dei dell’Olimpo, si nutrono di nettare e ambrosia, vivono imperturbabili la loro immortalità e sanno penetrare l’animo umano, con chiaroveggenza ne colorano il destino, il tempo, per loro, scorre senza lambirli e lo spazio non ha confini, né dimensione. La luce, i colori, i suoni e i profumi assumono le tonalità del loro umore, onniscienti e onnipotenti, non tollerano le offese e sono implacabili, amano i doni e le lusinghe.
L’uomo di Tebe, vedendosi stretto tra la vita e la morte per peste, impotente, frustrato, minacciato, disperato abbandona ogni suo avere e occupazione, si mette in pellegrinaggio fino all’ombelico del mondo per interrogare l’oracolo e conoscere la volontà degli dei onnipotenti dell’Olimpo, si spoglia di tutto per offrirlo in sacrificio, e prega affinché gli sia fatta salva la vita. Il potere e la gloria, con cui gli dei hanno riempito la sua vita nel trionfo, improvvisamente, la svuotano nella sventura.
Lì, sull’Olimpo, nella notte dei tempi, quando gli dei hanno tratto l’uomo dalla selva, concedendogli di abitare i contrafforti del loro sacro monte, di cui solo loro dominano la vetta, lo hanno dotato della consapevolezza di essere e della coscienza di esistere. Egli non era più una qualunque bestia boschiva della pianura ai piedi del monte Olimpo, era diventato l’homo sapiens  capace di levare lo sguardo verso la vetta di quel monte, dove regna l’onniscienza, la lungimiranza , la bellezza, e il bene comune. A lui è stata concessa la facoltà di perseguire tutti questi beni, pur restando libero di continuare a vivere nella selva selvaggia. La vita, da quel momento in poi, non è più stata un evento fortuito dell’esistenza, condizionata solo dal verificarsi di accadimenti favorevoli, l’uomo è stato in grado di creare, lui, situazioni favorevoli alla sua vita, e rendersi conto che avrebbe potuto farlo ogni qualvolta le sue necessità lo richiedevano.. Aveva acquisito un potere che lo faceva ESSERE diverso da tutto ciò che gli stava intorno.
Con il trascorrere dei millenni, ad alcuni uomini, gli dei hanno concesso il privilegio di guidare gli altri uomini, ponendoli più vicino agli dei stessi, questi sono i re, che devono sapere. Non possono trascurare quel dono originario degli dei rappresentato dalla consapevolezza di essere. E, soprattutto, di essere re.
L’ambigua colpa di Edipo, è quella di ‘non sapere’ di essere re per diritto dinastico, c’è, anche, una colpa palese, che è quella di essere re per acclamazione di popolo. Tuttavia, Edipo, due volte re, sottace, come mai avrebbe dovuto, le pratiche delittuose del suo popolo, divenendone soggetto espiatorio. Queste, sue colpe, lo allontanano dalla vetta dell’Olimpo, e lo riconducono, nel branco della pianura.
Tutto questo è nella ‘mente degli dei’, ma rimane oscuro al ‘comune mortale’.
È il trarsi, colpevole, nell’ombra dell’incoscienza, per compiere un delitto.
Ciò scatena l’ira degli dei.
L’ira diventa castigo divino, peste inesorabile che costringe il comune mortale a volgere in alto lo sguardo verso gli dei dell’Olimpo, e intraprendere lunghi pellegrinaggi ai santuari dove gli oracoli pronunciano il volere del dio, che il comune mortale non sa intendere, deve interrogare gli indovini, recalcitranti, a loro volta, a rivelare le segrete debolezze degli uomini potenti.
La verità impietosa, peraltro, fa montare lo sdegno del potente colpevole, il vate ne rimane investito.
La realtà verrà travisata e l’evidenza negata, la divinità è dichiarata ostile e oltraggiata.
Per non apparire infame l’umano.
Ai pochi che sanno vedere, gli dei concederanno la fama, nel tempo.

Dal suo giaciglio di fortuna, il Comune Mortale, di ritorno da Delfi, scruta l’orizzonte d’oriente. È smarrito, confuso e sconfortato, la speranza di trovare certezze è svanita, solo indizi, probabilità, parole ambigue.
Interroga l’animo suo, raduna i frammenti di verità raccolti nel suo pellegrinaggio al tempio del dio.
Trova ‘La colpa’ nel regno che abita, non è colpa di un solo uomo, è un costume sacrilego che offende le divinità, il peccato è nel modo di agire e di pensare, nelle tradizioni, nel diritto e nelle leggi.
Il re, che rappresenta il popolo, non sa prendere coscienza dei crimini suoi e del suo popolo. Ma così non è per gli dei dell’Olimpo, che vedono e sanno.
Quando il pellegrino, all’orizzonte d’oriente, scorge i primi, incerti, chiarori. Le parole della Pizia cominciano ad acquisire un significato, nella sua mente.
Corre, verso la casa di Tiresia, per averne conferma. Ma, trova, il Vate sulla soglia di casa, di ritorno dalla piazza dove Edipo lo ha insultato e minacciato, proprio a causa di quella verità che ha preso forma nella sua mente di comune mortale. Egli, di fronte al Vate cieco e umiliato, prende coscienza di aver appena concluso il pellegrinaggio iniziatico della propria esistenza.

Non avremmo avuto nessuna ragione di lasciare la quotidianità dell’estate, e salire, questa sera, sulla terrazza di questo tetto, alla luce discreta della luna, e respirare, a modo nostro, lo spirito di Sofocle, in questa suggestione di Magna Grecia, se, anche noi, non fossimo alla ricerca di qualcosa che ci liberi e ci salvi dall’abbraccio feroce del nostro passato, di potere e di glorie. E, prendere coscienza, dei delitti, celati nelle nostre tradizioni ingannevoli, e scolpite nelle nostre menti che producono le sordide ecatombi d’uomini dei nostri giorni. Vorremmo, scoprire l’etiologia, il meccanismo d’azione e la terapia della peste, con cui un pidocchio, e giammai il Dio che custodiamo, segretamente nel profondo del nostro Essere, ci punisce del tradimento.

 

[i] Nota
Nel secondo millennio prima di Cristo, epidemie assimilabili alla peste hanno colpito gli Ittiti, gli Egizi e sono riportati nei libri della Bibbia.
La peste, è una malattia batterica che viene trasmessa all’uomo dai pidocchi, portati dai ratti. La identificazione del batterio responsabile della malattia avvenne nel 1894 ad opera di due ricercatori, indipendenti l’uno dall’altro, uno Svizzero, Yersin, e l’altro Giapponese Kitasato.
Dove non si costruirono efficienti sistemi fognari la peste non poté mai essere combattuta efficacemente, finché non si conobbero i vettori della malattia e non ci si rese conto che l’agente causale dell’infezione fosse un batterio invisibile a occhio nudo, così si sono potuti approntare mezzi efficaci per debellarla. Gli insetticidi per i pidocchi, e gli antibiotici per curare le persone infettate. Fino alla metà del novecento, non è stato possibile eliminare questa terribile malattia.
Questo ci porta a comprendere come per acquisire le conoscenze utili, cambiare i comportamenti e le abitudini della gente, sono stati necessari circa 4000anni, e ci fa riflettere, come questo emblema di ‘castigo divino ’, in tutte le epoche storiche e presso tutte le religioni, abbia richiesto tanto tempo per finire di essere un flagello dell’umanità.