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© R. Guttuso, Vucciria, 1974.

Di me potete inventarvi quello che vi pare se vi fa piacere perché di sazio, conto e ragione non ne ho mai dato manco all’ombra delle gente, su di me. Io non ho gli occhi spiritati di Cettina perché non me la sono sentita di dare la faccia alle spine come ha fatto lei, a comportarsi come se fosse di tutti e su questo non ci metto lingua. Ognuno della sua decisione è il padrone. Per me potete pure incolonnare a sazietà se vi spasimano le corna. Io sono così, Santa Chiara di Napoli. Sciauriate con comodo, cercartene di accuse e vedrete che perdete fiato. Lo so che le cose la mente li trama al buio, sotto le coperte. Chi sa leggere fra le parole capisce che annunciano motivi che si mettono a fare la musica di ripetere. Lo so che ogni cristiano è un indovinello per chi lo incontra e scontra. Tanto ognuno è libero di dove fornirsi se vuole copiare. Non litigo, perché mi abbastano e soverchiano i fatti miei caduti dal cielo. La gente, bella o brutta o povera sul colpo, in se stessa per me è uguale. Tanto non me ne entra e non me ne esce. Non provate a toccare però la mia famiglia, dalla prima alla settima generazione compresa. Attenzione perché io difendo il mio, con torto o con dritto anche se non finii le scuole elementari.
Rispetto ai miei parenti non voglio sentirmi diversa da loro, non ce l’ho il cervello malato di modernità. Questa è la strada mia che mi conduce giorno per giorno. Io non ho la scienza di Franco perché di computer non ne mastico e non sogno niente anche di notte. Mi dicono che sono una scimmia perchè faccio come fanno le mie sorelle. Per esempio se si ha da portare un regalo voglio partecipare in parti uguali a costo che non mangio, anche se per me è una conoscente invece di un’amica. Se si va a farsi una pizza, devo partecipare in parti uguali anche se mi fermo di pestare coi denti all’aperitivo. Si anche se non ne hanno parlato con me di affittare a mare in agosto e non ci vado, è assodato che sborso la mia parte. Così mi stimo libera. Tutti quelli che sono nati prima di me in famiglia sono più rispettabili di quelli nati dopo, perché nella nostra razza va così, si rispetta l’età perché ha il cervello più impostato. Se mia nipote Ginevra si compra una camicetta, ne compra due, una per lei stessa e una per il resto della famiglia a piacimento di chi la vuole. Solo la taglia cambia e il colore. Anche se non siamo gemelle, e di sorelle ne ho tante, non mi chiedo se i loro gusti sono buoni perché già dalla nascita il modo di fare lo abbiamo uguale, siamo la stessa cosa, lo stesso sangue. Noi partiamo alla crociata appena circoliamo fuori, anche uscendo da soli. Ognuno nel suo cuore rappresenta il gioco che nonno Luca ci faceva recitare. Chiedo poco alla vita per esempio passeggiare, fermarmi davanti la vetrata dei negozi anche se so che non me ne posso comprare perché non sono invidiosa e manco facoltosa. Questo me lo aveva insegnato nonno Luca a riconoscere il meglio, il bello. Dicono che prima di me entra il mio sorriso, che ce l’ho sempre sulle labbra pure quando dormo. Certamente, che forse non è vetrina dove mi girano i piedi? L’attorno? Quando viene il momento che trovo insieme agli altri sono semplice, sono senza riserva e per questo chiunque mi vuole bene perché non faccio paura. Non mi fingo malata per non sporcarmi le mani a lavorare, ad aiutare. Non mi fingo stanca, non mi fingo sbalordita, non mi fingo mai perché sono rimasta la nipote preferita di mio nonno. Spero di morire in questo modo. A lui gliene hanno fatto a chi può fare fa, dagli amici alle figlie e alla moglie. Non mi ci troveranno mai ad ascoltare le loro accuse, cambio stanza. Anche se vero era, a me risulta che ogni mattina lo aspettavo al balcone bella pulita e mi portava a passeggio in via Libertà a scegliere, solo nei negozi di lusso, sia vestitini che giocattoli. Appena mi stupivo il sorriso, faceva musica con anulare e mignolo ed il commesso si posizionava davanti a me. Quando mai uno schiaffo, quando mai un’occhiata fissa? Gli squagliava la bocca dicendo:
“Che sei bella.. che sei intelligente.. che sei elegante.. che sei brava…sei tutta nonna di nome e di fatto!”

© R. Guttuso, Vucciria, 1974.

Mi ci sentivo e ho l’impressione che forse anche oggi mi ci sento quando mi penso e quando lo penso. Mi stralucevano le palle degli occhi appena lo vedevo sin da lontano, mi allargavo costole e naschi perché profumava anche a ricordarmelo e forse ho l’impressione che profuma ancora. Oggi però i naschi me li allargo quando mi sento pizzicata. Tanto che io ho dato importanza a chiunque che tutti gli altri pure mi pensano come mi sentivo quand’ero con lui. Qualcuno fra i presenti non gli avete dato dell’assassino ma di peggio. Griderei come nella foresta. Ma com’era prima di diventarci? Che còlera gli diedero che si guastò il cervello? Di qualsiasi cosa si sa di lui, tranne questo. Vero e proprio a chi ha interessato di conoscere il maledetto motivo? Se ci penso mi infrasco il cervello. Chi me l’avrebbe potuto raccontare mia madre che non si arrabbiava mai? Mio padre che mi diede un solo colpo di cinto quando seppe dal mio ritardo che mi si era svegliata la natura per il fidanzato? Chi mi ha fatto allenare il cervello a studiare sulle cose? Per questo sto muta e non mi viene di giudicare e mi accontento di dirmi:
“Ormai è acqua passata, mettici una pietra sopra.”
Già mi sento fortunata che li porto a spasso con che cosa somiglio a loro. Già di lusso mi va che li copio nel loro modo di fare. Ho la salute di una scecca, che voglio di più? Per forza si deve soffrire? Qui in questa gioia di terra mi ricreo a guardare in cartolina la neve, sto a braccia di fuori estate come inverno. Mi vengono le doglie all’idea di posare le spalle altrove quando sarà il mio momento. Di sicuro mio nonno la via della speranza si cercò verso Genova, non fu per tradimento. Prima di partire mi raccontava:
“Chi mi partorì ai tempi della fame nera, se per miracolo mi comprava le scarpe nuove, me le sceglieva di misura stretta assai, perché camminandoci sopra il cuoio avrebbe ceduto e sarebbero diventate una barca e in più non avrebbe potuto sfruttarle per mio fratello. Allora io mi spostavo con le dita dei piedi quasi piegate e mi fiorivano i calli. Piangevo ed aspettavo senza scampo che la sua pietà mi salvasse. Quando cominciai ad avere la ragazza e studiavo come muovermi elegante davanti lo specchio, feci la guerra per comprarle al numero giusto. Poi si facevano barche come previsto. Quando fu con i miei soldi che dovetti scegliere mi venne la felice idea che per non restare deluso nel tempo, per non avere l’ombra dei calli mi dovevo comprare direttamente le barche, una misura in più. Ricordati che siamo sempre dentro una barca. Le scarpe in sé e per sé non sono un problema. Per prima cosa ti imparai a nuotare per sbarazzarti delle scarpe e pure ai miei figli”
Ora ditemi può essere descritto cattivo in quanto tale?
Oppure cattivo è chi ascolta una voce che pare vento che se ne va, che se ne frega di un ultimo desiderio? Oppure disonesto e cattivo è chi si faceva orbo al supplicare dei miei occhi pieni di lacrime mentre gli stringevo la mano e commentava come a fare un comizio:
“Vedi vedi questo cornuto, sta avendo i piedi tesi e ha i desìi di un’ incinta. Cazzolina, la ricotta col siero vuole… Non gli passa per la capa che deve chiedere a noi tutti perdono invece di spennarisi!”
Ce l’ho all’orecchio la sua malinconia di ricotta, fino a quando muoio io ce l’ho. Ma io li ho inculati tutti. Me lo passai lo sfizio perché se una donna era incinta e si spennava di desiderio, succedeva il finimondo, lui si metteva in macchina e di notte e notte correva a Catania, a Napoli e si dava pace quando gliela portava. Corsi da quelli che erano stati la sua Famiglia, da quelli che anche se lo ridussero a zero per Principio di etichetta della Cosca, si operarono al da farsi. A tappo come un lampo, e stum me la misero nelle mani la benedetta ricotta. Io volai, speravo di trovarlo ancora vivo. Lo imboccai col cucchiaino beato com’era e qualche minuto dopo spirò sazio.
Io poco amo in quanto al numero di persone e molto per la quantità e la qualità. Ho preso da lui il modo di sfogarmi me è tutto rumore il mio :
“Ti faccio a fette, ti squarto, ti sfregio, ti cavo un occhio”
E’ tutto cinema se mi mordo l’indice, se do pugni e calci ai mobili, mi sembra più vero e mi sfogo e mi calmo. Chi mi conosce lo sa e mi ride in faccia al punto che alla fine rido pure io. Lui non lo diceva quello che dico io, forse lo faceva fare. Pari pari ho il suo vocabolario, quello che mi immaginavo che diceva a secondo di quello che sentivo raccontare. Perché lui a tu per tu per me era bonazzo anche quando faceva sparire qualcuno. Non può essere che faceva un bene a farlo scordare? Secondo me una persona non può essere solo buona o solo fradicia può anche essere un poco di questo un po’di quello. Tutto sta a vedere che cosa gli guardiamo e gli occhi che ci mettiamo. Volendo mio nonno iniziò per senso di giustizia perché prima di arricchirsi lui, di bocche quante ne sfamò? Sicuramente più di quelle che fece zittire. Sicuramente che lui era come, aveva fiducia anche se poi doveva pensare che esistevano i tradimenti e si guardava le spalle. Una volta la mia migliore amica mi fece le scarpe. Quando me lo spubblicavano le altre persone, non ci credevo ma siccome quella campana del discorso mi suonava a ogni bocca che me lo faceva capire con il resto della faccia, mi sentii in dovere di appurarmi. Una sera d’estate la invitai a prenderci un semifreddo a tavolino nel bar più meschino, però debbo aggiungere che mi ero tenuta pronta in caso di sua ammissione del fatto. Avevo recapitato da amici un registratore a lungo respiro ma tanto piccolo che entrava in un pugno. Dopo proposi una lunga passeggiata in onore della luna piena sulla spiaggia perché avevo un cece nello stomaco. Anche se aveva il carbone bagnato accettò. Il breve fatto, glielo masticai col modo fino cioè:

“Dobbiamo sviluppare chiaro la diceria delle malelingue. Da quanti anni ti ripeto che sei per me una sorella? Lo sai che il caffè non diventa mai acido. Devi essere sincera perché nella vita c’è chi non ha sbagliato? Ne ho sentito di tutti i colori. Sicura c’è la morte e la parola d’onore. Ti ascolto”
La specie di stoccafisso me lo confermò. Se vi puntualizzo quello che le feci starete male e vi voglio risparmiare. Tremavo prima di spegnere il registratore. Mi si stramutò lo stomaco. Per farla corta non ebbi più cosa distruggere del suo corpo che era quello di chi mi aveva tradito. Mezza morta allungata sulla spiaggia la lasciai. Il sangue le usciva a cannolo non so neanche da dove. La lasciai perché la cosa più bella per me era quando si guardava di nuovo allo specchio, quando le sarebbe finito il prurito da ricordarsi più dell’ultima volta che fu…..ma quale testimone poteva portare. Le dissi:
“Mi devi dimostrare che sai vivere come un pesce. Lo sgarro… Ma con chi ti sei messa? Come fu che non ti passò per la mente di chi sono nipote? Io ce l’ho nel sangue mio nonno e se non fu abbastanza la prossima volta non farò manco sforzo. Lui fu declassato per una troia nordica ma i familiari li abbiamo sempre a disposizione e a volontà quelli coi pom pom. Dentro di me, dentro l’ombelico il suo modo di fare è sempre vivo”
Avevo una forza da potere spezzare le ossa davanti al tradimento. Qui lo confesso, non mi sento in colpa per niente anzi mi è sembrato che ho fatto il mio dovere. La notte non chiusi occhio, non per paura che si fosse saputo o di finire a manette ma perchè la legge dice che ognuno deve cercare la Polizia prima di far male, difarsi difendere con processo, con le cause. E perché? Forse quell’animale era andata a chiedere il permesso alla Polizia prima di farsi la barba, di farmi del male? Ho scritto Gioconda sulla fronte? Mi sono vendicata di mia iniziativa, gliel’ho data giusta la lezione, le imparai l’educazione. Pagai con la stessa moneta. Così successe che in quel fazzoletto di terra ognuno si mangiò la castagna e si fece i fatti. Pure a chi me lo aveva soffiato il fattaccio tremavano le natiche. Per chiedermi scusa senza parole si fece trovare all’aeroporto qualche giorno dopo, come se niente fosse stato di fronte agli altri. Come il miele:
“Vieni che ti accompagno a casa ho qui la vettura”
Io tirai avanti come se lei era trasparente. Aeroportuali e locali mi guardavano la reazione, perché sapevano alla muta muta. Mentre che non se lo aspettava e mi seguiva mi girai e l’ammazzai con lo sguardo. Lei faccia tosta si inginocchio:
“Perdonami”
Peggio fu. Mi raccolsi la saliva e la sputai in un occhio:
“Non ti permettere più di calpestare dove passo io altrimenti hai i giorni contati”
Pareva un teatro, che so un cinema, tutti mi battevano le mani. Forse fu questo che andò a vivere chissà dove lei e il crasto di suo marito. Dicono che le donne hanno il tempo che trovano. Se si fosse tirata l’elastica non si sarebbe rotta? Andavo a cercare la Cosca o me la sarei sbrigata di petto? Non lo saprò mai perché fu l’unica volta che non fui, bella, brava e buona. La verità è che nessuno di noi figli o nipoti abbiamo ereditato il suo coraggio e nessuno ha avuto poche idee e chiare. Visto il risultato della sua vita ci siamo contentati di perder ee di straperdere, di campare alla giornata lavorando onestamente e umilmente, perché nessuno di noi aveva avuto una preparazione di mestiere, nessuno aveva avuto scuola. Con ciò la notte dormiamo tranquilli. Per quanto riguarda la parte di mia nonna a parte il nome mi è rimasto di allargare i naschi quando prendo la parola, come se ad ogni istante parlassi come spesso soltanto mia nonna aspettava di essere servita. Magari magari io non mi aspetto neanche di essere ascoltata e sono l’unica che porta il suo nome e sono quella che porta il suo anello di rubino, anzi lo tengo nel cassetto del comò. Non voglio che gli altri lo vedono perché quando si tratta dei miei nonni mi pare di essere dentro una favola che non è stata scritta. Quando vedo un fim di mafia mi sembra che mi arriva l’ossigeno, sono come quella che vorrebbe correre ma è paralitica. Mi domando e dico.
“Se a quella io l’avessi scannata in quella spiaggia, che differenza c’è tra farlo con una o con cento o farlo fare ad altre persone?”
Quantunque, come ripete Cettina, chiunque mi fotografa con:
“Bella, calma, sensibile, buona”
Quantunque ne sa più di me, di me.

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).