Quella mattina la mamma di Rita entrò raggiante nella stanza e si sedette sul letto senza parlare. Rita pensò che senza dubbio doveva esserci una buona ragione se sua madre ignorava il fatto che fosse sabato e una volta tanto avrebbe potuto prendersela comoda. Colazione alle 10.00 significava Quante Storie, o forse questo era prima.
A giudicare dalla faccia di quella donna, Rita sospettò dovesse esserci dietro qualcosa di grosso ma il suo compleanno sarebbe stato solo domani e non era sicura di trovarsi sulla stessa linea d’onda di sua madre quanto a “cose grosse”.
«Ebbene?».
Ebbene qualcuno aveva pensato che se la ragazza avesse ricevuto il dono sabato, avrebbe avuto almeno ventiquattr’ore di tempo per riflettere su come avrebbe “ringraziato” il mittente domenica. Perché quando si riceveva qualcosa bisognava sempre ringraziare! Era per questo che l’avevano sempre imbarazzata i regali, tanto più quando provenivano da qualcuno verso cui non avrebbe mai voluto essere debitrice. Perché era poi quello il senso: sancire un rapporto asimmetrico di supremazia morale a fronte di una sottomissione al più magnanimo dei due, ricco e potente tanto sul fronte economico quanto etico, a dire “tu credi che io stia donando ma invece sto comprando”. O almeno, il tizio di turno sta proponendo un’offerta, un baratto. Il contratto verrà redatto e firmato nell’esatto momento in cui si risponde “grazie” e si allunga la mano. Donare procura titolo, scriveva Giomason Rasar. Ma poi finiva sempre che la cinica era lei.
Ma questa del “titolo” allora l’aveva intrigata. Che titolo, a essere che, a dire che, a fare che? Non si fa un regalo per sentirsi dire grazie. Anche quella era comunicazione.
Certe volte si cerca un sorriso e la convinzione che l’altro stia pensando a quanto noi siamo importanti per lui o lei, allora noi stiamo cercando di ottenere benevolenza, un ruolo di rilievo nella vita dell’altro. Vogliamo dirgli che ci prodighiamo per lui/lei che dunque è importante e allora noi dovremo essere importanti altrettanto perché abbiamo bisogno di essere considerati tali e non sappiamo come raggiungere questo obiettivo rapidamente senza misurarci con la nostra finitezza, col tempo che passa e il timore di essere scavalcati da qualcun altro o dai nostri difetti o dalla stessa relatività della vita.
Certe volte altre, è un’iniziazione. Chiediamo di entrare nella squadra, di far parte di quel vortice dal confine ambiguo e dalle regole precostituite che, una volta accettate, si dovrà rispettare. L’appartenenza. È forse per questo, si chiedeva Rita, che quando ci si lascia a volte qualcuno chiede la restituzione di tutti i doni fatti? Come a dire “non sei più parte della diade, restituiscine le insegne”? A cosa si acconsente accettando un regalo?
Poi ci sono quelle volte in cui si va ben oltre, come quando il padre di un ragazzo che partecipava a un concorso per vigile urbano aveva portato una torta in casa di un assessore molto influente presso quel Comune, cogliendo l’occasione delle ubriacature generali per una festa “religiosa” in paese. In casa trovò la madre dell’assessore che senza batter ciglio mise il veto e il prodigo padre dovette lasciare la torta lì fuori davanti alla porta. Quella storia gliel’aveva raccontata un amico, con ammirazione per quella donna avveduta e coraggiosa. Ulisse al cospetto di Circe. Rita era sicura che sua madre avrebbe reagito con il canonico educato “grazie, non doveva premurarsi” ma mentre che c’era non si poteva mica buttare e, sempre mentre che c’era, avrebbe gradito un caffè? Perché sarebbe stato maleducato rifiutare un regalo, che figura avrebbe fatto? L’Osservatorio giudicante dell’occhio sociale non reputava desiderabile respingere la generosità, soprattutto se le fragoline erano fresche. Certo non si sarebbe voluta trovare lì al momento di selezionare i vincitori del concorso, a chiedersi se avrebbe dovuto o no influire sull’esito. E se ciò che veniva richiesto al destinatario di turno non fosse così palesemente manifesto? Se fosse oggetto ambiguo appartenente al sottosuolo di sottili intenzioni?
Rita detestava ricevere da chi non gradiva, soprattutto quando si trovava costretta a non potere rifiutare perché il mittente era un parente che manifestava il suo presunto affetto. Si creava quell’odiosa dinamica di riconoscenza verso qualcuno per cui si voleva fedelmente mantenere la patina di rancore. Rancore e riconoscenza non vanno molto d’accordo e non si può ringraziare e accusare contemporaneamente senza essere scambiati per pazzi o, peggio, ipocriti.
Una volta al liceo le era capitato di accorgersi che “dono” derivava dal greco dosis, col duplice eloquente significato di dono e veleno. Persino in una lingua di diverso ceppo come il tedesco, gift assumeva entrambe le sfumature di senso, nel rispetto della doppia faccia di questo primordiale gesto. Sin dall’antichità esso non era mai concepito nella sua generosa unidirezionalità ma comportava sempre un vettore a doppio orientamento: chi riceveva doveva dare, era la legge filogenetica e universale della reciprocità; e a veicolare il vincolo era l’oggetto e l’insieme dei vantaggi da esso simboleggiati. Ne andava della sopravvivenza (o della convivenza pacifica) delle tribù, e il prezzo da pagare per l’inclusione nel cerchio magico era l’accettazione del sistema di doveri che comportava. Parola di Marcel Mauss.
Ma quando Rita quella mattina entrò in cucina pregustando il sapore del cappuccino e vide entità e mittente del pacchetto sul tavolo, decise che allora a predominare tra tutte le motivazioni di quel gesto c’era decisamente la smania esibizionista di chi ha un’alta considerazione di sé e crede di poter ottenere tutto ciò che vuole.
Decise che si sarebbe presa tempo, quantomeno per non guastare la colazione.
«C’è un biglietto a tema con una citazione di BelenRodriguez!»
Il proposito di portarsi la tazza fuori dalle radiazioni elettrocristosanto non l’avevano immunizzata dalla constatazione di sua madre, che tuttavia ammise che forse quello era un po’ troppo, forse, un po’.
«Ma scegliete Cicerone, Rimbaud, Wilde! Agli occhi di chi la Rodriguez può avere legittima autorevolezza!?» se lo chiese e preferì non rispondersi.
«Dice: “Regalare una stella è il regalo più originale e sorprendente che una donna possa mai ricevere”».
Rita decise che non avrebbe permesso a uno scarto di “progresso” di guastarle la digestione e pensò che dopotutto, se quella donna non ambiva a altro nella vita, forse avrebbe vissuto meglio. Non mancavano certo esibizionisti a questo mondo né Paperoni. Era solo che quel particolare regalo le aveva scatenato un altro vortice in zona “acquistare stella”, che proprio non intendeva mollare.
Fu il regalo di diciottesimo compleanno di una sua compagna di classe a opera del fidanzato chic. Era il problema di tutti gli abitanti dell’Asteroide 328, nell’universo del piccolo principe – che poi lì su ci stava solo l’uomo d’affari ma in fondo quello era un vero e proprio affare – dove a forza di fare ti dimenticavi o non facevi più caso a perché lo stavi facendo, e svuotavi di senso il gesto. L’uomo d’affari diceva di possedere le stelle così da essere ricco e poterne comprare altre. C’era pure la banca delle stelle, piena di pezzetti di carta chiusi a chiave in un cassetto, e il possesso non aveva altro fine se non il possesso stesso. E che non pensasse l’uomo di essere utile alle stelle! Nel fagocitante delirio consumistico si auto-illudeva di aver voce in capitolo anche lì, ma forse era solo una difesa dall’angoscia di essere infinitamente sempre più piccolo e insignificante. La solita tattica degli struzzi. A proposito di compravendite e banche, pensò Rita, Saint-Exupéry aveva lì precorso i tempi. Ciò che nel 1943 sembrava assurda e surreale allegoria aveva cozzato contro la straordinaria capacità umana a non dar mai fine al peggio e colpiva, ora che ci pensava meglio, che la prima edizione di quella fiaba francese fosse del ’43. Insieme a sigarette, chewin’ gum e fagioli in scatola, gli Alleati ci avevano lanciato anche il loro mondo. Il commercio è commercio e le abitudini da consuetudine ubbidiscono alle persuasioni occulte che ci inducono a ordinare Coca-cola o aranciate, o a mangiare nei ristoranti dove possiamo ordinare cavallette tunisine impanate con condimento di vermi freschi e pidocchi sul rosso dell’uovo fritto, scriveva ancora Giomason Rasar. Ma non si trattava solo di questo. Rita propendeva anche per l’ipotesi della tendenza esibizionistica dell’ostentare il tutto proprio perché si stringeva il niente. E cosa di più niente poteva esserci se non un pezzo di carta che sanciva proprietà illegali a dispetto dell’illusorietà più volte dichiarata dall’International Astronomical Union, sola organizzazione a detenere il diritto di dare il nome alle stelle, nome che, se non appartenente alla tradizione araba o greca, era quello di chi quella stella l’aveva scoperta! Angela, Federica, Diego, non erano che voci registrate nell’archivio del sito a cui ci si rivolgeva, la “banca” delle stelle, ma non avevano nessun riconoscimento altrove, men che meno nei cataloghi ufficiali, e campeggiavano su certificati della stessa validità di un progetto fatto a casa in Power Point o Word. E se solo un ente legittimato dalla comunità scientifica internazionale poteva battezzare una stella, non c’era creatura al mondo che la possedesse: come vendere ciò che non si aveva?
I prezzi andavano dalla cinquantina di euro del pacchetto base e saliva se vi aggiungevi la dedica personalizzata, la foto a colori della stella, la cornicetta, la collanina, il portachiavi, se sceglievi una delle stelle principali dalla costellazione preferita, se era una supernova, sino ai 400 euro di spesa per auto-pigliarti per il culo e sentirti quello che non eri.
«Ma almeno vuoi aprirla o no?».
«Se la aprissi, mamma, non potresti più riciclarla!», ma più ci pensava più Rita si convinceva che avrebbe voluto che a riciclarla fosse lo stesso tipetto che aveva avuto quella (per restare in tema) brillante idea. Non voleva alimentare quel ridicolo delirio onnipotente né voleva fare il pesce che abboccava all’amo pur di addentare il gustoso vermicello (o la parte del bellimbusto troiano intento a ringraziare Apollo e sordo al tintinnare delle armature dentro la pancia del cavallo di legno che avanzava dentro le mura). Voleva essere come la mamma dell’assessore. E non avrebbe aspettato il giorno del suo compleanno.