Per chi non lo conoscesse il pallone elastico (ora, chissà perché, ribattezzato “pallapugno”) è un antichissimo gioco sferistico praticato in un territorio molto ristretto: le Langhe ed il Roero, Cuneo e Monregalese (in provincia di Cuneo), alcune (poche) località delle province di Alessandria ed Asti e la città di Torino (in Piemonte), l’entroterra di Savona e di Imperia (in Liguria). Simile, come regole, al tennis (ma senza la rete), si gioca tra due squadre di quattro giocatori (battitore o capitano, spalla, due terzini) ciascuna, che, in un campo (ma in alcuni paesi era la piazza) delle dimensioni di 90 metri per 16 e fornito di un muro laterale (detto “di appoggio”) alto almeno 12 metri, devono battere (bate) e rispondere (arcassé) una pallina di caucciù del peso di circa 190 grammi, servendosi esclusivamente del pugno, opportunamente fasciato. La figura fondamentale e carismatica della squadra è ovviamente quella del “battitore”.
Di questo gioco ci hanno dato testimonianza letteraria Edmondo De Amicis (col racconto I rossi e gli azzurri), Beppe Fenoglio (in alcuni suoi racconti) e Giovanni Arpino (che ne ha tratto gustosi articoli). Ancora oggi è lecito scommettere al totalizzatore dello sferisterio, e un tempo (mais ou sont les neiges d’antan?) vi si perdevano anche vacche e cascine…
IL VECCHIO E IL BATTITORE
Sono strana gente questi italiani del Nord.
(E. Hemingway, The torrents of Spring, cap. 3)
Siamo arrivati nella piazza che il sole bruciava: bruciava i sedili dell’automobile, bruciava i nostri occhi che cercavano di vedere l’insegna di un’osteria, bruciava le schiene dei vecchi seduti sulle panche intorno alla chiesa, nella piazza di questo paese che si srotola tutto in su, nell’attorcigliarsi dei tornanti della strada provinciale.
Fermai l’automobile davanti alla chiesa e, saltato giù nella polvere, allontanai con la mia mano un paio di foglie che si erano fermate sul vetro davanti, quasi a coprire il lucido nudo di un vetro che rifletteva dentro se stesso gli alberi intorno ai tavolini del dehors dello «Scudo di Francia».
«Troppo caldo, il dopopranzo. Te l’avevo detto di fermarci giù, nella piana, a riposarci all’ombra, in qualche osteria, e salire su poi stasera, con il fresco». Gli faccio io, mentre osservo l’insegna dell’osteria.
«Ho troppo poco tempo, io. Non potevo certo aspettare stasera. Non sono più giovane come una volta: ogni minuto può essere il più bello e io non posso rischiare di perdermelo, no». Il suo difetto più grosso è quello di gridare, invece che parlare. Ma non gridare da arrabbiato, perché quello deve essere il suo modo naturale di esprimersi, o probabilmente è quello di tutti gli americani. Chissà.
«Entriamo qui, che mi sembra pulito, e fresco, soprattutto»
Dentro faceva davvero fresco, con quel buon sentore di vino, di cantina, di piscio di gatto, di segatura.
«Che vino avranno qui?»
«Buono di sicuro. Lo sai che da queste parti il vino è tutto buono».
«Fanne portare un litro, allora. E due bicchieri. Che sia limpido, il vino, e puliti, i bicchieri. Diglielo: limpido e puliti. Diglielo. Non far solo finta di dire una cosa e poi ne dici un’altra. Non vi conoscessi, voialtri italiani…»
Ordinai il vino, limpido. E i due bicchieri, puliti.
«Come si chiama questo vino qui? Chiediglielo tu. Che stupidaggine non conoscere le parlate locali, ma solo l’italiano. Che stupidaggine, l’italiano. L’italiano è una lingua buona per tutto e buona per niente. Una lingua à tout faire. Come una puttana. Diglielo, quello che ne penso io dell’italiano».
«Me amis a dis che l’italian a serv a pòch. A ringreta ’d nen savèj parlé a nòsta mòda.»[1. Il mio amico dice che l’italiano serve a poco. Rimpiange di non saper parlare come noi.]
L’oste lo guarda soddisfatto: sembra che incominci a piacergli, il mio amico. E così mi spiega vita morte e miracoli del suo vino.
«Questo vino si chiama Quagliano. Lo fanno in un paese qui vicino…». L’oste ci risponde guardandoci come si guardano i matti: meglio non dar loro troppo retta, ma neanche farli arrabbiare. Sull’italiano non si pronuncia: forse non sa neppure cos’è.
«È buono. Diglielo. Gocciola giù come il miele. Diglielo. Si potrebbe parlare con questo ragazzo che tutti esaltano?»
Il padrone ha allargato gli occhi come due botti a sentire quello che gli ho detto ed è corso fuori a parlare allo zio di questo ragazzo, di questo battitore del pallone che tutti lodano. Lo zio è seduto su di una panca, all’ombra.
«Adesso lo manda a chiamare. Ma, ascolta, sarà molto difficile, te lo dico io, che lui, questo qui, il battitore, venga…»
«Ci mancherebbe solo questo. Lo sai tu come correvano gli espada quando sapevano che io volevo intervistarli, o anche solo scambiare due parole con loro? Sarà una cosa da diventare famoso…»
«Qui non siamo in Spagna. Siamo in Piemonte e vedrai che…»
«Tutte balle. Me ne frego di dove diavolo siamo. Vedrai come verrà. E di corsa. Buono questo vino. Ordiniamone un’altra bottiglia, ma fa’ attenzione che non ci freghi. Che non creda che siamo già ubriachi e che io non me ne accorga se mi dà del vinello o della brodaglia invece che del vino come si deve».
«Mi hanno detto che non ha tempo».
«Chi?»
«Il ragazzo. Il battitore del pallone. Deve lavorare. Sta tagliando il grano. Per questo che non ha tempo».
«Per me deve aver tempo. Digli che lo mandino di nuovo a chiamare e che gli dicano che per me deve avere il tempo e che gli paghiamo anche da bere. Ma deve avere il tempo. E che me frego se sta falciando il grano. Fosse anche il raccolto del Paradiso. Anzi…»
«Cosa c’è?»
«Fa’ portare qualcosa da mangiare. Cosa avranno di buono?»
«Cosa avete di buono da mangiare?»
«Acciughe al verde, peperoni, tomini e formaggio nostrale, frittata di erbette, pane e salame…» Il padrone avrebbe ancora continuato. Si vedeva proprio che ci teneva davvero.
«Digli di portare tutto quello che ha. Facciamo merenda. E anche un’altra bottiglia, uguale. E digli anche che è invitato anche il battitore. Basta solo che venga…»
«Non verrà. Te lo dico di nuovo. Ha da lavorare».
«Deve venire. Sono Io a dirglielo. E ad invitarlo».
Il padrone arriva con un piatto da portata pieno di roba da mangiare. Ha una faccia che non si capisce se preferisce che restiamo o che ce ne andiamo.
«Non verrà. Qui sono persone strane. Vedrai».
«Non più strane degli spagnoli o dei turchi o dei neri africani. Li conosco tutti, io, questa razza. Buono, questo. Come si chiama?»
«Sono dei peperoni con la bagna càuda. Non verrà. È inutile. Finiamo di mangiare, paghiamo e ritorniamo da dove siamo arrivati. Ascoltami, dammi retta, per piacere».
«Fagli dire che ci sono anche i peperoni con la bania cowda. Non è vero che verrà, padrone?»
«Se ha detto di no vuol dire di no. Non verrà. C’è da giurarlo. È uno che ha una parola sola». Adesso si capisce proprio che il padrone preferisce se ce ne andiamo per la nostra strada.
«Lo senti? lo dice anche lui. Non verrà. Inutile che lo aspettiamo. Finiamo e andiamo a casa».
«Figurati se si lascia scappare l’occasione di essere intervistato da me e di finire sui giornali o dentro ad un libro, con tanto di fotografia. Di sicuro non è scemo».
«Non verrà. Io la conosco, questa gente. Se ha detto così vuol dire che è così».
Il padrone, lo si vede bene che ha paura che alla fine litighiamo tra di noi e che, forse, non gli paghiamo neanche il conto. Non vede l’ora che ce ne andiamo per la nostra strada.
«Adesso finiamo questa bottiglia e andiamo via, non è vero?». Strizzo l’occhio al padrone, che torna a ripeterci che il battitore se ha detto così vuol dire che è proprio così. Forse stasera, dopo cena.
«Gli diamo ancora dieci minuti. Il tempo di vedere il fondo di questa bottiglia qui. Ma come è possibile che si perda questa occasione… gli espada…»
«Qui non siamo in Spagna. Qui siamo in Piemonte».
«Ma l’Italia assomiglia alla Spagna. E l’italiano allo spagnolo».
«Ma qui siamo in Piemonte È differente. Molto differente».
«Va bene. Anche questa bottiglia si vede che è forata al fondo. È già finita. Facciamone portare un’altra».
«Lascia stare. Torniamo indietro, piuttosto. Tanto non verrà».
Dopo aver pagato siamo usciti sulla piazza e il sole era già un po’ meno bollente, ma l’automobile era lo stesso un forno.
«Non è proprio venuto, ’sto imbecille. Ha perso l’occasione migliore di tutta la sua vita».
«Te l’avevo detto che qui siamo in Piemonte, e non in Italia, o in Spagna».
«Hai ragione anche tu. Com’è già che lo chiamano, quel vino?»
«Quagliano. Ti è piaciuto, a te?»
«Un sacco. Buono da matti. Solo in Italia sanno fare dei vini così».
«In Piemonte, li fanno». L’ho corretto io, mentre prendevo la strada per Cuneo e lui incominciava a muovere ritmicamente la testa di qua e di là.
«È stato davvero stupido quel ragazzo a non venire. Adesso, sarebbe famoso in tutto il mondo, con la mia intervista».
«Mah. Diciamo famoso in America, visto che il tuo giornale si legge in America».
«Chi è famoso in America è famoso in tutto il mondo. Che stupido». La lingua gli si girava già in bocca.
«Adesso basta. Dormi tranquillo e fatti passare la sbronza, mentre io ti porto all’albergo, Ernest»
«Gente strana, questi italiani del Nord. Devo segnarmela questa idea: un giorno o l’altro mi tornerà utile…»
Adesso il suo russare si faceva sempre più regolare e sembrava quasi accordarsi con il battere della luce delle stelle sopra le colline.