Non sempre le mie letture sono seguite da osservazioni di carattere narratologico: alcuni libri possono piacere, ma non innescare quella miccia propulsiva che conduce a stendere una recensione, un’analisi linguistica o quant’altro. Restano letture gradevoli da aggiungere allo scaffale della libreria, magari declinate in argomento di futile discussione al bar con un’amica, tanto per aiutare la memoria a non smarrirle.
Altre, invece, ristagnano tra i pensieri anche a fine libro, accompagnano le giornate mentre personaggi e azioni si sedimentano nella mente unendosi a gesti e frasi della quotidianità e rendendo, quei gesti e quelle frasi quotidiane, elementi accessori.
Col trascorrere delle ore ci si arrende piacevolmente a questa sedimentazione e quella lettura già conclusa si trasforma in esigenza di scriverne.
Leggendo IL TRENO DEI BAMBINI di Viola Ardone, edizioni EINAUDI STILE LIBERO 2019, è accaduto qualcosa in più: personaggi e azioni hanno mentalmente dato vita a continui fotogrammi da cinematografia neorealistica.
Il treno del titolo è quello di un secondo dopoguerra italiano che trasporta alcuni figli di famiglie indigenti meridionali da un sud Italia bombardato ad un centro-nord già avviato alla ricostruzione, per affidarli provvisoriamente a famiglie più agiate in grado di sollevarli dalla miseria almeno per qualche mese invernale.
E’ il Partito Comunista ad occuparsene, in nome di una solidarietà motivata forse anche da esigenze politiche post belliche.
Uno di essi, all’interno della finzione narrativa, è Amerigo Speranza: ha sette anni, vive nel rione Napoli con la madre Antonietta, donna rigida, di poche parole perché la parola non sa essere arte sua.
Sarà proprio la madre, arrendendosi all’evidenza della propria miseria, a catapultare Amerigo su uno di questi treni, convinta che il distacco sarà di breve durata. Invece la separazione si rivelerà insanabile e non solo dal punto di vista geografico.
Il testo offre livelli di lettura storico-sociale facilmente individuabili. Ma ciò che qui preme sottolineare è l’atteggiamento che Amerigo assume nei confronti dei suoi due mondi: quello di Napoli, che lo ha forgiato nei primi anni di vita, un mondo di povertà assoluta ma in cui, tuttavia, si riconosce perché, non avendone altri, non sa cosa sia il bisogno; e quello nuovo del nord Italia, dal quale guarderà al mondo primigenio con distanza, necessaria ad avviare la ricostruzione di una identità vacillante.
Già sul treno appena partito Amerigo assapora i primi disagi. Al momento dell’appello, gli viene chiesto il cognome paterno:
-
Mia mamma Antonietta dice che è partito, la Pachiochia che è scappato… – Scriviamo disperso, allora?
-
Si può lasciare bianco, così quando torna lo aggiungiamo?-chiedo io. La signorina non risponde, alza la penna e passa al rigo sotto. – Il prossimo, – dice. Pg. 46
E’ l’illusione di chi, ancora bambino, ha fiducia che le cose belle possano sempre accadere e risolvere certe intermittenze, riconsegnare alla linea del tempo le sue sequenze mancanti.
Il treno è un altro personaggio letterario, con la lentezza del suo incedere, l’alternarsi di giorno/notte e di umori e odori, con il paesaggio mutevole al di fuori del finestrino, a guisa di fotogrammi cinematografici in lenta successione, in attesa di un montaggio definitivo.
Il luogo chiuso e definito dello scompartimento costringe i bambini a sguardi frontali e a un immediato confronto delle proprie reazioni al nuovo.
Sono bambini strappati ad un mondo, seppur povero e babelico nel suo annaspare alla ricerca della sazietà, comunque determinato, riconosciuto come proprio.
Li attende un cosmo indefinito, farcito di mito e aspettative che un po’ piacciono, tanto spaventano:
Mi faccio di nuovo il corridoio per tornare al mio posto. Non entro: c’è un sediolino nel corridoio, mi metto là e attacco la fronte al finestrino. Fuori è buio, non si vede niente. Chissà dove stiamo, quanto siamo lontani da casa e quanto manca ancora ad arrivare, non si sa nemmeno dove. Il vento è freddo e umido e la mia faccia si bagna. Meglio, così se mi viene da piangere nessuno lo capisce. Maddalena invece se ne accorge, si avvicina e mi accarezza. Forse il sonno non è voluto andare nemmeno da lei.
- Perché piangi?-dice. – Ti manca mammà?
Io nascondo le lacrime ma mi tengo le carezze. – No no, quando mai, non piango per mia mamma, – dico. – Sono le scarpe. Sono le scarpe strette.
-
E perché non te le togli ora che è notte, così stai più comodo? Il viaggio è assai lungo.
-
Signurì, grazie, ma tengo paura che se le fottono e devo andare un’altra volta scalzo o con le scarpe di qualcun altro. E io, con le scarpe degli altri, non ci voglio andare più. Pgg. 51-52
Anche qui, come in tanta letteratura, il treno assolve al compito del pagamento di un simbolico dazio: per capire, devo andare via.
Il linguaggio con cui è narrata la vicenda appartiene al bambino, è lui l’io narrante, quindi è un linguaggio mimetico, calato nel reale, costruito su frasi brevi, lessico ristretto, frequenti incursioni del dialetto napoletano nella lingua italiana e giudizi pungenti, lapidari, al limite della parabola biblica e rappresentativi dello sguardo impudente e trasecolato dei bambini davanti al nuovo. Un mirabolante stupore che tanto ricorda la luna pirandelliana scoperta all’improvviso:
Dal buio viene una luce che brucia gli occhi. Il treno è uscito dalla galleria e una luce grande illumina tutto di bianco. La strada, gli alberi, le montagne, le case. Dall’alto scendono tante molliche, più grandi e più piccole. –‘A neve! – dico per farmene capace io stesso. –‘A neve, ‘a neve! – ripeto a voce sempre più alta. Ma nessuno si sveglia, nel mio scompartimento. Nemmeno quello con i capelli gialli che aveva detto che ci portavano in mezzo alle case di ghiaccio. Lo vorrei vedere mo, lui e la Russia! Attacco di nuovo la testa al finestrino e seguo le molliche di pane che scendono lente lente. E così gli occhi finalmente, si chiudono.
-‘A ricotta… ‘A ricotta.
Mariuccia mi viene a svegliare gridando. – Amerigo! Amerì… Scètati, ci sta pieno di ricotta a terra. Per la strada, sopra agli alberi, sopra alle montagne! Piove ricotta!
La notte è finita e dal finestrino arriva un po’ di sole.
- Mariù, ma quale provola e ricotta? E’ la neve.
- ‘A neve?
- E’ acqua congelata…
- Come quella che vende il carretto di Don Mimì?
- Una specie, ma senza l’amarena ‘ncoppa.
Gli occhi mi si chiudono dal sonno. Fa freddo adesso dentro al treno. Tutte le creature stanno a guardare il bianco fuori, senza fiatare e con la bocca aperta. Pg. 52
Crescendo Amerigo, cresce la distanza dal suo mondo di analogia napoletano, e cambia il linguaggio: bonificato dai dialettismi, diventa indicatore di scalata sociale.
In questo processo di chiarificazione interiore, a fare da fil rouge alle vicende ci sono le scarpe di Amerigo: usate e strette e deformate da altri piedi non suoi, oppure nuove e comode e da plasmare finalmente ex novo, le scarpe sostituiscono i piedi scalzi, scandiscono la scalata verso l’emancipazione e i punti di frattura di un amore materno indigente di cose e affetti, colpevole di un ostinato silenzio.
Il dolore ai piedi va scomparendo con l’evolversi della vicenda, ma il sollievo fisico sarà inversamente proporzionale allo scioglimento degli interrogativi.
Non importa capire, non verrà ricomposta la lacerazione.
Il processo dialettico innescato dalla partenza forzata culminerà nell’autocoscienza di Amerigo, oramai adulto, di dover restare figlio di una madre claudicante nella sua espressione d’amore, silente e pragmatica per necessità, ma capace di non amare altrimenti che così.
Un’assoluzione liberatoria arriverà, comunque.
Maria Bucolo