Le solite goliardate, per noia, per scherzo: perché non facciamo una seduta spiritica? Dai, che facciamo prendere uno spavento a Letterio che ci crede a queste cose, s’impressiona, si spirta. Tavolo che balla, soffi alle orecchie nel buio, ventriloquìe cavernose. Guarda, possiamo evocare anche il Liotro, se vuoi… Accura, che se salta da lassopra si rompe le gambe! Il collo, che le gambe le fanno! Già una volta gliele rifecero. Gli facciamo fare la corsa coi cavalli, che poi ci facciamo polpette sulla brace di via Plebiscito … Ah Ah!
M’addormo che sono ancora sovreccitato, per le risate, i fumi e gli spiriti, quelli non necessariamente metafisici, sono stanco morto ma fatico a prendere sonno, scivolo pittosto in un insonno denso e appiccicoso. Le parole dette e sentite si animano, prendono forma, spazio, concretezza, come scope di stregone picciotto spratico, sono mie ma non le controllo, pigliano iniziative, si ribellano, mi scimìano, mi buffonìano…
Il Liotro si stacca dallo stilobate, con un balzo me lo trovo dinnanzi, fa un inchino, quando si alza è una figura d’uomo, viso e fisico asciutti, occhi spiritati, Eliodoro? Mi vedo da fuori, ho toga e cappello da giudice, assiso sullo scranno ligneo nel sagrato della cattedrale, condividono la responsabilità nella giuria strani personaggi che mi scrutano, mi leggono, pendono dalle mie labbra, apprendono del procedimento da quello che io racconto loro, come se fossi coro di tragedia, come se io fossi uno che racconta e loro, voi?, dei lettori o spettatori. Due fuochi accessi ai lati proiettano ombre sinistre sulla facciata movimentata del Vaccarini, animando statue barocche e colonne romane, facendole danzare.
L’imputato si difende da sè. Se se la sente…
«Fino a quando, o giudici, si abuserà del mio nome? Per quanto tempo ancora una tale congerie di accuse, una siffatta mirabolante sequela di iperbolici capi d’accusa, una cosi spudorata collezione di ingiurie braveggerà sulla mia memoria?
Se poi non si volesse tener conto dell’inconsistenza e incongruenza delle accuse, resterebbe da spiegare il fatto incomprensibile della persistenza del nome, Liotro, tanto da restare pervicacemente attaccato alla tradizione, confuso e travisato dal passare delle generazioni, ma risorgente, come un fiume carsico, o ingrottamento lavico, come l’Amenano, come la fenice: la città ha dimenticato il vescovo sedicente taumaturgo e tenuto l’Elefante, col nome del suo fantomatico padrone, ancora una volta ritorto, rinfuso, rievocato a simbolo della municipalità addirittura, e di una municipalità così irriverente di tutto, quanto devota della sua appartenenza. Come giudicate tutto ciò possibile, per il nome di un mago che terrorizzava i cittadini?
E non mi lamento, qui e ora, della riconoscenza della città, ma da uomo di lettere, fede e verità non riposo ad essere additato a mago burlone, una specie di spiritista prestigiatore, un giullare maligno, un rigoletto sulfureo…
Vi mostrerò, se me ne date il tempo, o giudici, in questo tempo che mi date e che vi rubo, sono condannabile per questo?, vi mostrerò per intere la accuse, singolarmente e nell’insieme, e come siano state ingigantite e contorte, come ombra di candela fa sui muri con le falene ignare facendole sembrare mostri, vi descriverò come gli addebiti furono riciclati e fatti buoni per tutte le imposture, per tutte le verità contumaci, con una perseveranza risibile e tragica allo stesso tempo, ricopiando a pappagallo imputazioni già logore, lise dal tempo, mostrando scarsa fantasia anche nel condannare la memoria degli sconfitti, nell’inventare una verità postuma a giustificare soprusi e misere lotte per il potere, questo sì vero diavolo tentatore, più e meglio di quelli che per essere evocati hanno bisogno di fantasiose formule cabalistiche e stilìtiche cerimonie a effetto.
Quest’anima condannata prima che dannata, questa voce che grida nel deserto della menzogna, e che si pone in questo istante umilmente davanti a voi in giudizio, dopo secoli e fuori dai secoli, quest’uomo schiacciato dall’accusa fin quasi a scomparire, egli fu travisato fin dal nome, ché attribuire nomi è prendere possesso, possessione, come insegnò Mnemosine o come permise il Creatore al primo uomo, e come ogni scriba e scribacchino sa e perpetua.
Non Eliodoro, ma Teodoro fui battezzato, da agiata famiglia cristiana di origini gentili; molto viaggiai, per studiare, conoscere, comprendere, amici e nemici, ché nulla è tutto in questo mondo, ogni perfezione nasconde ombre e ogni nefandezza s’ammanta di buone ragioni. Conobbi in gioventù, è vero, sapienti giudei, che professavano conoscenze arcane, alcune risibili, altre incomprensibili, ancora altre concretissime, comunque sforzo impari e imperfetto per confluire, da diverso rigagnolo, alla Suprema Verità. E devo testimoniare che molte delle accuse loro mosse dal mondo cristiano sono quantomeno frutto di interessate autogiustificazioni del potere, non dissimili da quelle che sono oggetto di questa difesa: la mia conoscenza della lettera ebraica fu presa come prova di magia, mentre era solo sforzo di comprensione di un mondo diverso, e pur comune radice della Parola rivelata.
Conobbi d’altronde anche la lussuosa quanto lussuriosa Costantinopoli, le sue complesse, subdole, feroci lotte che stridevano con la ieraticità delle pose, con la divinità del mandato a governare l’Impero e la Cristianità, con quel battesimo nudi che anche i potenti pur avevano ricevuto. Ebbi modo anche di disquisire con sapienti maomettani, della loro teologia, dei loro costumi, e anche, è vero, anche della loro idiosincrasia per le immagini: non mi conquistarono le loro ragioni, ma sì mi convinsero le loro accuse: i nostri monaci avevano fatto delle icone e delle reliquie dei ricettacoli dei soggetti ritratti, oggetti partecipanti della natura santa o divina dell’immagine, in pratica degli amuleti (altro che fattucchiere e negromanti), insomma degli idoli, con, per sovrammercato, il commercio di essi, e il conseguente arricchimento in questo mondo, e il negozio di potere per mezzo dell’oro accumulato… non devo certo raccontare io le corruzioni che in tutte le epoche membri della classe sacerdotale, prima e dopo e come Simon Mago, perpetrarono!
Ebbi l’onore di essere chiamato in giovane età, ma in forza dei miei studi, alla corte dell’imperatore Leone III, detto poi l’Isaurico, anche lui ingiustamente, ma non voglio qui prendere la sua difesa, dico solo che molte delle false accuse e imposture lanciate nella sua direzione si ritrovano nelle mie. L’Imperatore, per quanto uomo nuovo, si rivelò buon amministratore e ancor migliore stratega, altro e altrettanto significativo Martello a oriente, capace come quel Carlo a occidente di fermare l’avanzata dell’Islam militare, del quale merito fu derubato dai posteri a causa della immeritata fama di iconoclasta e eresiarca, che più di lui meritò suo figlio. Invece l’Imperatore voleva semplicemente che si mettesse freno alla simonia delle icone e delle reliquie, ché fede ci vuole e non legno di barca, e che si smettesse, o che almeno non portasse a fatti di sangue, la lotta già veemente tra iconoduli e iconoclasti, almeno fino ad apposito concilio, in cui trattare della questione più dal punto di vista teologico e meno da quello delle fazioni politiche, perturbatrici dell’Impero. Questione teologica cui era, devo dire, poco interessato, quanto era invece interessato a limitare la potenza che stavano accumulando i monasteri, con il commercio di immagini, e con l’induzione alle donazioni in morte, in compravendita di paradiso per mezzo di soprusi. In questo forse l’Imperatore sottovalutò la forza della fede popolare, falsamente semplice e non poco fittamente intessuta di tradizioni, miti e superstizioni.
Io non era immune, è vero, dalle sottili questioni poste dagli infedeli, e anche nella Scrittura, al culto delle immagini. D’altro canto, avevo avuto modo di vedere come il cristianesimo si fosse esteso anche per la capacità di fagocitare miti e superstizioni, incamerandole nella tradizione cristiana, anche in quella parte poco evangelica ma fortemente suggestiva dell’arte, che ormai era tanta parte del corpo vivo santo e imperfetto della cristianità: non ero quindi disposto a spingere fino alla violenza le buone ragioni contro i venditori di santini.
Tornato a Catania trovai la sede vescovile deserta da anni, e la comunità divisa e incapace di eleggere il nuovo vescovo. Un benedettino ravennate, Leone anche lui, predicava contro gli iconoclasti con tutto l’armamentario consueto della denigrazione, proponendosi addirittura come vescovo. Fece l’errore di scagliarsi contro i Pagani, che ancora avevano un ruolo nel governo della città, e che lo fecero bandire minacciandolo di arresto. Riparò sui Nebrodi, a Longi, Sinagra e poi Rometta, dove preparò il suo ritorno, raccogliendo da eremita ingenti somme col commercio di immagini e di guarigioni. Come altre volte doveva ancora accadere nella storia, il piccolo cenobio benedettino diventava potente e ricchissimo monastero.
Io intanto avevo acquisito qualche fama di sapiente, nella mia città, e mettevo a frutto le mie conoscenze eredità del mio peregrinare nelle terre d’oriente, a servizio della cittadinanza. Alcune di queste conoscenze furono dipoi prese a seme di accusa: i mercanti del Lune e del Pisco mi portavano le monete per capire se erano di buona lega, e spesso li dovevo disilludere, e questa fu tramutata in accusa di essere io a pagare le mercanzie con metalli e pietre preziose che si tramutavano in vile pietra di lava appena mi allontanavo dal banco, come se le monete d’oro puro non fossero sterco del diavolo al pari e forse più delle false.
Avevo portato con me degli unguenti disinfettanti, dono di un medico giudeo della corte vituperato in salute quanto benedetto in malattia, maleodoranti ma capaci di alleviare le affezioni cutanee parassitiche, comprese quelle del cuoio capelluto, che guarito tornava a ripollire capelli: mi accusarono di far crescere i capelli con la magia o di far diventare calvi per dispetto; il fatto che Leone calvo lo fosse davvero e lo nascondesse con parrucche di ottima e costosa foggia, e che una volta mi capitò di farlo notare, impigliandomi non senza dolo, nella sua stola, servì poscia a corroborare l’accusa: lo smascheramento, goliardico disvelamento di verità, tramutò in cupo frutto di magia.
I miei viaggi a corte, lungi dall’essere veloci e agevoli, unitamente alla mia abitudine al bagno, appresa in oriente, mi valsero successivamente, l’accusa di trasportarmi magicamente a Costantinopoli, semplicemente tuffandomi nelle fontane, per spuntare addirittura in mezzo ai bagni dell’imperatore, o scappando dentro al catino per lavarsi, quella volta che, dicono, sfuggii alla condanna imperiale. Come fa uno capace di piegare così lo spazio a morire poi sul rogo?
Una volta smascherai il trucco durante una corsa di cavalli al circo, su cui un nipote di Leone, pure nepotista, aveva scommesso ingenti somme: il cavallo era stato drogato con intrugli vegetali capaci di tirar fuori tutte e definitivamente le forze dalla bestia, che aveva vinto, e subito gli inservienti brigarono per nascondere il misfatto, preparando una veloce macellatura e trasformazione in polpette da arrosti e mangia: chiesi allora di lasciare il cavallo al plauso della folla, e questi dopo un ultimo salto sulle zampe posteriori, esalò l’ultimo respiro e cadde morto, una bava verde e gelatinosa colò dalla sua bocca digrignata sui denti sporgenti; la fecero successivamente diventare una accusa a me, di aver evocato io un demone in forma di cavallo, e che alla fine della corsa il demone si fosse disvelato prima di svanire lasciando una tipica traccia verdognola: ma che senso ha? Evocare le più potenti forze del male per interferire con le scommesse, per far vincere immeritatamente un nemico, e poi mostrare l’inganno di fronte alla moltitudine? Chi gliele scrive queste accuse? E chi se le beve?
Un elefante nano, di pietra, simbolo antichissimo della città, e che da giovani scolari ci divertivamo a cavalcare, un po’ per goliardia, un po’ per orgoglio di cittadini, fu trasformato dalla propaganda dei posteri vincitori nell’animale del mago, capace di spaventare i cittadini. Simbolo antico, più di me, più della cristianità, forse fenicio, o egizio, legato al culto di Iside che cavalca l’elefante, o ancora più ancestrale, l’Atena parte della Grande Madre Trina delle società matriarcali raccoglitrici, del saggio governo del femminile nella società sulla irruente ma effimera virilità maschile. Ebbi l’idea, né io il primo né l’ultimo, di innalzarlo su una colonna al centro del sepolcro degli eroi, l’Heroon di Teocle o Evarco fondatori della città, calvalcato dall’obelisco che era stato mèta del circo, falso egizio ma utile all’uopo, per farne una meridiana, eliotorno; raccontarono poscia che avevo io stesso, in cima alla colonna invocato il maligno servendomi di una formula magica consegnatami da un mago ebreo. Ma dico, che racconto attorcigliato: evocare un demone con formule esotiche cavalcando un elefante nano di pietra in bilico giusto in cima a una colonna… come se il male non fosse già dentro di noi, a portata di mano, per la via comoda, di calata…
L’accusa più sapida rimane quella dei fuochi posteriori della moglie di Eraclio, messo imperiale: dicono che a seguito dei continui viaggi in Sicilia che suo marito era costretto a fare a causa mia, avesse fatto un giorno a me le sue improvvide rimostranze, e che io mi fossi vendicato facendo spegnere ogni fiamma in Constantinopoli per tre giorni, e facendo che tutte le vampe si concentrassero nell’aulico deretano della consorte di Eraclio, e che per tanto tutta la metropoli venisse in piazza ad accendere la propria torcia al fuoco magico sprigionato senza posa dall’altolocata sieditura. A parte credere di una moglie che recrimina la presenza del marito, è possibile che non si intravveda tra le trame del racconto iperbolico, una trattazione allegorica, neanche troppo velata, della lussuria della corte bizantina? E’ vero, io mi ritrassi un dì dalle profferte della donna, e lei ne rimase offesa. Ma qui risalta il racconto d’altri fuochi della donna e di come in tanti la aiutassero a spegnerli, e non della vendetta di un mago, che non aveva motivo di usare cotanto potere di evocatore di demoni per così prosaiche, umane e umanamente esaudibili, esigenze!
Ma torniamo al nome. Devo quello di Eliodoro alle mie povere e obliate prove letterarie, che invece ebbero qualche riscontro all’epoca, e nelle quali qualcuno riscontrò echi del grande Eliodoro di Emesa della stirpe di Eliogabalo, e delle sue Etiopiche o Amori di Teagene e Carichia; convertitosi, divenne anch’egli vescovo e fu oggetto di impostura postuma, poiché cercarono di misconoscere nello scrittore lascivo il sant’uomo, e viceversa. Accettai quel nome come pseudonimo d’arte, un po’ pregiandomene, un po’ per prendere le distanze anch’io dalla mia umile opera. Ero affascinato, lo confesso, dalla bellezza dei miti greci e delle splendide vestigia ancora visibili in Catania, a cominciare dal magnifico tempio di Cerere, nei pressi della platea Achillea. E pur riconoscendo la stoltezza del trasfondere i miti pagani nel cristianesimo, non ero insensibile alla bellezza dei miti, delle loro immagini, delle loro architetture. Anche questa mia debolezza fu tramutata in una ennesima calunnia: quella che, oltre ad essere seguace di Maometto e di Salomone, fossi anche seguace di Elios, Apollo e Dionisio, e chi più ne ha…, e che volessi perciò portare dentro il cristianesimo gli antichi culti pagani, come se aspettassero me per farlo, come se non fossero già intramati nella tradizione, inestricabili, come cancro inoperabile.
Leone e i suoi seguaci avevano più volte tentato di abbattere il tempio di Cerere (perché le immagini adorate dagli altri erano idoli demoniaci, solo quelli adorati da lui e i sui erano incarnazione della divinità…) e ogni volta la popolazione era insorta, sentendosi legata all’abitudine, alla persistenza del manufatto, all’identità del luogo, ben oltre il legame religioso, non potendosi non dire greci. Raccontarono dipoi che fossi io a comandare i tumulti, o, più di questo, a scatenare terremoti, evocandone il demone dell’Etna, per impedire la demolizione. Un terremoto per impedire la distruzione del tempio: ma vi pare credibile?
Comunque, pur Leone lontano da Catania, le fazioni non scomparvero; il partito delle icone, foraggiato da Leone, si fece sempre più violento spingendo coloro che erano semplicemente critici verso l’adorazione delle immagini nelle braccia dell’iconoclastia, e i tentativi di abbassare l’asprezza della lite e di giungere ad un saggio compromesso non ebbero esito: le tensioni tra fazione latina e quella greca aggiunsero legna politica al fuoco religioso. Insomma Leone fu richiamato e gli fu offerta la mitria vescovile, come ultima possibilità di riconciliazione mi propose di diventare suo vicario.
—Eliodoro, tu sei la pietra preziosa, variante del berillo, simbolo del Sole, di fedeltà e carità, novello Berillo, il tuo anello vescovile ne sarà adornato… — mi disse, e io mi feci ingannare, per amor di pace, notando però una perizia nelle questioni di preziosi che mi parve inadatta, anche se troppo comune, ad un monaco eremita e ora pure vescovo. E se io ero Berillo, lui, che mi ordinava, chi si credeva di essere?
Ebbene, avevamo fissato la cerimonia della mia elezione a vescovo ausiliario, da celebrare sul sagrato della chiesetta della Vergine, ricavata dei resti delle terme Achillee, la folla desiderosa di pace ma ancora esaltata dagli scontri delle opposte fazioni, affollava la Platea Magna. Leone aveva fatto accendere due fuochi in grandi bracieri ai lati dell’altare, cosa consueta, a mo’ di candele liturgiche, anche se a me parvero subito eccessivi. Mi unse troppo abbondantemente con l’olio crismale, che mi sembro però di scarsa qualità, poiché faceva uno strano odore, come l’unguento per i pidocchi… Anche la stola che impose, sembrava pesante e unta dello stesso odore. La cerimonia procedeva mentre nuvole di piombo si affollavano nel cielo che prima era limpido come sa esserlo a Catania. A un certo punto cominciò con una strana orazione e una processione di icone e di reliquie uscì dalla chiesetta sul sagrato: era contro gli accordi, dovevamo evitare ogni esasperazione dello scontro; la folla comincio a mormorare, qualcuno cominciò a gridare contro le immagini, altri, ben preparati e armati furono fin troppo solleciti nel sedare gli schiamazzi. Fui afferrato da due soldatacci, che avevamo schierato come simbolo del potere civile, fu a quel punto che Leone lanciò la sfida:
—Facciamo così, o Eliodoro, buttiamoci entrambi nel fuoco, chi sopravvivrà sarà il rappresentante della vera fede e tutti si avvederanno…
—Ma… non sta scritto: Non tentare il Signore Dio tuo? Tu faresti come il demone che tentava il nostro Signore nel deserto?”
—Chi ti credi di essere? Tu evocatore del Maligno, tu seguace di Maometto e Salomone, tu distruttore di sacre immagini, tu lascivio scrittore d’amore, tu…”
—Ma che c’entra il letterato, pur colpevole, con il negromante e poi con l’eretico…—provai a difendermi.
Ma non me ne diede il tempo, mi afferro per la stola che aveva posto sulle mie spalle e mi trascinò sul braciere a manca, la preparazione usata come unguento, come sacro crisma, e la stessa stola colpevolmente impregnata presero subito fuoco, e nel frattempo fui pugnalato alle spalle dalla soldataglia, per cui caddi nel braciere, e resi l’anima al Creatore.
Il teatrante Leone, che aveva indossato abiti fittamente tramate d’oro e scarpe di piombo, passò indenne sul suo braciere a dritta, e la prestidigitazione ebbe il suo applauso. Altro sangue fu sparso tra la folla, sicari mascherati da asini e falchi scannarono i maggiorenti iconoclasti e pagani della città. La platea si riempì di sangue che colò nell’Amenano tingendolo di rosso fino al mare. Nei giorni seguenti, ciò che rimaneva del tempio di Cerere, quello tanto magnifico da essere oggetto delle attenzioni di Verre (almeno a credere a Cicerone: altra mistificazione?), fu malamente abbattuto, gli splendidi marmi ridotti in calcina, la sua memoria condannata a sprofondare per risorgere dalle ceneri, come fenice, secoli dopo, ormai Badia di Sant’Agata…
Sola consolazione che le mie ceneri fecondano ancora la Platea Achillea poi piazza del Duomo, il mio simbolo e nome risuona tra i visitatori che si riposano “sotto la funcia dell’elefante”, delle matricole che gli lavano le posticce pubenda, dei cittadini che se lo sono imposto a ‘marca’. Mentre il Taumaturgo Felino ebbe le spoglie portate via a Costantinopoli da Giorgio Maniace, insieme a quelle di Sant’Agata, ma mentre quest’ultime tornarono per mano di Maurizio, un altro Vescovo che la sapeva raccontare, le altre non tornarono mai più, presero piuttosto la strada di Roma, caput mundi et immundi.
Non chiedo, o giudici, di essere creduto sulla parola, chiedo solo: è credibile la storia che io racconto in mia difesa, almeno quanto quella raccontata contro di me? Voi giudici che conoscete la Storia e la sua pervicacia nel ripetere l’inganno e il sopruso, l’impostura per guadagno, la costruzione postuma della verità a giustificazione del potere tronfio, voi giudici, potete credere interamente alla storia tramandata dai vincitori, più che a quella che avrebbero da raccontare i vinti? Magari anche costoro tralasciano qualche scampolo di verità, magari anche loro trasfigurano i fatti alla luce dell’immagine di sé che vogliono perpetuare, ma possono essere definitivamente condannabili? Possibile che nessun dubbio incrini il giudizio dei posteri? Voi siete la Storia oggi, voi che raccontate questa storia, voi che la leggete: ditemi: nessun dubbio che Teodoro-Eliodoro-Liotro non sia quel mago negromante che fu dipinto e che Leone non sia propriamente il taumaturgo che si dipinse? E il simbolo dell’elefante, capace di riesumare un mito, aldilà dell’impostura? Non vale nulla? Raccontatelo allora, raccontate una diversa possibile verità, anche solo il dubbio lenirà l’ingiustizia secolare, la pena della cattiva fama, l’amaro fiele della denigrazione.»
Assolto, certo, come si poteva condannarlo? Io giudicai non colpevole, almeno per manifesta insufficienza di prove. I miei colleghi a latere applaudirono, qualcuno fischiò, sentenziarono, ma ebbi l’impressione che giudicassero me, più che l’imputato. Mi ritrovai trasportato nel mio letto, appena sveglio, trafelato, impressionato. E io che volevo spaventare Letterio….
La mattina dopo, tornato alla luce eclatante del sole mattutino che proiettava decisa l’ombra del Liotro sul già rovente basolato della piazza, però, un dubbio mi venne: come aveva fatto a suggestionarmi così? E comunque una pantomima di seduta spiritica c’era stata, una qualche magaria…
Vuoi vedere che, dopotutto, totalmente innocente poteva non essere, il quasi-vescovo-martire-iconoclasta-mago-contastorie Teo/Elio-d-oro, qualche potere di evocare doveva pur avercelo, almeno sulla mia mente impressionabile di quasi-contastorie, impostore!, impostore lui e io che gli do retta, impostori tutti i contastorie e anche voi lettori-giudici, quantomeno correi del patto scellerato, troppo propensi a sospendere l’incredulità razionale durante il racconto e troppo solleciti ad archiviare, finita la recita.
Maurizio Cairone