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S.re-Bommarito-Val-Stura-tempera

La mia condotta. L’avevo dapprima conosciuta per sentito dire, dalle parole vaghe ed un po’ sontuose con cui l’impiegata USL ci intratteneva. Una signora compita e silenziosa, che a scatti roteava i suo occhi, bloccandoli in un interrogativo cortese ma lei dottore è proprio disposto a tutto? A volte improvvisamente si alzava e la lunga coda dei capelli, stretti in un nodo alla radice, serpeggiava come una biscia, spuntata misteriosamente a guardare chi non se l’aspettava, tra gli anfratti delle ordinate scartoffie. Sorretti dal suo oracolo infine ci allontanammo, andando incontro all’aria nitida e come imbalsamata dal lucido sole di marzo.

 

I miei assistiti: un gregge sparso li definirei. Sperso in cinque piccoli comuni, con quei limpidi nomi che fraternizzano tra i boschi della valle Stura: Gaiola, Moiola, Valloriate, Rittana, Roccasparvera. E’ toccato a noi assisterli nelle vecchie case dei loro Municipi, tra il ’90 e il ’91, ricondurli ad un puntuale appuntamento. Alle tre di notte, proprio all’inizio del nostro mandato, veniamo cercati. Bussano insistentemente al sig. dottore e piangono che non hanno altri cui rivolgersi. Dalla finestra seguo il Martino che s’impenna tutto perché non sa spiegarsi. Proseguo con lui senza parole. Muta anche la nostra strada sembra precipitare nel burrone che la fiancheggia. Mi aggrappo allora alle sue indicazioni. Ma il Martino, che è venuto a cercarci a piedi, ora nella nostra macchina non si raccapezza più. E’ per la nonna ci spiega, che ci ha un tumore allo stomaco. Le brucia e non riesce proprio a dormire. Stamattina poi in ambulatorio quasi tutti sono venuti a cercarmi, per cose di poco conto, più per incontrarci penso… Ho visitato Elena. Dietro di lei, aspettano il proprio turno altri semplici montanari. Solo Laura impacciata non sa spiegarsi, ma tossendo alla fine ci confessa che soffoca da un mese. Ascoltiamo sul suo scheletro toracico un sordo ronzio di api annegate nel miele. Se l’immagina pure lei che è piena di catarro. Dopo Elena c’è ancora Teresa che aspetta: una ragazza anemica e bruna. Qualche giorno prima ci aveva chiamato per le vertigini. Le avevo trovato la pressione bassa. Sembrava tutto lì il suo disturbo, ma il giorno dopo venne a raccontarmi che ci aveva la visione doppia. Allora avevo approfondito la sua conoscenza, ripetuto l’esame obiettivo, cercato i riflessi col martelletto. E la ragazza per tutta risposta ci aveva riso in faccia. Anche prima, ad ogni punto che con perizia le avevo sollecitato durante la visita, aveva sciolto una risata canterina. Voleva convincerci forse che la vita è davvero comica, anche quando viene ad avvelenarci le feste. Ora è ritornata col referto del neurologo. Vi leggo il deficit di parecchi nervi cranici. Ma la famiglia ha solo capito che s’è fatta la TAC, suggerita dallo specialista con tenace insistenza. Il suocero se l’era fatta perché aveva un tumore.

 

Quando chiudo l’ambulatorio ho ancora una lunga afflitta nota di visite domiciliari da esaurire: incontri con le febbri d’autunno, con le coliche e le congestioni. Un approccio ben più scarno e asciutto verso taciuti pensieri a volte ci sorprende. Ma quando arrivi a questo punto non è più necessario il solito blocco di ricette o il velo trasparente di una lastra sospesa per aria. Avrà avuto trent’anni il figlio della signora Anna e s’era impiccato. Ha lasciato la moglie incinta del primo figlio. E nessuno che avesse sospettato niente. Chissà che cosa potrà fare il valium due gocce! Sono allora rimasto a Paschera con la signora Anna invecchiata improvvisamente, accanto alla camera del morto, a cercare le parole. Poi ho continuato il mio giro. Tota Gioanina in chiesa ha avuto un colpo, che le ha fatto perdere la parola. Ora però dice che non sente più le formiche correrle lungo il braccio. Mi racconta che aveva avuto paura che le entrassero in bocca e per questo s’era tenuta serrata in gola la saliva, con la speranza che il dottore venisse presto. Vuole sapere che cosa è stato. Vorrebbe che le rispondessi che non è stata la pressione. Ma lei non attende la nostra risposta e ci sorride perché ha trovato la terapia giusta. E ce la sussurra con gioiosa determinazione: passerà più in fretta se ogni giorno l’andiamo a controllare. Seguitiamo per i casolari della valle. Luisa è un’infermiera che ha lavorato alle Molinette e da poco s’è trasferita a due passi da casa e non viaggia più. Ci parla del suo mal di testa. Ci confida che prima o poi finirà per fare la TAC o qualche altra più moderna invenzione. Mi racconta di quando andava in città col freddo e col caldo, sempre in lotta con le coincidenze puntuali. Sola col buio vestito delle ventitré addosso, nella stazione che sospettosa agitava la sua coda di animale infreddolito. In quell’ora lì tutto può accadere e solo i disperati vanno in giro o le infermiere al loro primo incarico, come dice lei, con un libro sotto braccio e con tanta buonavolontà.

-Me ne andavo così, facendo finta di nulla e con una paura addosso che non le dico….

Quando le si parò davanti un individuo che le sembrò ubriaco. Mentre la notte, spessa e fuligginosa, si appendeva ai cornicioni della città, rendendoli più ostili di quanto non fossero.

-Restai allora pietrificata, incapace di fuggirmene o di restare, mentre quell’altro si sbottonava velocemente l’impermeabile. Sul petto una scritta, nera sul bianco della camicia, gli sbocciò improvvisa come un fulmine: EROINA. Risposi grazie, ma m’ero da poco rifornita.

Walter è in cura presso il CIM e ogni volta che chiede la nostra visita lo troviamo come un animale ferito. Sul letto l’agitazione gli scuote le mani e i denti. Balbetta scuse ma non può parlare. A stento mi sussurra che non ce la fa più, che le più banali difficoltà della vita lo spaventano. Ora è solo tentato a voler dire basta. Ormai pensa che per lui non c’è più niente da fare. Ha smesso pure la sua psicoterapia. E non crede che i medici possano capirci qualcosa dei suoi mali.

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Tutta qui la tua vita? Mi scrivi quasi con un tono di rimprovero, perché ti ho risposto altre volte che non so che farci. Sei troppo abituata alle chiacchiere della tua facoltà per potere trovare la salvezza in un gesto di banalità quotidiana. Ma è giusto anche così e dopo tutto questa trincea me la sono scavata da solo. Lo sai che ho già trovato casa? E un nuovo studio, proprio sulla statale che si snoda fino all’ Argentera. Proprio dalle parti che hanno visto nascere Lalla Romano. Per visitare quei posti mi sono portato La penombra che abbiamo attraversato, a mò di breviario. E sono stato perfino al cimitero di Demonte. Trovo infatti una indescrivibile felicità nella letteratura. E sia per il libro sia per la disponibilità incontrata, da buon terrone non ho faticato molto ad “accasarmi”. Ma sai bene che non mi spaventano certe difficoltà. La cosa è venuta fuori quasi da sé, perché per questa gente il signor dottore andava sistemato senza perdere tempo. Avevo in realtà letto un annuncio strano, un po’ sibillino, che m’aveva colpito come un destino, cui dovesse corrispondere una mia scelta ineluttabile. Ma la padrona, nonostante le mie insistenze telefoniche, non rispondeva mai. Per diversi giorni il mio bussare rimase senza risposta. Infine decisi di andare personalmente, riuscendo così a scoprire perché la signora non era in casa e l’Ospedale al quale rivolgermi… Potevo anche ritenere la cosa conclusa pur tuttavia, testardo come sono, decisi di seguire quel filo per vedere fin dove mi avrebbe condotto. Così una domenica, impegnata per una gita in città, mi ritrovai invece davanti la costruzione restaurata dell’Ospedale, tutta dipinta di bianco e di giallo. Sulla porta d’entrata un frontone greco portava dipinta una figura che, a pensarci bene, poteva anche passare per una madre dedita ai suoi due figli. Il dipinto, certamente d’epoca recente, secondo l’intenzione di chi s’era impegnato all’opera, mi sembrò volesse suggerire il restauro d’una opera preesistente. Entrato nel primo ingresso subito mi si fece incontro il mezzobusto del benefattore dell’Ospedale che, rigido e composto nel suo anemico marmo di Carrara, come a stento si materializzava ai miei occhi. Ma stranamente poteva anche apparire crucciato, forse perché nessuno lo guardava. Ancora un altro benefattore, in cima all’alta scalinata che portava al piano superiore, anch’egli anemico ed inoltre collerico per chissà quali problemi irrisolti, mi dava il suo benvenuto rigido e rassegnato, nel contegnoso aspetto da Cavour. Così preparato da quegli anemici spettri, quella che ormai consideravo come la mia benefattrice, a pensarci bene, dovette apparirmi abbastanza in carne. Mi disse che ne aveva ancora per poco di quella vita, appena mi presentai e spiegai il motivo per il quale ero venuto. Non aveva voglia di parlare di affari nel posto dove stava e mi diede un appuntamento per la settimana successiva. Le avevo portato un vasetto di azalee, che ora spiavano la stanza con il loro profumo impertinente.

-Ma si accomodi signor dottore. Sicchè anch’io sarei una sua assistita?

-E anche io sono venuto a cercare la sua assistenza, signora.

Volle sorridere, ma come per dire che non era la stessa cosa. Continuò poi a parlare con preoccupata rassegnazione e infine spense pure il suo sorriso.

-Mi vedrà tanto spesso che le verrò a noia. Come lo sono venuta ai miei figli…

-Vedrà che saremo dei buoni vicini- cercai di consolarla.

-Solo che io non sono una buona vicina.

Si sentì allora una voce, provenire da un’altra stanza, poi il picchiare sordo di una porta, sbattuta coi piedi. Infine una elegante infermiera bionda si fece avanti, in camice bianco stretto ai fianchi da una cinta.

-Tu sei solo una donna antipatica e viziosa Bice- esagerò in tono di rimprovero la sua infermiera, quella che s’era portata da casa e che ormai l’aveva sostituita in tutto e non appena apriva bocca parlava pure al posto suo. E continuò, adagiato che ebbe sul comodino un vassoio con due tazzine…

-Glielo deve dire pure lei, dottore. E queste tazzine non sono per te, Bice… Tu lo sai che te l’hanno proibito.

-Sono appunto diventata una bambina cattiva. A me proibiscono sempre tutto!

-Ma dai che qualche capriccio ogni giorno te lo lasciamo passare. Pensate che aveva appena espresso il desiderio di un persiano. Ed ecco le abbiamo fatto trovare Archimede. Ma la signora Beatrice ha continuato a lamentarsi che era sempre sola. Alla signora mica basto io!

-Ma tu non ci stai mai in casa. Stai sempre fuori!

-Io non ci sono mai tanto per dire. Per quello che ti servo! Se hai ora il signor Adelmo, che per starti meglio vicino s’è fatto amico di Archimede. Vuoi negare che Adelmo, per starti vicino, è venuto in fretta e furia da Saluzzo?

-In fretta e furia! Madamin Alda ha solo voglia di scherzare- si schermì la signora.

-E tu no? Ricordati che gli hai concesso la migliore stanza, Bice!

-Ma è mio cugino!- cercò di smontarla Beatrice, ormai rassegnata.

-E che significa? Forse che non è un uomo pure lui?

Madamin Alda se ne andò come era venuta, le mani occupate dal vassoio, sbattendo la porta. E la signora Beatrice mise da parte la sua aria rassegnata. Ci rivedemmo qualche giorno dopo, non appena la signora uscì dall’Ospedale. La trovai su una poltrona, sostenuta da un paio di cuscini e dalla voce dell’infermiera Alda che dalla cucina, dal salotto, dal piano superiore, dalla cantina, teneva tutto sotto controllo. Ma non avevamo bisogno di quella voce, per sentirci immersi in una tranquilla intimità. Raggiungere un accordo non era più questo il punto e Beatrice lo sapeva. Il punto era seguire fino in fondo le occasioni perse della sua vita e quelle ancora nebulose della mia. Solo così la vecchia signora rendeva utile il suo tempo trascorso nella solitudine col persiano Archimede, che ronfava tranquillo in grembo alla sua padrona, con l’infermiera Alda, con suo cugino Adelmo o con il signor dottore. Affittandomi lo studio, la mia vita diventava pertanto quella di suo marito, il medico di cui continuavo l’impegno professionale, che mi permetteva di usare quella stessa scrivania e tutte le suppellettili delle quali s’era servito. E con questo materiale Beatrice mi trasmetteva anche un retaggio delle sue liti familiari e della malattia, che aveva prima consumato il marito e ora infastidiva sè stessa. S’erano sposati quando lei era già incinta e il matrimonio non si poteva più rimandare. Bisognava perciò farsi conoscere al più presto dai suoceri, perché non sarebbe stato delicato presentarsi dopo la nascita del bambino. E poi c’era anche la madre di lei, con un arto amputato dal diabete. Si sposarono perciò in fretta com’era giusto, ma con tutti i sacramenti. Venti giorni dopo moriva la madre della signora Beatrice. Fin dall’inizio tuttavia la suocera l’accettò come una figlia. E le fu sempre vicina, perché in lei aveva scoperto gli occhi dolci. Ricordava ancora la nascita del primo figlio. Lei aveva già rotto le acque e suo marito era fuori per il lavoro. Ettore venne fuori con difficoltà, tirato dal forcipe, mentre lei era stata buttata nell’incoscienza dall’etere. Suo marito era allora all’inizio della carriera e dovevano fare una vita davvero singolare. C’erano tre stufe nella casa. E Beatrice doveva passare le sue giornate, cercando di tenerle in vita: una stufa a segatura nella sala di attesa, una a carbone nell’ambulatorio, infine la stufa della cucina. Usciva pure nel cortile a spaccare la legna. Il marito a volte la seguiva dalla finestra mentre visitava, col suo occhio distratto e burbero. Ma in fondo era un timido. Il lavoro all’inizio non era proprio remunerativo e quando si riusciva a guadagnare la giornata era una festa. Ma non mancava la buona volontà e ora che la guerra era finita nemmeno la pazienza per ricostruire la propria vita. Il dottor Firmino suo marito poi non distingueva il giorno dalla notte e le visite domiciliari lo tenevano fuori per giorni interi. Una volta fece addirittura cinquanta chilometri sotto la neve, per assistere una partoriente in una stalla. Nemmeno per la nascita del secondo figlio era rimasto in casa. Lei ricordava che era diventata tutta gonfia per via della nefrite. Anche ora è convinta che era stata ben fortunata a non restarci secca. E’ pure convinta che la vera disgrazia di suo marito sia stata quella di andare in pensione. Aveva infatti trascorso undici anni di triste agonia, sorpreso da una depressione che complicava e moltiplicava gli affanni del suo enfisema. Un asma nervoso poi lo abbatteva ogni giorno di più. Allora entrava nella sua casa madamin Alda, l’infermiera conosciuta in Ospedale, quando Beatrice aveva subito la tracheostomia. Chiamata a fare una notte era poi rimasta nella sua casa per quattro anni. Beatrice ricorda che madamin Alda a Natale, quando si trovava in Ospedale, era stata l’unica a regalarle un augurio: una rosa rossa col gambo lungo lungo. Io invece avrei ricordato madamin perché mi parlava sempre della Yourcenar. L’aveva assistita a Parigi e familiarmente la chiamava Marguerite, ricordandone la riservatezza e il distacco.

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Così introdotto e sulle tracce di chi mi aveva preceduto, rinnovo le abitudini che mi faranno conoscere nella vallata e comincio a capire e ad interrogare pure il silenzio di chi mi viene a trovare. C’è da non sottovalutare nessuna chiamata, da non assolvere parole scontate o i rebus che resistono agli approfondimenti diagnostici. La terapia non funziona su chi non ha la speranza ed io devo avere più speranza di tutti, leggevo su un foglietto dimenticato dal dottor Firmino in un cassetto della scrivania. Leggevo tra quelle righe la disperazione di chi è passato attraverso tutti gli ospedali e ne è uscito indenne, ma solo fino a un certo punto. La tentazione è quella di uscirsene da tutto ciò con una prescrizione, perchè la sola consolazione è molto frigida, mentre il silenzio spesso è male interpretato. Non ci resta allora che quella corsa affannosa dietro alla chiamata. E il burbero sorriso di Firmino, che a volte mi riaffiorava, diventava perciò quasi una difesa rassegnata e nervosa alle cartelle di ordinaria sanità. Ma forse anche la rivincita quotidiana che ci consente di andare avanti. Mi riscuoto al rombo doloroso della mia macchina. Quei suoi colpi di tosse improvvisamente mi appaiono come il mio destino ineluttabile. Ma se decidesse improvvisamente di non partire, penso che a piedi potrei anche percorrere tutta la valle. Correva pure in mezzo alla neve il dottor Firmino. Se ci ha chiamato, dice la paziente, è perché il medico bisogna chiamarlo sempre, come il prete. Ascolto la sua rassegnazione e dai sintomi deduco uno scompenso metabolico. Ha la cirrosi epatica. Da circa quattro giorni dispnea continua e dolori al petto. E’ soprattutto agitata… Il figlio mi spiega che in questi quindici giorni ha bevuto almeno quindici litri di vino. Ho già notato un fiasco scuro e fuligginoso sul tavolo, in compagnia di un bicchiere internamente laccato da un velo di rossore. Intrattabile già durante la visita, rifiuta tutte le nostre consolazioni. Vuole solo morire. Il marito e la sorella cercano di convincerla con la loro faccia preoccupata.

-E’ tutta la mattinata che ha fatto strane cose- mi raccontano.

Voleva spennare le oche del suocero, incendiare il trattore, dipingere il portone di rosso. La donna ora s’era calmata. Si trova a letto e muove scompostamente le braccia e gli occhi. La lingua vomita in dialetto rabbiose parole contro il marito. Vorrei calmarla con un bicchiere di acqua, ma presagisce le gocce e non la beve.

 

Il nostro schedario ormai è pronto. Tutte le cartelle ordinate. Anche queste servono, nonostante sappiamo che non basta consultarle o toccare un tasto, che srotoli sotto ai nostri occhi il paziente, per consentirci di interrompere una storia compromessa. Tornando a casa dalle solite visite domiciliari, mi sono improvvisamente accorto come queste strade autunnali trucchino molto bene la monotonia dell’estate. Troppo brevi e troppo desiderate queste estati.

Come un amore intenso le possiamo solo pensare dimenticandole. Meglio l’autunno o la primavera. Quando la natura muore o si risveglia questi posti acquistano più calore e colore. L’estate è troppo verde e umida, mette addosso quasi lo stesso cappotto dell’inverno. Ed è la stagione dei suicidi. Ne sono capitati ultimamente quattro… I motivi possono essere tutti e nessuno. Impossibile riuscire a saperlo, perché tutti tacciono. Questa gente ha un dolore muto, che ti rattrista ancora di più del dolore quasi ostentato. Ridurre in poche righe altri dolori non è compito di questo diario, ma aspettare sì di passare in maniera impercettibile dal giorno alla notte, domandandoci che cosa ci aspetta il mattino seguente. Stamattina in ambulatorio ho trovato il primo paziente che si è confessato veramente. Anche se malvolentieri, ma ha ammesso che la maschera della sua salute non aveva più acconti di speranza. Dopo tutto parla chiaramente la sua dimissione.

 

CANDIDOSI A LIVELLO DEI FORNICI GENGIVALI A SN. TOSSE SECCA E STIZZOSA. RESPIRO ASPRO DIFFUSO CON FISCHI SIBILI E CREPITII IN PARTICOLARE ALLA BASE SN. N° QUATTRO LESIONI DA S.K. SUL DORSO, UNA A LIVELLO DELLA SPALLA DX, UNA A LIVELLO GUANCIA SN., TRE SUL PETTO E UNA SULLA FACCIA LATERALE COSCIA SN. TACHICARDIA. EDEMI ARTI INFERIORI. FLUCONAZOLO-RIFAMPICINA-ETAMBUTOLO-ISONIAZIDE-ACIDOFOLICO-ANTITOSSE-IMMUNOGLOBULINE-LORAZEPAM-CALCIO GLUCONATO-POLIVITAMINICI-PARACETAMOLO-ISOPURAMIN.

Di fronte alla sua realtà si sente sconfitto.

-Ero impaziente di uscire all’aria aperta…- si confessa- perchè in Ospedale non ce la facevo più. Ma ora che faccio? Io non ci capisco niente di queste cure. Ho bisogno che tutte queste cose qualcuno me le faccia prendere. Per me le lascerei solo scritte. Ma se lo dice lei che cosa devo fare è un’altra cosa. Respiriamo insieme… come per affrontare meglio la vita.

Salvatore Bommarito