Al momento stai visualizzando “Visioni di Gerard”, l’infanzia dei fratelli Kerouac

“Il cielo – gli diceva Gerard – è tutto bianco, gli angeli sono come agnellini, e tutti i bimbi e i loro genitori uniti per sempre”.

“Sono felici?”

“Non possono essere altro che felici”.

Altra domanda di Jack: “Di che colore è Dio?”

“Bianco dorato rosso nero e tutto” – rispondeva il fratello maggiore.

Così parlavano i due fratelli prima di andare a giocare, ben infagottati, in giardino. Gerard aveva nove anni; Jack quattro. Gerard aveva un cuore reumatico, ma nessuno della famiglia pensava a una sua morte così vicina. Gerard aveva capelli soffici, “straordinariamente soffici”. Era “una goccia di santità negli infiniti Universi, un dolce angelo dal cuore tenero”. Ma questo Jack lo capirà da grande. Da grande capirà quale “assoluto e immortale idealismo” il fratello gli ha impartito.

Gerard si ribellava alle leggi della natura violenta: del topo che mangia il verme, del gatto che mangia il topo. Nessuna parola del padre – un tipografo alto un metro e sessantotto, il quale diceva chenon c’era via d’uscita da questo male dell’esistenza: mangiare o essere mangiati – riusciva a fargli cambiare idea. E allora metteva il broncio perché ne aveva abbastanza di queste bestialità, di questa vita “sinonimo di fango”.

“Un giorno ti farai prete” – gli diceva la madre.

Un mondo in cui tutti siano gentili fra loro e con gli animali: era questo il suo idealismo di bambino. E si chiedeva perché Iddio non ha fatto il mondo così. Amava gli uccelli – scrive suo fratello Jack – che venivano a frotte e gioiosamente cantavano. Erano i suoi celesti visitatori, che lui, a letto per la febbre reumatica, chiamava con la mano protesa verso la finestra aperta. E intanto … Intanto il dottor Simpkins veniva a visitarlo “e ci sorprendeva tutti con la sua gravità e la sua incapacità di pronunziarsi”.

Jack non capiva quanto stava succedendo. Era soltanto felice di trovarsi al mondo con il suo adorabile fratello. Molti anni dopo ne avrebbe, all’improvviso, raccontato la brevissima vita. La vita di un bambino che “ha sofferto più di ventiquattro uomini fatti, e non ha detto una parola”, come diceva l’affranta madre nella preghiera per lui al Signore. Era il destino dei Deluoz (così i Kerouac si chiamano nel racconto): un destino di sofferenza e di martirio in questo “crudele e inospitale ospedale chiamato terra”.

Jack Kerouac, caposcuola della Beat generation, scrive Visioni di Gerard nel 1956, trent’anni dopo la morte del fratello, perché vuole tornare all’infanzia nella sua Lowell, la cittadina del Massachusetts. L’infanzia è la condizione più felice, i bambini sono puri e gli adulti impuri. E Jack (come sostiene Seymour Krim) quasi “invidia” il fratello per non essere stato costretto a diventare adulto e a conoscere la corruzione della maturità.Troppo povero di calore umano il mondo per pensare che Dio l’abbia fatto per gli uomini. Questo pensava spesso Gerard. E dal suo letto di ammalato inclinava la testa da un lato, a seconda della posizione di qualcosa che in quel momento lo interessava, per dire: “Ehi, mondo, cosa sono le nostre immagini se non polvere”?

Sentiva piangere i parenti nell’altra stanza. Piangevano per lui. “Mio Signore, – diceva – benedicili tutti”. Era consapevole della propria fine questo bambino vecchietto. Consapevole che tutto è “solamente un etereo dolore che però scomparirà quando il cielo rivelerà il suo candore”.

A Gerard piaceva tanto andare in chiesa, “il luogo dove Dio riceveva quel che gli era dovuto”. E a distanza di tempo, a Jack pare di rivederlo, alle quattro del pomeriggio, entrare in chiesa per confessarsi (mentre altri ragazzi ne escono liberati dai loro peccati): attraversare la navata laterale in punta di piedi: guardare i quadri della Via Crucis che gli stringono il cuore.

Che peccato dovrà confessare questo dolce angelo dal cuore tenero?

“Oggi ho dato una spinta a un bambino più piccolo di me, padre mio”.

“Gli hai fatto del male?” – chiede il prete.

“No, – risponde Gerard – ma gli ho fatto male al cuore”.

Parole che lasciano sbalordito il sacerdote.

“E perché gli hai dato una spinta?”

“Perché ha fatto cadere il mio castello di carte e mi ha fatto arrabbiare”.

“La prossima volta devi essere più paziente – è la raccomandazione del prete.– Il Signore comprenderà. Che gli hai fatto male al cuore se non al corpo l’hai capito da te”.

Segue un elenco di altri peccati veniali, del tipo: “Ho detto alla suora che avevo studiato il catechismo, e invece non l’avevo studiato per niente”.

Difficile compito per quel prete assolvere un santo!

Un santo che si addormenta durante il catechismo e vede la Vergine Maria. E quando la suora lo sveglia e sente le sue parole, il racconto della celestiale visione, anche lei rimane sbalordita.

“Non tema mia cara sorella – dice Gerard. – Siamo tutti in cielo. Solo non lo sappiamo”.

Quasi con le stesse parole, gli amici e i vicini di casa consolano sua madre: “Suvvia, non si strugga così, signora Duluoz, era un piccolo santo! È certamente in paradiso”.

Visioni di Gerard non è il libro più importante di Kerouac, noto soprattutto come autore di On the road (Sulla strada). Ma è quello più grondante di malinconia e di dolore e che meglio manifesta il tragico senso della vita di questo narratore, poeta e pittore americano di origine franco-canadese. Inquieto e triste, d’una tristezza insostenibile, sempre in corsa da una stella cadente all’altra, una vita fatta di alcol, birra, libri e biliardo, Jack Kerouac riteneva i pazzi l’unica gente possibile, i pazzi impossibili da salvare e vogliosi, come lui, di troppe cose nello stesso tempo, quelli che mai sbadigliano, mai dicono un luogo comune ma bruciano, bruciano.

Ancor di meno dell’alcol reggeva l’idiozia e l’incoerenza. Per il suo misticismo cattolico e per il suo essere favorevole alla guerra in Vietnam era considerato un reazionario. Eppure, per una generazione, On the road, romanzo in cui esplode la gioia di vivere, è stato un cult da tenere sul comodino. Kerouac lo scrisse e lo pubblicò prima di Visioni di Gerard. Forse per lo stesso motivo: vincere la propria tristezza. Più probabilmente perché voleva che la sua opera venisse letta in modo unico, come la Recherche, con tutte le alternanze di felicità e infelicità, euforia e disperazione che riflettono la vita.

Aveva una grande sensibilità e una memoria prodigiosa questo scrittore morto nel 1969, a quarantasette anni, con il fegato devastato da alcol e droghe e i capelli ancora molto neri che gli spiovevano in disordine sulla fronte. Ricordava nitidamente, come abbiamo visto, persino i fatti dei suoi primissimi anni di vita. Il fratello Gerard mentre gioca con il meccano e le sue ultime parole: “Stai ben attento a non far mai del male a nessuno”. Era solo una piccola parte dell’idealismo che gli aveva impartito. Ricordava la sua lunga notte di sofferenza – “terribilmente lunga e inequivocabilmente breve”, come la notte della vita. I turbini di neve che offuscavano la luna e rendevano freddi i canali di Lowell al di là del fiume. Ricordava la sua precipitosa uscita di casa per andare a dire al padre che Gerard è morto. E il funerale del fratello, “mistico eroe”, in una giornata di pioggia. La piccola bara. L’indimenticabile fila di bambini venuti “a soppesare il valore della morte”. Quel funerale Jack Kerouac lo sognerà un milione di volte lungo i corridoi dell’eternità.

Gaetano Cellura