1.3.3. Il viaggio come frenesia
L’impulso a viaggiare è travolgente, fa parte della natura umana, è una passione che divora e arricchisce allo stesso tempo, come il desiderio della felicità: «Non esiste una strada per raggiungere la felicità, la felicità è la strada»[1. R. Ghazy, Op. cit., p. 290.] dice Hayat, uno dei protagonisti di Prova a sanguinare; ma, in certi casi, il bisogno di viaggiare si fa talmente intenso da non poterne fare a meno. Si tratta di compulsioni che hanno origine in malattie mentali transitorie. Nella nostra cultura esiste una concezione romantica della follia come avventura dell’anima, viaggio iniziatico al di là del pensabile e del dicibile. Il libro di Ian Hacking, I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, ci impone di rivedere questo schema attraverso lo studio di un caso che ebbe Bordeaux come epicentro e che di lì, a partire dal 1886, si diffuse in tutta la Francia, e successivamente in Italia, in Germania e in Russia. All’origine della diagnosi la pubblicazione di una tesi di medicina di Philippe Tissié, nel 1887, che mette a fuoco lo strano caso di Albert Dadas, un operaio del gas di Bordeaux affetto da questa sindrome oggi dimenticata, il “determinismo ambulatorio”. La sua è una follia che si dispiega interamente nello spazio, in una serie di viaggi compulsivi. In questo modo comincia l’avventura di Albert Dadas, l’oscuro protagonista di quest’inedito e avvincente capitolo di psichiatria picaresca, in cui Hacking racconta:
quando una mattina di luglio dell’anno scorso, notammo un giovane di ventisei anni che piangeva e si disperava a letto. Era appena arrivato da un lungo viaggio a piedi ed era esausto. Piangeva perché non poteva fare a meno di partire quando il bisogno lo attanagliava; allora, posseduto e sottomesso da un desiderio imperioso abbandonava la famiglia, il lavoro, la vita di tutti i giorni per camminare il più veloce possibile, sempre diritto, a volte percorrendo a piedi settanta chilometri al giorno, finché alla fine non lo arrestavano per vagabondaggio e lo mettevano in prigione.[2. I. Hacking, I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, Roma, Carocci, 2000.]
Albert Dadas è il primo fugueur, con le sue spedizioni a Vienna, a Mosca, a Costantinopoli, condotte per lunghissimi tratti a piedi, ma anche in treno e su navi cargo, da un continente all’altro. Al momento del ritorno Albert non ha nessuna idea di dove sia stato o serba ricordi sconnessi e confusi.
Ma sotto ipnosi, abilmente guidato dall’angelo custode Tissié, comincia un altro viaggio alla ricerca dei luoghi perduti. Inizia così la dura realtà ospedaliera della medicalizzazione di Albert, una nuova malattia mentale, l’automatismo ambulatorio. Si tratta di una malattia mentale transitoria, cioè una «malattia che compare in un momento, in un luogo, per poi sparire […] può diffondersi da un posto all’altro e riapparire in momenti diversi».[3. Ibidem.]
Hacking riesce a far balzare in primo piano uno scenario affascinante: la nascita del turismo di massa, del ciclismo, dell’atletica moderna, dei giochi olimpici. Scopriamo così di avere una certa familiarità con le malattie mentali transitorie.
Anche Albert Dadas, nell’ennesima delle sue fughe, si volatilizzerà nel nulla. Le sue avventure hanno una patina di nostalgia scolorita e rievocano in noi lo svolgimento rocambolesco dei film di Charlot, l’assurdo giocoso e la durezza spietata delle peripezie di America di Kafka, l’effetto irresistibilmente comico dello Zelig di Woody Allen. Eppure nelle affinità con il turismo odierno, generalizzato e compulsivo, da shopping o da musei, sessuale o da convegni, le avventure di Albert si rivelano, nelle pagine di Hacking, un cannocchiale malinconico puntato dai nostri avi sulla nostra vita quotidiana.
1.3.4. Il viaggio immaginario
Quando inizia un viaggio, per ognuno di noi inizia una storia. Viaggi difficili, insoliti, originali, dettati dalla curiosità di conoscere il mondo, che ci appare un po’ più piccolo solo da quando possiamo colmare distanze enormi in poche ore di aereo, ma ciò che conta non è soltanto la traiettoria, la distanza, lo spaesamento, ma anche il significato che viene dato al viaggio, che può compiersi in quell’ «intima immensità» che Bachelard celebra nella Poétique de l’espace, invece che forzatamente attorno al mondo.
Il percorso del viaggio può essere soltanto ideale, fantastico: chi ha la passione dei viaggi ma non ha i soldi per permettersela può consolarsi con i film e i documentari che consentono viaggi nel tempo, nello spazio, nella fantasia, oppure che fanno ripercorrere viaggi fatti e descritti da altri. Il viaggio immaginario non è in realtà così differente da quello reale, poiché, parafrasando Bachelard, «si sogna prima di contemplare».[4. G. Bachelard, La poetica dello spazio, Roma, Dedalo, 1993.]
La letteratura di viaggio fu un genere molto fortunato in Europa fino alla metà del Settecento. In periodi più vicini a noi, uno scrittore come Emilio Salgari, famoso per l’ambientazione esotica dei suoi romanzi, inventò i viaggi dei suoi eroi in luoghi che non aveva mai visto: la Malesia di Sandokan e Yanez è ricostruita tutta a tavolino.
Bisogna immaginare i viaggi per poterne ricavare, compiendoli, la copiosa materia poetica che dà loro senso e valore e permette, dopo il compimento del viaggio reale, di farne qualcosa che non sia solo un album di fotografie. Attraverso l’immaginazione il viaggio deve condurci ad una rivelazione dell’ignoto. Viaggiare è dunque utile per far lavorare l’immaginazione.
Il tema del viaggio immaginario rappresenta un valore fondamentale nell’evoluzione dell’uomo, è la predisposizione dello spirito ad aprirsi, a capire, a conoscere, a volare tra le gioie e le insidie del mondo. Si tratta di un viaggio denso di sorprese, di avventure, di stupore, un continuo andare alla ricerca delle meraviglie del mondo[5. www.palazzoforti.it/Tulli2003/nuzzo.html]. Il viaggio si rivela quindi all’immaginazione come epifania, come evento sconosciuto, come unica possibilità di evasione e di fuga, che conduce alla scoperta di nuove dimensioni sociali e culturali, ma presto ci si accorge che la scienza ha distrutto quello che Leopardi affermava essere «lo stupendo potere dell’immaginazione», facendo svanire «i sogni leggiadri»[6. G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, Milano, Rizzoli, 1974.] di ignote lontananze terrestri e astrali. Il viaggio si configura allora come illusione che tende a smarrire la sua carica immaginativa nel groviglio esistenziale. Un’illusione, che come tutte le altre, volendo restare all’universo leopardiano, rappresenta sì l’unica vera realtà dello spirito umano, ma del tutto vana. Così, l’unica avventura possibile dell’uomo moderno rimane il silenzioso inabissamento nell’io.
L’infinito di Leopardi è forse uno degli idilli che più contribuisce a rendere il concetto di viaggio interiore, di scoperta dello spirito, di illuminazione. L’infinito di cui parla il poeta è temporale e spaziale e viene evocato tramite il limite fisico (la siepe) che porta il poeta da una dimensione fisica e sensoriale ad una «metafisica». I sensi, in questo caso la vista e l’udito, conducono all’intuizione di qualcosa che è al di là, oltre i limiti fisici, facendo spaziare l’immaginazione per luoghi inesistenti nella realtà, ma noti alla fantasia dell’uomo. Il poeta, che riesce così a immergersi nell’infinito, parte da una visione familiare, la vista del colle, il Monte Tabor, solitario ma che già appartiene all’esperienza personale del poeta, spettatore ma anche compartecipe della sua vita, così come familiare è la siepe. Una siepe che diventa limite, che evoca il desiderio, l’immaginazione di ciò che il «guardo esclude»[7. G.Leopardi, L’infinito, in Canti, Milano, Rizzoli, 1974.], di ciò che non si può raggiungere con il solo ausilio dei sensi. Da un connotato fisico di realtà, si risveglia l’immaginazione di uno spazio sconfinato. Il poeta siede e guarda in uno spazio senza tempo e la sua immaginazione coglie e crea interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete[8. http://balbruno.altervista.org/index-171.html].
1.3.5. Il viaggio e l’identità
Il viaggio del soggetto nei meandri dell’identità è un motivo centrale nella narrativa pirandelliana. Chi lo compie è un personaggio destinato a portare una maschera che è la sua condanna a recitare sempre la stessa parte, imposta dall’esterno, sulla base di convenzioni che reggono l’esistenza della massa. Eppure ci sono momenti critici in cui questi personaggi-marionette, queste anime decadenti, riflettono sul gioco e provano a riscattare il loro decadimento per raggiungere la condizione originaria di persone libere. Il viaggio, inteso come momento critico, è uno dei motivi pirandelliani destinato ad esplorare la dialettica fra l’esistenza finta e grigia della maschera del personaggio e i lampi di ribellione, di liberazione che ne illuminano la potenziale persona.
Su uno sfondo di crisi istituzionale e di civiltà si consuma la crisi di identità di Mattia Pascal. Il racconto di questa crisi esistenziale si rifà alla struttura simbolica del viaggio: viaggio come fuga, ma anche percorso di formazione, viaggio come figura della crisi del personaggio, ma anche come tentativo di ricomposizione, ricostruzione dell’essere, di salvezza. La direzione in cui si sviluppa è doppia e insieme antitetica. Da una parte, «a livello dell’azione, del vissuto», è «viaggio in avanti», peregrinazione, mentre nella «ricostruzione a posteriori» e nella «riflessione», come afferma Nino Borsellino, è «viaggio all’indietro, ritorno»[9. N. Borsellino, Lo strappo nel cielo di carta, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1988.]. In quanto esperienza interiore e viaggio di formazione, tutto avviene alla rovescia: Mattia finisce quasi per essere educato non alla vita ma alla “non-vita”. Il viaggio ha come punto di partenza e di ritorno Miragno, un luogo privo di identità, «un non-luogo del non-essere» in cui Mattia si trova a subire il ruolo di bibliotecario inutile di una biblioteca altrettanto inutile. Nell’ambiente domestico trova la stessa immobilità della sua condizione esistenziale. Oppresso da una suocera insopportabile, da un matrimonio che appare sempre più falso, in contrasto con la sua natura, situazione che ritroviamo in molte novelle pirandelliane, egli si sente ancora più angosciato fra le quattro mura della sua casa. Tutto precipita quando gli vengono a mancare l’affetto della madre e quello della figlia, morta ad appena un anno. Decide allora di ribellarsi, prende i pochi soldi prestatigli dal fratello e fugge da Miragno, dallo «schifo di vivere a quel modo»[10. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Roma, Newton, 1993.] per intraprendere il viaggio alla ricerca della verità, della libertà, dell’amore autentico, della giustizia. Ma sin dall’inizio la sua avventura si svolge all’insegna dell’improvviso, del caso, cui Mattia si abbandona. È per caso che Mattia arriva a Montecarlo e in seguito al casinò; sarà la fortuna a farlo vincere. È sempre per caso che apprende della sua morte, leggendo in un giornale il suo necrologio mentre il treno sta per riportarlo a Miragno.
Venendo a sapere di essere stato scambiato per un suo compaesano che si è tolto la vita, scende dal treno e da questo momento il viaggio acquista per lui la forma archetipica del rituale di iniziazione, quello della morte-rigenerazione. Mattia s’illude che per crearsi una nuova e diversa esistenza e per raggiungere la libertà basti nel suo viaggio cambiar treno, trasformarsi fisicamente, prendere un altro nome, quello di Adriano Meis. Con i nuovi connotati di Adriano Meis, si mette in viaggio per l’Italia (ma anche per l’estero) e così, valigia in mano, sperimenta uno stato di libertà sconfinata, ma sentendosi tuttavia precario, passeggero, «un forestiere della vita»[11. Ibidem.].Ancora una volta s’illude pensando che una città come Roma accolga con indifferenza la sua identità “altra” e gli offra una casa in cui smettere di vedersi vivere per vivere veramente[12. http://www.geocities.com/serban_marin/buleimaria2002.html#_ftn12].
1.3.6. Il viaggio nel tempo è possibile?
Nella nostra memoria, nei sogni, nell’immaginazione, tutti noi regolarmente “viaggiamo” nel tempo raggiungendo il passato o il futuro. Ma che dire della possibilità di saltare in una macchina come quella del famoso romanzo di fantascienza del 1895, The Time Machine, di Herbert George Wells, che ci porterebbe in qualunque momento da noi scelto del passato o del futuro? Dove vorremmo andare? Se il viaggio nel tempo diventasse cosa comune, forse le agenzie di viaggio sarebbero occupatissime a prenotare viaggi per particolari epoche del passato in cui si sono svolti eventi importanti, che sarebbero perciò assai presto affollate da viaggiatori provenienti da ogni epoca futura[13. R. Ehrlich, Il viaggio nel tempo e altre pazzie, Torino, Einaudi, 2002.].
Il concetto di viaggio nel tempo è un’idea che affascina da tempi immemorabili l’umanità, sia che si tratti del mago Merlino, intento a sperimentare delle regressioni temporali, sia che si tratti di Maometto a Gerusalemme e della sua ascesa al Paradiso, ritornando prima che un bicchiere spezzato avesse versato il suo contenuto[14. http://it.wikipedia.org/wiki/Viaggio_nel_tempo.]. È un tema affascinante al punto tale da ispirare anche la fantasia creatrice di molti fumettisti che hanno improntato intere storie sul viaggio nel tempo. Basti pensare all’Eternauta, fumetto di fantascienza pubblicato per la prima volta in Argentina tra il 1957 e il 1959 sul periodico Hora Cero Semanal, sceneggiato da Héctor Oesterheld e disegnato da Francisco Solano Lopez, il cui personaggio protagonista, l’eternauta appunto, è un pellegrino dei secoli, che vaga alla ricerca della sua epoca perduta. Oppure si ricordi Flash, il supereroe creato da Gardner Fox e Harry Lambert nel 1940 con il potere di muoversi a velocità straordinaria, sfidando le leggi della fisica. The Invisibles, serie scritta da Grant Morrison e uscita a partire dal settembre 1994 fino al giugno 2000 sotto l’etichetta Vertigo, non è invece un fumetto come tutti gli altri, in cui si trovano banali scontri tra super eroi, trame lineari e mantelli svolazzanti, si tratta piuttosto di un fumetto che irrompe nella mente per risvegliare zone del cervello addormentate da tempo[15. K. Felix, Dossier Invisibles. Una rivoluzione della mente, in www.fumettidicarta.it.].
Sono questi solo alcuni dei fumetti più noti in cui gli eroi viaggiano nel tempo, ma molti altri ancori hanno trattato lo stesso argomento facendo ricorso ai personaggi e agli ambienti più disparati, appunto perché l’immaginazione in questo campo sembra non avere confini.
1.3.7. Il trip: l’evasione dalla realtà
La parola viaggio viene usata anche nel gergo della droga nel senso dell’inglese trip, che indica lo sconvolgimento dei sensi che si ottiene drogandosi e poi, più estesamente, l’evasione dalla realtà, ottenuta anche con mezzi meno pericolosi[16. www.educational.rai.it].
Gli allucinogeni giocano un ruolo importante nella vita umana da migliaia di anni. Tutte le culture, dai tropici all’Antartide, hanno usato le piante per creare degli stati di distacco dalla realtà e per percepire le “visioni”, che si pensava fornissero la comprensione mistica. Tradizionalmente, le piante degli allucinogeni sono state ampiamente utilizzate per rituali sociali e religiosi e la loro disponibilità è stata limitata dalle condizioni climatiche e dalle caratteristiche del terreno di cui hanno bisogno per crescere. Dopo lo sviluppo dell’LSD, un composto sintetico che può essere prodotto ovunque, l’abuso di allucinogeni si è diffuso maggiormente e dagli anni Sessanta è cresciuto in maniera drammatica. L’LSD ha anche effetti notevoli sui sensi. Colori, odori, suoni e altre sensazioni sono molto amplificate. In alcuni casi, le percezioni sensoriali possono mescolarsi in un fenomeno noto come sinestesia, in cui ad una persona sembra di ascoltare o percepire colori e di vedere suoni.
Le allucinazioni distorcono o trasformano forme e movimenti e possono creare l’impressione che il tempo si muova molto lentamente o che il corpo del consumatore di LSD stia cambiando forma. In qualche trip gli utilizzatori sperimentano sensazioni che sono piacevoli e mentalmente stimolanti e che producono un senso di suprema comprensione. In certi casi, la direzione del trip può cambiare in bad trip con manifestazioni di ansia, panico, isterismo, si dice allora che l’assuntore di LSD ha “strippato”, cioè ha fatto un viaggio cattivo. I pensieri diventano terrificanti e le sensazioni di ansietà opprimenti, la disperazione arriva ad includere la paura della pazzia, della morte e della perdita di controllo[17. www.droga2.it]. In genere tutti quelli che prendono l’“acido” arrivano a provare questa esperienza che è talmente negativa e traumatizzante da indurre chi vi è incorso a non ripetere mai più la somministrazione.
L’esperienza provocata da LSD viene dunque definita come un viaggio, trip, in un altro luogo, in un’altra situazione. Il trip è l’unico viaggio che modifica la percezione della realtà, fa vedere cose che non ci sono, provoca illusioni, diventa difficile distinguere tra il reale e l’immaginario; le percezioni sensoriali del tempo sono alterate e può diventare pericoloso effettuare anche azioni semplici e quotidiane[18. www.web.infinito.it].
Trip si traduce dunque normalmente con “sballo” nel caso della droga, ma utilizzare il termine “viaggio” a volte può apparire più appropriato. In realtà, diciamolo, le sensazioni che danno i viaggi veri sono ben più reali ed intense di qualsiasi droga.
1.4. Il viaggio e la spiritualità
1.4.1. Ippolito Desideri alla scoperta del Tibet
Gli uomini viaggiano per stupirsi degli oceani e dei monti,
dei fiumi e delle stelle e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi.
(S. Agostino)
Ippolito Desideri è un gesuita degli inizi del ‘700 che costituisce un punto di riferimento per tutti coloro che operano nelle missioni con spirito aperto al dialogo e all’incontro con altre culture. All’interno della Compagnia di Gesù Ippolito, pistoiese di nascita, si distingue per lo zelo spirituale, tanto da essere scelto per la difficile impresa di stabilire una missione nella lontana terra del Tibet. Partito da Roma per l’avventuroso viaggio, attraversa: Genova, Lisbona, gli oceani Atlantico e Indiano, per proseguire poi per l’India ed infine per l’altopiano tibetano. Con la completa traversata dell’altopiano transhimalayano Desideri compie così «un viaggio meritevole di rendere il suo nome famoso per sempre», come affermò il grande esploratore svedese Sven Hedin. Desideri riesce a conquistare il favore della corte tibetana e può padroneggiare con grande maestria la lingua e anche le concezioni filosofico-religiose più profonde del Paese himalayano, divenendo così, secondo la definizione di Petech, «il primo tibetologo nella storia, anche se la sua opera rimase sepolta negli archivi per secoli». Desideri è colpito dalla religiosità dei tibetani e, superando le apparenze esteriori, si addentra nelle concezioni basilari. Scopre la positività dell’ideale del bodhisattva di «guidar i viventi all’ultimo e totale scampo dai travagli e al conseguimento della felicità eterna». Questi “travagli” dipendono dalle nostre azioni, dominate da passioni costruite su una errata considerazione dell’io. Il missionario arriva così al cuore della concezione della visione filosofica buddhista, quella della vacuità, che possiamo meglio indicare come relatività: ogni cosa è priva di sostanza propria, risultando solo aggregazione di vari componenti, ognuno dei quali a sua volta prodotto da una serie concorrente di cause in un processo inestricabilmente senza fine: «Tutte le cose senza eccettuarne veruna, sono vote d’existenza e in tutto simili all’immagine della luna che comparisce nell’acqua»[19. E.G. Bargiacchi, La relazione di Ippolito Desideri fra storia locale e vicende internazionali, in “Storia locale. Quaderni pistoiesi di cultura moderna e contemporanea”, volume 41, 2005.].
Si noti che all’epoca di Desideri le nozioni relative al buddhismo, al Tibet e alla sua lingua erano praticamente inesistenti: i primi missionari gesuiti avevano notato che, nonostante forti diversità esteriori fra le religioni di vari Paesi dell’estremo oriente asiatico, era rilevabile un sostrato comune. Il buddhismo cominciò ad essere conosciuto in Europa solo dalla metà dell’‘800 e le concezioni più profonde, come quelle della “vacuità”, solo in pieno XX secolo. Perciò è stato giustamente affermato che la conoscenza delle scoperte di Desideri cambiò il corso degli studi orientali e, con Fosco Maraini, oggi possiamo parlare di lui come d’un Marco Polo, d’un Cristoforo Colombo dello spirito. Ma il valore della sua opera non è solo storico, perché le sue descrizioni, le sue definizioni della vacuità o i suoi commenti alle opere dei massimi filosofi buddhisti sono ancora oggi esemplari e difficilmente superabili.
La perfetta padronanza della lingua tibetana gli permise di scrivere in quella lingua importanti trattati, quattro dei quali tradotti in italiano negli anni ‘80 dal missionario saveriano Giuseppe Toscano, il quale affermò che in Desideri la Chiesa aveva avuto il suo più grande missionario nel Tibet e il mondo il suo primo e forse più grande tibetanista.
Desideri dopo cinque anni di permanenza nel Tibet è costretto, nel 1721, ad abbandonare il Paese che tanto lo ha affascinato, per delle deliberazioni della Congregazione di Propaganda Fide, sollecitata dalle petulanti richieste dei missionari Cappuccini, giunti successivamente, i quali, benché aiutati dal collega gesuita, si comportano nei suoi confronti con doppiezza, determinando poi la fine di una missione così ben avviata. Il missionario pistoiese obbedisce all’ordine e riparte per un nuovo lungo viaggio che attraverso il Nepal lo riconduce in India, ad Agra e a Delhi, dove rimane tre anni come responsabile della missione locale per essere poi nuovamente costretto ad abbandonare la sua proficua opera. Finalmente può tornare in Europa con una lunga navigazione e giungere a Roma il 23 gennaio 1728, quindici anni e quattro mesi dopo la sua partenza.
A Roma completa la sua Relazione, predisponendola accuratamente per la stampa e si batte per sostenere il diritto dei gesuiti alla missione del Tibet, ma è sconfitto su tutti i fronti. Propaganda Fide assegna definitivamente la missione ai Cappuccini e a Desideri viene impedita qualsiasi pubblicazione in merito al Tibet. La sua morte venne poco dopo, il 13 aprile 1733. Il Tibet rimarrà impenetrabile e misterioso per secoli e la stessa sorte toccherà ai manoscritti desideriani. Occorre sottolineare anche il carattere sensibile e generoso di Desideri, consapevole del valore delle sue scoperte, eppur umile e modesto. Proprio queste caratteristiche gli hanno permesso di accostarsi con amore e benevolenza al popolo himalayano e quindi di cogliere il valore filosofico e morale dell’insegnamento buddhista e «veder chiaro dove altri non trovano che tenebra», come affermò Giuseppe Tucci.
L’opera e la vita del gesuita pistoiese si condensano in un grande viaggio che è anche un percorso spirituale. La sua vita resta significativa non solo per le avventure di viaggio, ma anche perché attraverso la sua Relazione ci ha dato viva ed efficace testimonianza degli usi, dei costumi e della spiritualità del mondo tibetano[20. E. G. Bargiacchi, Ippolito Desideri. Il Marco Polo del Tibet, in “Missione Oggi”, ottobre 2004, edizione elettronica.].
1.4.2. Il Wanderer del Romanticismo tedesco
Wanderer, Wandern, Wanderung sono parole molto importanti per la storia dell’immaginario romantico tedesco. Il “viandante” nella nostra mentalità latina è sempre stato colui che transita da un luogo all’altro, da una collettività all’altra, consapevole che la casa, il gruppo sociale ben identificato sono gli ambiti che gli competono, che sente suoi ed in cui si riconosce. Egli è legato affettivamente alla famiglia, alla casa degli avi, alla terra che lavora, sia essa sua o non lo sia; il cammino è un viaggio, da programmare e compiere nel più breve tempo possibile, perché ostico e talvolta pericoloso; riveste carattere episodico o tradizionale, ad esempio, l’abitudine millenaria alla transumanza delle antiche civiltà pastorali. Il viaggio, quando si manifesta come conseguenza dell’imperativo della fame, genera angoscia, diventa trauma; diviene il dolore degli emigranti che, con poca o nessuna attenzione per le nuove realtà che li circondano, cercano di ricostruire luoghi e collettività il più possibile vicini a quelli che hanno dovuto abbandonare.
Ben differente è invece la connotazione auratica che la parola Wanderer “viandante” assume nelle terre di lingua tedesca. Qui, chi segue un cammino non si dirige verso qualcosa di connotabile in termini fisici, verso un “luogo” reale, tangibile; al contrario, egli è un avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di se stesso o meglio dell’indefinibile, di ciò di cui una lontana eco del proprio animo rende certi dell’esistenza, ma che sfugge ad ogni più rigorosa disamina razionale. I pellegrini e i Clerici vagantes che solcavano l’Europa delle prime ere cristiane: ecco il referente, il misticismo universalistico di chi fa della Wanderung, quasi sempre a piedi, quasi mai a cavallo, il fine e non il mezzo; di chi giace per una notte sotto un riparo di fortuna od offerto da un uomo ospitale, ben sapendo che ciò non è per sempre e che il giorno successivo il cammino dovrà riprendere, lungo prati verdi, colli boscosi, radi villaggi annunciati da campanili appuntiti, sotto cieli spazzati dal vento, talvolta plumbei ed ostili; talvolta in compagnia, ma più spesso da soli.
Ci si trova così davanti ad una galleria di paesaggi, più realistici di quanto non possa pensare chi non ha mai viaggiato in Germania, usciti dal pennello del pittore Caspar Friedrich; realistici ma pure pervasi da una profonda, commossa religiosità mistica, che per uno spirito romantico è essa pure, inevitabilmente, realtà[21. Il“Wanderer” nella storia del Romanticismo tedesco, in “I Fatti”, novembre 1989, edizione elettronica.].
1.4.2.1. La figura del Wanderer
Il Wanderer, l’uomo in cammino con bastone e mantello che cerca sé stesso, esiste e vive, dunque, immerso nella natura, la quale rappresenta il campo in cui si esprimono e si realizzano i disegni del Divino. Così la concepisce Klopstock, cantore di una vitalità essenziale, profonda, in cui anche il tuono, la folgore, devono essere ammirati e capiti; perché capire ed ammirare la folgore sarà capire ed ammirare Dio.
Nella stessa prospettiva, ma più lontano da una visione personale cristiana e allo stesso tempo più vicino ad un panteismo cosmico e pagano, si colloca Goethe, la cui opera è come poche ricca di Wanderung; è un viandante Guglielmo Meister, che, nella Theatralische Sendung (La vocazione teatrale) rinuncia alla sicurezza borghese per seguire l’imperativo della sua passione interiore ed una compagnia di squattrinati artisti girovaghi; per incontrare poi, nei Lehrjahre (Anni di apprendistato), quell’imperativo – “Ricordati di vivere!” – che rammenta la necessità ed il diritto all’entusiasmo, allo sguardo infantile, meravigliato e divertito sul mondo e sugli uomini anche da parte di chi non è stato mai o non è più Wanderer, e nel benessere borghese ci vive gratificato. Molte sono le liriche, nella poesia goethiana, ispirate alla Wanderung; indimenticabile e commovente la quiete religiosa emanata dai pochi versi che compongono il Wanderer Nachtlied.
Su tutte le vette è silenzio,
dalle cime degli alberi odi
appena un sospiro.
Gli uccellini tacciano nel bosco.
Attendi, solo: presto riposerai anche tu.
Sguardo infantile, meraviglia e allegria; talvolta anche rifiuto dell’universo limitato ed organizzato nella quotidianità; ecco alcune caratteristiche che possono perciò contraddistinguere il Wanderer romantico. Le incontriamo in Aus dem Leben eines Taugennichts (Vita di un perdigiorno), di Eichendorff, dove il protagonista canta:
Dio vuole dimostrare il suo favore a chi
manda per il vasto mondo,
Egli vuole mostrare le sue meraviglie
Sui monti, nel bosco, al fiume, nei campi.
Lo stesso spirito informa anche il primo Lied del ciclo Die Schone Mullerin (La bella molinara) di Müller, musicato da Schubert. Questa lirica è diventata una vera e propria canzone popolare.
Il cammino esistenziale del Wanderer può anche condurre ad un esito infausto e questo comincia quando il movimento non è più essenziale a se stesso ma diventa una tensione verso qualcosa, una ricerca esteriore; «Dove tu non sei, là è la felicità», recita la lirica Der Wanderer di Schmidt. Si compie quando la volontà di solitudine di Einsamkeit prende il sopravvento sulla necessità e sul desiderio di socializzare. «Chi solitudine sceglie, ben presto solo sarà», canta il vecchio arpista nella Theatralische Sendung; l’uomo, essere sociale, riesce ad espandere tutte le sue potenzialità, ad esistere totalmente solo vivendo nel sociale; andando incontro agli altri, parlando il loro linguaggio. Rinunziare al mondo, chiudersi totalmente nell’individualità, significa rinunziare ad una parte di sé; la dilacerazione (Zerrissenheit) che ne consegue apre il baratro dell’ipocondria, della schizoidia, della follia, scelta e/o destino tragico di molte importanti figure artistiche dell’Ottocento romantico. Goethe esemplifica bene questi stati d’animo in uno dei suoi inni più belli: Harzreise im Winter (Viaggio invernale nello Harz).
Nella macchia il sentiero si perde,
dietro i suoi passi
si chiudono di colpo gli arbusti,
si rialzano l’erbe,
l’inghiotte la solitudine. (…)
Dapprima spregiato, or spregiatore,
segretamente, in inetto
amore di sé,
il proprio valore consuma.
Anche a questa infausta avventura dello spirito spetta una Waderung privilegiata: è la Winterreise (Viaggio d’inverno), ciclo liederistico ancora di Müller e musicato da Schubert. La natura, da madre amorevole si è qui fatta strega e matrigna; il paesaggio invernale, bianco e gelido, che accoglie nella monotonia i passi del protagonista, che fugge da una wertheriana delusione amorosa, non promette più calore né primavera. Il tempo si annulla; non esiste una sequenza narrativa, non esiste più il passato né il futuro, ma solo un disperato, eterno presente. Esiste solo un’amarissima riflessione sulla crudeltà ed ostilità umana; l’innavicinabilità alla comunità degli uomini o, più generalmente, dei viventi, da cui il protagonista si esclude e si sente escluso; la scelta, nell’ultimo Lied, di condividere il cammino con un altro reietto, un vecchio mendicante suonatore di organetto, molto simile all’arpista di Goethe. Raramente la musica, in tutta la sua storia, ha conosciuto note tanto tragiche, agghiaccianti quanto quelle con cui Schubert ha saputo magistralmente rivestire la Winterreise.
Con il progredire dell’Ottocento il mondo germanico diviene sempre meno adatto alla Wanderung. La ricerca spirituale individuale non trova più posto in un sistema di vita dove l’operosità è finalizzata esclusivamente al profitto ed al dominio sulla natura, dove oggetti e comportamenti vengono standardizzati nel gusto Biedermeier, dove l’unico tipo di analisi conoscitiva cui viene data credibilità è quella scientifica. Goethe e Müller descrivevano uomini che si chiudevano nei confronti del mondo, ora si può assistere ad un mondo che si chiude nei confronti dell’individualità.
La Wanderung viene relegata ad uno spazio circoscritto, lontano dalla vita quotidiana; quello della solenne liturgia wagneriana, che celebra se stessa ed il popolo tedesco. È un mondo onirico, mitologico, ma anche, necessariamente, artificiale, perché scenico.
La staticità monolitica è caratteristica propria dei regimi totalitari. L’assurdo progetto hitleriano di Germania, un’acropoli di dimensioni colossali, progettata a Berlino e mai realizzata a causa dello scoppio della guerra, esemplifica ciò perfettamente. Niente di imprevedibile, quindi, nel fatto che gli anni del nazionalsocialismo non portino fortuna al Wanderer. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per vedere il premio Nobel attribuito ad un grande scrittore: Hermann Hesse, che ha fatto della Wanderung la caratteristica costante dei suoi personaggi, in Oriente come in Occidente alla ricerca della propria identità spirituale che nasce ed esiste nella dialettica eterna e pregnante tra interiorità ed esteriorità[22. Ibidem.].
1.4.3. Il lungo cammino di Giovanni Paolo II
La bussola di questo Pontificato non indica il nord, ma l’umanità.
Per questo gira in tutte le direzioni.
(Giovanni Paolo II)
Tra i tanti viaggiatori partiti per il mondo con il fine di potare un messaggio di evangelizzazione ai popoli della Terra, è impossibile dimenticare la figura che più di ogni altra ha lasciato un segno indelebile nella memoria e nei cuori della gente.
«Roma non è più a Roma ma, proprio perché a cuore di una Chiesa pellegrina, è diventata pellegrina anch’essa sulle strade del mondo». Dalle parole di Giovanni Paolo II si coglie il significato dei numerosissimi pellegrinaggi che lo hanno spinto a girare il pianeta. Ogni viaggio ha assunto il valore di un pellegrinaggio al santuario vivente del Popolo di Dio[23. http://www.international.rai.it/cristianita/giovannipaolo/viaggi1.shtml]. Dall’inizio del suo Pontificato, ha compiuto 146 visite pastorali in Italia. I viaggi apostolici nel mondo sono stati 104. Nessun Papa ha incontrato tante persone come lui[24. http://www.cronologia.it/storia/biografie/wojtyla.htm], che ha viaggiato più di tutti i precedenti papi messi assieme. Mentre alcune delle mete dei suoi pellegrinaggi (come gli Stati Uniti e la Terra Santa) erano già stati visitati dal predecessore Paolo VI (soprannominato a volte “il Papa pellegrino”), molti altri paesi non erano mai stati visitati in precedenza da alcun altro Pontefice. Giovanni Paolo II è stato il primo Papa in carica a recarsi nel Regno Unito, dove ha incontrato la Regina Elisabetta II ed il Capo della Chiesa Anglicana. In quella occasione, compiendo un gesto di alto valore simbolico, si inginocchiò in preghiera insieme all’Arcivescovo di Canterbury nel luogo più sacro della Chiesa Anglicana: la Cattedrale di Canterbury[25. http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_dei_viaggi_pastorali_di_Papa_Giovanni_Paolo_II]. Tra i viaggi più rilevanti nella storia del suo pontificato ricordiamo in particolare quelli realizzati all’insegna del dialogo ecumenico, interreligioso e politico: la visita alla Sinagoga di Roma (1986), l’incontro con Fidel Castro a Cuba (1998), la preghiera al Muro del Pianto di Gerusalemme durante il pellegrinaggio in Terra Santa del 2000 e il viaggio in Grecia e in Siria (2001) che ha segnato il disgelo con gli ortodossi e l’apertura all’Islam[26. http://www.international.rai.it/cristianita/giovannipaolo/viaggi1.shtml].
1.4.3.1. Un Pontificato in diretta
Attraverso le testimonianze di alcune tra le persone che sono state più vicine a Giovanni Paolo II il libro Karol Wojtyla, un Pontefice in diretta. Sfida e incanto nel rapporto tra Giovanni Paolo II e la Tv ricostruisce la figura di un uomo che ha ripensato alla missione complessa e universale della Chiesa. Un uomo che ha dato prova di straordinaria capacità educativa e creatività pastorale e culturale; che ha saputo penetrare l’inquietudine del cuore dei giovani ed entrare in profonda sintonia con loro; che ha comunicato speranza e fiducia al mondo[27. L. Lauretano, Karol Wojtyla, un pontefice in diretta, in ww.w.korazym.org]. I viaggi di Karol Wojtyla hanno disseminato in tutte le culture del mondo i principi cristiani basati sull’amore e hanno contribuito ad abbattere il muro che divideva l’Europa, riportandola alle sue radici cristiane. Tutto è nato da quel «non abbiate paura» pronunciato nel suo primo discorso, il 22 ottobre 1978.
Giovanni Paolo II è stato un uomo che ha saputo concentrare e trasformare le sue volontà in atti simbolici: la visita alla Sinagoga di Roma, la lettera inserita tra le pietre del Muro del Pianto e la visita al Memoriale dello Shoah di Yad Vashem a Gerusalemme. È stato il pontefice che ha ideato la giornata di Assisi, che ha toccato il Dalai Lama, che ha abbracciato gli indiani d’America, che ha visitato il memoriale del genocidio armeno a Erevan; il pontefice che ha portato la spiritualità ovunque, facendola scoprire a tutto il mondo. Il suo incoraggiamento è stato indirizzato a tutti i popoli, a tutti gli uomini, nessuno escluso.
Dal 1978 al 2005 sono trascorsi ventisette anni di pontificato, tutti interamente documentati dalla televisione: dal primo viaggio in Messico all’ultimo in Svizzera, dalle giornate mondiali della Gioventù cariche di gioia ai momenti tristi dell’attentato in Piazza San Pietro, dai discorsi per la pace agli incontri interreligiosi di Assisi, e, infine, alla cronaca minuto per minuto della sua lenta agonia terminata il 2 aprile 2005 alle ore 21,37.
Il 19 ottobre 2006, in occasione del ventottesimo anniversario dell’elezione di papa Wojtyla, in una conferenza presso la Radio Vaticana, è stato presentato il libro Karol Wojtyla, un Pontefice in diretta, a cura di Giuseppe Mazza, con allegato un dvd che ripercorre l’intero pontificato del Papa polacco dal punto di vista del suo rapporto con la tv, perché Giovanni Paolo II ha voluto affidare “in diretta” alla televisione tutto il valore del proprio messaggio profetico. Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana e autore della prefazione del libro, ha affermato che col pontificato di Giovanni Paolo II, tutti gli operatori del mondo televisivo si sono sentiti nobilitati, chiamati a svolgere un grande servizio, a portare messaggi utili e importanti per tutta l’umanità, aggiungendo che «proprio in un momento in cui si parla della bassa qualità generale della tv, questo dà una speranza per il futuro: di poter continuare a portare grandi messaggi nel mondo»[28. G. Mazza, Karol Wojtyla, un pontefice in diretta. Sfida e incanto nel rapporto tra Giovanni Paolo II e la Tv, Roma, Rai Eri, 2006.].
Il pontificato del grande comunicatore Karol Wojtyla ha accompagnato la rivoluzione del sistema mediatico. Eletto quando le tv private italiane erano ai loro esordi e non esisteva ancora il Web che ha reso popolare Internet, Karol Wojtyla è diventato protagonista di una rete di comunicazione globale profondamente evoluta. In occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 12 maggio 2002, Giovanni Paolo II trasmetteva per la prima volta un messaggio on line dal titolo eloquente, Internet: una nuova tribuna per l’affermazione dello Spirito, nel quale invitava a usare la rete digitale con creatività per diffondere la Parola di Gesù Cristo. Nello stesso anno usava il Web per spedire la sua esortazione post sinodale Ecclesia in Oceania.
La Grande Rete Mondiale, il World Wide Web, è diventato così ufficialmente uno strumento fondamentale per le comunicazioni sociali della Santa Sede, impegnato a promuovere l’informatica nei Paesi in via di sviluppo.
È del 24 gennaio 2005 la lettera apostolica Il rapido sviluppo, dedicata al mondo dei mass media e a Internet in particolare, in cui Giovanni Paolo II scrive che Internet «non solo fornisce risorse per una maggiore informazione, ma abitua le persone a una comunicazione interattiva»[29. L. Lauretano, Karol Wojtyla, un pontefice in diretta, in www.korazym.org].
1.5. Il viaggio della speranza
Tra le molteplici tipologie di viaggio fin qui trattate ce n’è una, in particolare, che non si può tralasciare, giacché essa si è rivelata determinante per la vita di migliaia di uomini e donne.
Verso la fine dell’Ottocento si intensificarono i flussi migratori che portarono i nostri avi in giro per il mondo, come semi trasportati dal vento e disseminati ai quattro angoli del globo, nei quali trovarono terreno fertile, germogliarono e diedero dei frutti.
Quella dell’emigrazione è una pagina della nostra storia che meglio dovremmo conoscere per capire, ricordare, amare e rispettare ancora di più tutti coloro che partirono alla volta dell’ignoto e non ricordare solo gli “zii d’America” arricchiti e vincenti. Esiste tuttavia un’altra realtà a molti di noi sconosciuta e drammatica, che potrebbe aiutarci anche a convivere meglio con gli immigrati che oggi inondano le nostre città, annullando ogni impulso xenofobo, sconfiggendo i nostri pregiudizi ed evitando così di condannare con troppa facilità certi comportamenti, non sempre giustificabili, che sono appartenuti probabilmente anche ai nostri trisavoli, perché non è vero che quando “noi” eravamo gli immigrati degli altri Paesi eravamo migliori o più amati.
La storia dell’emigrazione italiana è comunque una storia carica di verità e di bugie, in cui non sempre si può dire chi avesse ragione e chi torto. A tal proposito è davvero sorprendente il quadro delineato da Gian Antonio Stella nel libro L’orda, quando gli albanesi eravamo noi[30. G. A. Stella, L’orda, quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Mondatori, 2002.], in cui documenti, aneddoti, storie ignote, ridicole e sconvolgenti ci sbattono in faccia delle verità scomode e terribili, come quelle che spesso oggi rinfacciamo agli immigrati che trovano nel nostro Paese la loro America.
Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare d’avere importato noi negli States la mafia e la camorra. La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E se andiamo a ricostruire l’altra metà della nostra storia, si vedrà che l’unica vera e sostanziale differenza tra “noi” allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto[31. Ivi, p. 13.].
Tutto questo, però, per l’autore del libro non significa di certo via libera al buonismo incondizionato, esortazione all’apertura totale delle frontiere o all’esaltazione scriteriata del melting pot. Tutto ciò vuole indurre, piuttosto, alla riflessione e al rigetto di ogni forma di razzismo, che sembra crescere sempre più in una società come la nostra, rimuovendo una parte del suo passato.
Purtroppo, uno dei film più rappresentativi della condizione dell’emigrante siciliano di fine Ottocento non è stato incluso nella cinquina di film nominati agli Oscar per la migliore pellicola straniera dell’anno 2006. Qualcuno ha osato definire Nuovomondo di Emanuele Crialese, vincitore del Leone d’argento a Venezia, più che un film una poesia, recitata non in italiano, bensì in siciliano e distribuita con i sottotitoli. La scelta del dialetto è, dunque, significativa, perché permette a tutti i siciliani nel mondo di chiudere il cerchio del loro peregrinare, evocando ed esorcizzando il dramma che più di ogni altro ha segnato la loro storia[32. www.laltrasicilia.org].
Da quando ho visto il film, ogni tanto la sera mi soffermo su di un baule da viaggio di fine Ottocento che tengo ai piedi del letto. Su di esso sono ancora incise con un punteruolo le iniziali della mia trisavola che, dopo essere emigrata negli Stati Uniti con la famiglia, decise di tornare in Sicilia. Acquistò il baule, lo riempì e lo affidò ai facchini. Come esso sia arrivato a me, tra le due guerre mondiali e la sistematica distruzione di tutto ciò che sapeva di siciliano e di popolare tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento, non saprei dire[33. Ibidem.].