La mistica del cervello. La luce del demonio sollevava polvere
negli occhi impuri della mia fecondità.

Amelia Rosselli

È tornata a intercettare, quasi per caso, l’antenna spezzata radiofonica di un apparecchio obsoleto e usurato, tra le mani di dispersi (completely lost) in una zona desertica non identificata, irrintracciabile su carte e mappe, perfettamente scissa tra invisibile visibilità onirica. Si sono girati di scatto ai primi gorgheggi rauchi, sputati senza senso dagli altoparlanti rotondi, fori minuscoli, minuscole mosche intrappolate nei fori, i musi sporchi, i vestiti laceri, gli occhi incattiviti dal senza tempo, i capelli collosi di muffa, i denti marci di radici addentate arroventate, le orecchie sorde al frusciante stridore di sabbia, del vento, granelli e granelli. Di punto in giallo (e dune) così la radio si è rimessa in moto, il loro scatto demonico verso quel rumore umano, ipnotico, prima lentamente poi come impazziti alla ricerca di un’unica stazione fragorosa, era lì da intercettare: la mistica del (mio) cervello, e tutti a saltare e strapparsela di mano in mano, di bocca in bocca, per bearsi di una fonte aerea a frequenze illimitate.

Incauta ricorrevo all’aldilà ma fui ben presto scottata da / mani invidiose.

Così le mosche entrarono una per una scavando impazzite tra i fori e il timpano, le sentivo ronzare come mani avide di dolce fecondità: pur non conoscendo la mia lingua ascoltavano storpiandolo il suono sublime del suo movimento verso i mondi erranti di un controtempo. Polvere mi cadde nello sguardo, ombre mi attraversarono l’udito storpiato, macchine nere informi a spandersi nel gusto, onde di fetore mi schiantarono l’olfatto, voci infuriate sature mi chiusero le parole, afasica sbandavo da ubriaca cercando la punta in cui sfracellare la luce, far uscire le mosche, disperdere i gesti fatali nelle loro (apparenti) dannazioni.

Per smettere di collegare ciò che accade a ciò che dovrà accadere mi allungo e cado, indietro, nel volo disteso di un ralenti che non giunge, spalanco braccia e petto al silenzio (di grazia in attesa) sfidando la quadratura del circolo infame che noi solleviamo / al di sopra di ogni sapienza. Comincio nel sonno, risalgo il contrario, galleggio a sconfiggere in volo quanti credono di poter incenerire l’aria che mi solleva, attraversare una soglia divina che li separa da me. Per proteggermi indosso un cappello a elettroshock. Sembra non ci sia freddo né caldo, è la stagione degli sproloqui (delle urla isteriche, delle furie che vorrebbero amputare le dissolvenze, impedire un astro alle espansioni). Il cappello telepatico isola le mie frequenze versificate dai demoni assetati di realtà prigioniera di altri demoni ancora. Un cappello a frange mistiche che illumina questo cuscino impuro. Schiudo le palpebre alla vertigine e mi sento stancafelice. Ognuno ha il suo prete privato io sconfesso il mio: potrebbe essere un cuscino una cornetta telefonica muta una parrucca – l’invenzione poco originale (quanto ogni peccato libertino) di una bacchetta (poco, troppo) magica per farmi diventare una lucertola attaccata alle pareti, con una lingua elastica risucchiamosche e moscerini e ancora più beata (perché verde, veloce a scatti e) per grazia (ricevuta) silenziosa.

“Perché non parli?”
“Perché non cedo alla tentazione del demone!”
“Cosa intendi?”
“Se parli col demone, di cui non capisci una parola, ma pensando di poterlo convincere e che lui, sì, possa capire la tua lingua, finisci poi al contrario, cioè per scimmiottare il suo dire e impararlo a memoria, entrando con lui all’unisono e dimenticando il tuo pensiero originale”
“Ah… ora è tutto chiaro, pensiero e peccato vanno a braccetto”
Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te
“Un abisso come può essere chiaro?”
“Chiedilo a quel demone con cui scrisse questa frase”
“Un demone una frase?”
“Usa spade incandescenti, memorie alterne e potentissime, scrivendo puoi spalmare i demoni dentro le parole, essiccarli tra le grate di un parafrasare incancellabile, sgretolare i loro scheletri nelle punteggiature, dissociare le loro anime perfide nelle significazioni multiple equivoche, smembrando i loro voleri, condannando i loro poteri potentissimi a una visibilità, a una confessione, prendi per esempio A. Rosselli…

 
Condannata a far finta mi risollevai dalla polvere ben presto
per inginocchiarmi alla fonte delle benestanti. Le protestanti
non attecchirono ormai più la mia freschezza ingenua e con
tutto candore perdonai ai più villani, vecchi digiuni. Cuore
che tanto digiuni scostati dalla rabbia e rimani potente
signore.

 

Come lei. Mi aggrappo alle frange mistiche del mio cappello, custodite e protette da un dono telepatico, spicco il salto da un ramo a un altro, ritorno alla mia missione: errare da un mondo (blu) all’altro, verso un paradiso di smeraldo OLD JOY (di cui scriverò la prossima volta).

Maristella Bonomo

E' nata a Catania ma vive a Roma. Si è laureata in cinema al Dams di Bologna con una tesi su Proust e il cinema. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Italianistica, sempre all’Università di Bologna, sulla sceneggiatura cinematografica. Ha pubblicato alcuni racconti sulle antologie: I racconti della Garisenda (Re Enzo editore, Bologna, 2002), Gli Intemperanti (Meridianozero, Padova, 2004) e I racconti sul caffè (Caffè Moak, Modica, 2005) e in alcune riviste e quotidiani. Sue poesie sono apparse nella rivista Graphie, nelle antologie Donne e poesia (Giulio Perrone editore, Roma 2007) e Eros e poesia (Giulio Perrone editore, 2007). La sua prima raccolta di poesie Passi segreti è edita da Prova d’Autore (Catania, 2008). La sua prima raccolta di racconti Riflessi è edita da Giraldi editore (Bologna, 2009), con una postfazione di Enrico Ghezzi. Sempre con Enrico Ghezzi ha realizzato quattro videoclip per il duo pianoforte e voce Mama’s Gan. Ha lavorato come redattrice, critica e traduttrice per le riviste letterarie ClanDestino e Griseldaonline.