Ho visto la tartaruga marina. Appoggiata sul fondale, a circa 4 metri da noi, ricoperta di pesci parassiti, se ne stava lì, adagiata silenziosa, incurante del centinaio di fanatici turisti che, per vederla, son venuti da tutta Italia ad Abu Dabbab. Io son qui, da Milano, la città del Duomo più spettacolare, a scrutarla mezza morta dopo un’ora di snorkeling lungo la barriera corallina più spettacolare.
Ce ne sono altri di duomi simili, e anche molto simili. A Colonia per esempio. E ce ne sono altre di barriere. Alle Maldive. E in Australia. E sebbene io ci sia stata, nel Queensland, non ho fatto immersioni nemmeno là; ma nemmeno lo snorkeling fatto qua perché il mio dolce accompagnatore non apprezzava e non apprezza tuttora le magie dei fondali. E dell’acqua che in generale, se non di quella che scorre racchiusa in tubature e ferro e bulloni.
La tartaruga stava lì. Sul fondale egiziano a 4 metri circa da me, mezza morta per star dietro alla mia guida che guizzava tra un pesce pagliaccio e l’altro, tra un fondale e l’altro, attenta a mostrarmi i segreti del suo mare. Lui che, nato fra le onde e a suo agio tra delfini e dugonghi, dugongo lui stesso a giorni alterni per sfatare che il dugongo appunto sia solo un mito per attirare turisti ignari, lui che si sentirebbe a suo agio anche fra la natura mutevole, cangiante nel corso dell’anno, della val di Fiemme. Come cazzo facesse a conoscerla davvero rimane tuttora un mistero.
Lui, Mohamed dagli occhi grandi e scuri e dall’unghia del mignolo lunga lunga, lui che con un sorriso mi ha salutata da dietro il vetro, standosene lì, immobile, con la sua maschera in una mano e gli asciugamani dimenticati sul pullmino dai turisti più distratti sull’altro braccio. Era lì per me, all’entrata del suo resort, ed io, per un attimo, mentre mi allontanavo lenta sul pullmino verso il mio di resort, io, per un attimo, sono stata lì per lui … forse. O forse era solo la sensazione che già preannunciava il disastro. Il distacco. L’abbandono. L’andare a rotoli che mi avrebbe aspettato al mio rientro.
Avrei potuto rimanere in quell’attimo. E forse il rientro sarebbe stato meno disastroso. Perché, verme lui, avrei potuto esserlo altrettanto anche io.
Ma, si sa, gli attimi sono fatti per essere fuggenti.
E io, in genere, non li colgo mai. Peccato. O per fortuna. Chi può dirlo alla fine?
Io me ne sto, in genere, immobile a guardarli questi benedetti attimi. Immobile come su un fondale mentre loro si arruffano e annaspano su, più su, sulla superficie dell’acqua ad un passo da sole. Ma io sto sotto. Sul fondale. A scrutare, come la tartaruga immobile di Abu Dabbab, gli attimi che vanno e quelli che vengono e che, frenetici, si susseguono a immortalare la vita degli altri. Io me ne sto immobile a imamgina re come sarebbero i rapporti con qualcuno che non è di questo mondo piuttosto che vivere quelli di questo, perché, come dice Amelie, è certo meglio consacrarsi agli altri piuttosto che a un nano da giardino.