Al momento stai visualizzando Un demone che sogna

“Si definisce zoonosi ogni infezione animale trasmissibile agli esseri umani. Ne esistono molte più di quanto si potrebbe pensare. […: ] siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre” (D.  Quammen, Spillover, 2012);   “ Credo che le mascherine non le toglieremo mai più (E. De Luca, Italia a volto coperto…, “Il Fatto quotidiano”, 8 marzo 2021).

Nel tempo delle ‘mascherine da pandemia’, protesi coatte per l’umanità globalizzata, prodotte a miliardi nel mondo e problematiche da smaltire, un romanzo ‘in atto’ – corredato da un’intertestuale, empatica Postfazione di Plinio Perilli – è quello di Marco Palladini I virus sognano gli uomini (Roma, Ensemble, 2021, pp. 160, € 15,00), trasvalutatore delle false idee su un evento col quale non c’è modo di confrontarsi se non vivendolo come una fenomenologica esperienza di consapevolezza. Ciò, al di là di quelle che l’autore chiama “favole complottiste”, quale, per esempio (ndr), l’affermazione, secondo taluni apocrifa, del leader libico Mu‘ammar Gheddafi: “Creeranno dei virus e ti venderanno gli antidoti e poi faranno finta di aver bisogno di tempo per trovare una soluzione quando già ce l’hanno. […] Le aziende capitaliste producono virus in modo che possano generare e vendere vaccinazioni. Questa è un’etica molto meschina e miserabile. Vaccinazioni e medicine non dovrebbero essere vendute” (Discorso 64° all’Assemblea Generale delle Nazioni, New York, 23-29 settembre 2009). Poi, nel 2011, Gheddafi viene assassinato a Sirte.

Dubitando che, con l’avvento della Next Big One, la grande pandemia Covid-19 (pervenuta dopo Ebola, Sars, Aviaria, Hendra, Influenza suina, Mers, Zika, Aids), si possa tornare alla vita di prima, e dopo i riti di una politica sanitaria che trascura i problemi di biodiversità causati dai comportamenti umani (inquinamento, cambiamenti climatici, deforestazione, coltivazioni transgeniche, allevamenti intensivi, commercio illegale di animali selvatici) mentre favorisce l’obsolescenza d’ogni critica dello stato di cose, Palladini ricerca uno spazio franco tra la dogmatica “narrazione ufficiale del Contagio” e una farraginosa “contronarrazione paranoico-dietrologica”. Gli occorre insomma maturare una riflessione che, misurando il verosimile e il possibile, tesi e antitesi, possa pervenire a una sintesi ermeneutica: a una verità non consolatoria sull’onnipervasivo coronavirus, malattia zoonotica – si dice –, trasmessa globalmente da un animale selvatico giunto dai mercati di animali vivi di Wuhan in Cina.

   Il pandemico spettacolo d’una prossima, normalizzata, mortifera convivenza col contagio in nome della produzione capitalistica o del libero mercato, ha imbecilli minimizzatori e impotenti testimoni; e marca la condizione umana nel XXI secolo in un contesto mondiale “unificato pressoché all’istante dal virus”: che non è un essere vivente, ma – riflette il filosofante protagonista del romanzo, Lafcadio Morriconi – è una forma imperscrutabile d’intelligenza tutt’altro che metafisica considerando i suoi effetti. Agente patogeno, specie di zombi o morto che cammina, il virus è divenuto un orrido sogno (“I virus sognano? Mi piacerebbe saperlo” dice Lafcadio), un incubo con ali di pipistrello che ti apposta, ti tampina, t’invade; e, per non farsi neutralizzare, muta di continuo. Ti svegli ogni mattina ed esso è sempre lì con te, identificandosi, alfine, con la dominatrice ‘natura naturans’ spinoziana, con quella ‘matrigna’ leopardiana o con la stessa complessione umana: “Homo homini virus”.

Diversamente da Lafcadio, sua moglie, la bionda Danka, slava di Spalato con probabili origini rom e saputella patita di new age, non a torto attribuisce il virus anche alla “crescita illimitata” sostenuta dall’economicismo selvaggio e si affida alla meditazione parareligiosa, ai maestri della “vita interiore” e del non ‘attaccamento alle cose’; ma la cui “vita esteriore” – deplora Lafcadio isolato nel proprio giardino a contemplare l’impassibile luna – è poi una fiera della ricchezza materiale e del lusso.

   Se un po’ litigano, i due coniugi, è solo per non soccombere al silenzio indotto dalla loro quotidianità reclusa e assediata da un capillare, totalitario controllo, tale che miliardi di soggetti si ritrovano pedinati da app di tracciamento in ogni loro attività o manifestazione. Le stesse incursioni di Lafcadio sul web affollato di utenti che, senza conoscersi, s’inseguono con le loro fisime sono esercizi di fuga da una mediocre umanità: “perché nessun uomo desidera conoscere veramente sé stesso. Sarebbe un trauma, un dramma, uno shock assoluto sapere chi si è realmente. Ossia, in definitiva, un ributtante mostro”: perfino meritevole del virus che lo vorrebbe annientare (?).

   Elevato dall’impertinente moglie Danka a megalomenico “dio Lafca”, invero un depressivo nume interiore dei propri stessi turbamenti psicofilosofici, afflosciato su una sdraio Lafcadio pensa alle amicizie smaterializzatesi per la mancanza di contatti e valuta la possibilità che ciascun amico possa rivelarsi un untore infetto. Oppure rimugina sui giorni divenuti sempre uguali e sulle parole della spassionata psicologa “Rossella P.” persuasa che il morbo, oltre a essere un pretesto per sopprimere la libertà nonché l’esito d’un demoniaco progetto di sterminio di massa, non avrà fine; o, se finirà, ne arriverà un altro ancora peggiore. Secondo lei, dal virus non c’è scampo e con esso, definitivamente diffuso nei gangli del mondo, si dovrà cominciare a convivere: per il resto ci penserà il virus, ineffabile darwinista, a selezionare i forti e scaricare i deboli.

   Da simile prospettiva iperrealistica, Lafcadio, inguaribile “sognatore cosmico o caoscosmico”, non può fare a meno di fuoruscire proiettandosi in una dimensione ‘altra’ che vorrebbe essere ‘alta’: quanto quella, supremamente istruttiva, di un Ennio Flaiano secondo cui “avere i piedi saldamente poggiati sulle nuvole” consentirebbe di sfuggire alla cappa pesante di “una ragione sempre spuria e impura […,] costantemente inquinata dalla psicolabilità della mente” e di “avere una vista più ampia [ – ] e si respira meglio”, affrancati dal soffocamento virale.

Presto, sulle ali del sogno ad occhi aperti, Lafcadio richiama in vita il defunto padre Gianandrea, deludente anaffettivo, defunto quasi giovane, che lo interroga sul catastrofico evento e intanto gli dice che, nell’aldilà, esso è creduto “un castigo divino”. Filosofo del dubbio, Lafcadio pensa invece al contagio come a un fatto naturale; ma, riflettendo, possibilmente “anche no” considerato che “la natura propone, ma poi l’untore dispone…”.

   In ogni caso, per il redivivo Gianandrea gli accadimenti prossimi venturi sono da considerare assai prevedibili. “Non può finire bene… almeno non per tutti…” chiosa mentre si perde nel suo oltremondo non bisognevole di mascherine divenute per i vivi degli indispensabili, pittoreschi, pseudoimmunizzanti ripari: mascherine d’ogni foggia, “floreali o versicolori […,] a pois, leopardate, con disegni scheletrici, fumettistiche, da mutandine di pizzo, piene di emoticon, occhi, cuori e cuoricini, ideogrammi cinesi” ecc.

Più volte Lafcadio Morriconi ha provato a immaginare la possibile fine del mondo: l’impatto mirato di un asteroide, un little big bang, un’apocalisse purchessia con repentina e universa ecatombe… Macché, ci voleva una non prestabilita, impensata, microscopica o infinitesima entità, l’alieno spillover che fa salti di specie e adesso lo cogliamo soffermarsi proprio dinanzi a Lafcadio, “faccia a faccia”.

   Chi sei? – lui gli chiede.

   “Io sono la natura” è la paventata risposta.

   La natura malvagia e piena di realtà bollata da Leopardi?… Ma – eccepisce Lafcadio – “una natura che detesta gli uomini, detesta anche sé stessa, perché in fin dei conti pure gli uomini sono natura. [Eh, aspettati] il vaccino che ti stroncherà”.

   Sappi bene – riepiloga il virus – che, con progressione esponenziale, inarrestabile, “ne arriveranno altri dopo di me […,] comunque non avrete scampo”.

   Così, pervaso dal virus che non dà spazio a nessuna speranza, Lafcadio muore contagiato dal demone virale: sennonché si sveglia urlando… Forse non è morto se una sera la moglie Danka lo vede nella sua stanza, seduto alla scrivania, iperconnesso davanti all’inseparabile computer.

Al contrario di quanto avvenuto negli anni fra le due Guerre mondiali con la febbre Spagnola che, pure provocando milioni di morti in tutto il mondo, è rimasta pressoché ignorata dagli scrittori, nel suo libro dall’intensa temperie letteraria Palladini narra la vicenda d’un Lafcadio dimidiato alter ego che, appassionato di barche a vela, ha sperato, solcando i mari, di potersi affrancare dal contagio come dagli imperversanti “signori della pandemia”, molesti scienziati virologi giornalisti e opinionisti à la carte. Nel frattempo, non sa evitare di seguire i pervasivi media guardiani della sua routine a persuaderlo che per l’infelice umanità patologizzata esista dopotutto Il Salvifico Vaccino: la cui efficacia, a ben vedere, appare più che altro una scommessa.

Stefano Lanuzza

Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.